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2. L’epistemologia della soggettività

L’essenza della coscienza è la sua impossibilità di essere eliminata.

– Enzo Paci

Il mondo è inseparabile dal soggetto, ma da un soggetto il quale non è altro se non una proiezione del mondo; il soggetto è inseparabile dal mondo, ma da un mondo che egli stesso proietta.

– Maurice Merleau-Ponty

Come abbiamo visto nell’articolo sull’epistemologia presoggettiva la crisi dei fondamenti che ha investito la scienza nella prima metà del ‘900 ha portato con sé la fondamentale questione della soggettività, definita da qualcuno il problema difficile delle scienze contemporanee (Chalmers, 1996). Il riconoscimento dell’esistenza del soggetto ha consentito di accedere ad un nuovo dominio di domande: si può conoscere la realtà? Quali sono le condizioni di possibilità di questo conoscere? Il soggetto ha accesso al mondo in cui si trova situato e agli altri soggetti che lo popolano oppure è chiuso per sempre in un vacuo solipsismo? Attorno a queste domande la fenomenologia ha costruito la propria storia e la propria identità.

In ambito filosofico è giusto riconoscere a Cartesio il merito di essere stato un antesignano della visione soggettiva[1]. Egli è stato il primo, infatti, a porre al centro della propria riflessione, anche se con conseguenze a volte poco condivisibili[2], la caratteristica dell’uomo di essere costruttore del proprio mondo, “ponendosi il problema tra il mondo simbolizzato dal soggetto e la realtà esterna, extrasoggettiva” (Ariano, 2005, p. 126). E in effetti è proprio dal Cogito cartesiano che Husserl e i fenomenologi partono, riconoscendo l’importanza dell’esistenza contingente di un soggetto gettato nel mondo:

Il nostro punto di partenza è in effetti la soggettività dell’individuo, e questo per ragioni strettamente filosofiche. (…) Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che coglie se stessa (Sartre, 1946, trad. it. p. 61).

A partire da questa considerazione, la fenomenologia ricerca un modo nuovo di fare scienza, che dopo aver escluso la possibilità di conoscere una realtà oggettiva ed esistente in sé, ricomincia dai fenomeni così come essi si danno alla coscienza immediata, per tentare un ritorno alle cose stesse (Zu den Sachen selbst!). Questo compito, però, si rivela da subito non facile.

Il primo passo è quello di dissolvere le illusioni dell’atteggiamento naturale mediante una radicale messa tra parentesi dei pregiudizi (epoché)[3]. In questo consiste l’atteggiamento fenomenologico (applicabile anche dallo psicologo clinico e dallo psicodiagnosta): una sospensione dei pregiudizi che permetta ai fenomeni di venire alla coscienza nella loro forma di datità originaria. Questo tipo di atteggiamento si deve fondare su un procedimento di riduzione che è precisamente “un’improvvisa, transitoria sospensione di credenze rispetto a ciò che si sta esaminando, una messa in questione del nostro abituale discorso riguardo a qualcosa, un mettere tra parentesi la struttura preventiva che costituisce lo sfondo onnipresente della vita quotidiana” (Varela, 1997, p. 75). Si tratta, in pratica, di un metodo che espone il soggetto conoscente in prima persona, lo mette alla berlina, non consentendogli più di celarsi all’ombra di strumenti di misurazione obiettivi ed indiscutibili.

Nel caso dello psicodiagnosta, ad esempio, ciò si traduce in un coinvolgimento esistenziale con l’esaminato[4] per incontrarlo lì dov’è, impegnandosi in un progetto di comprensione (Verstehen) oltre che di spiegazione (Erklären)[5] che chiama in causa l’intero Dasein dello psicologo. Ciò richiede, e questo vale per l’atteggiamento fenomenologico in ogni campo della conoscenza, “un rivolgimento totale rispetto a quello del senso comune e delle scienze ormai familiari” (Husserl, 1954, trad. it. p. 176). Con questa nuova disposizione si possono utilizzare i fenomeni della coscienza immediata come dati primi di ogni ricerca psicologica, rendendo l’osservatore stesso il primo e più importante strumento dell’indagine scientifica.

L’atteggiamento fenomenologico dischiude allo psicologo le porte di un dominio di fenomeni nuovi e più “umani” rispetto a quelli analizzati dalla vecchia impostazione epistemologica presoggettiva, che reificando il livello di esistenza umano (Maturana, Varela, 1980; Maturana, 1990) perdeva gran parte del suo significato specifico. In questo senso l’atteggiamento dell’epoché “apre allo psicologo il suo nuovo campo di lavoro, perché attraverso di esso, ogni oggettività si trasforma in soggettività, senza residui, mostrando il significato essenziale dell’intenzionalità e dei fenomeni”[6] (Armezzani, 1998, p. 186). Chiamando in causa lo stesso Husserl, possiamo affermare che:

L’epoché, giustamente intesa (…) muta totalmente tutte le concezioni dei compiti della psicologia, e rivela come tutto ciò che poco prima era stato assunto come ovvio costituisca un’ingenuità (Husserl, 1954, p. 267).

Questo ampliamento di visuale a cui le scienze psicologiche si sottopongono mediante l’assunzione del modello epistemologico soggettivo, porta con sé anche l’utilizzo di nuovi metodi conoscitivi che cercano di evitare l’errore di ridurre la mente a qualcosa d’altro. Nel nuovo campo della psicologia fenomenologica si può iniziare a studiare il particolare oltre che l’universale, ci si può disporre a “comprendere” oltre che a “spiegare”, ci si può affidare all’intuizione e all’interpretazione oltre che alla logica razionale. Il modo in cui ognuna di queste dicotomie può essere sciolta da un modello che provi ad integrarle nella pratica meriterebbe uno spazio che non è possibile concedere in questa sede.

Ad ogni modo, se è vero che “il positivismo logico ha fallito, specialmente per quanto riguarda la psicologia clinica e la psicologia di personalità” (Maslow 1960, trad. it. p. 48), è vero anche che la fenomenologia, con la sua nuova impostazione conoscitiva, con la sua inversione dello sguardo verso il soggetto, costituisce un fondamento epistemologico più solido su cui costruire un modo nuovo di fare psicologia.

Per riassumere possiamo dire che:

la fenomenologia c’introduce in un mondo in cui la realtà più vera è la soggettività che intenziona l’oggettività e, quindi, ci chiede di connotare la soggettività che intenziona di una forte stabilità ontologica, che la tradizione classica attribuiva solo all’essere presoggettivo (Ariano, 2005, p. 133)

L’epistemologia soggettiva a cui approdiamo attraverso l’atteggiamento fenomenologico illumina nuovi problemi da affrontare. In particolare, l’arduo compito di un modello epistemologico della soggettività è quello di integrare in una prospettiva coerente i seguenti assunti (Ariano, 2012, p. 27):

  • Il soggetto con la sua esistenza singolare;
  • L’oggetto con la sua diversità;
  • La consistenza di una o più realtà che salvi dal fantasma della vacuità

Nel declinare questi assunti la corrente fenomenologico-esistenziale ha dato vita a vari modelli che si differenziano tra loro in base al modo in cui affrontano questi problemi.

Il primo modello è quella idealista che rifacendosi alla nozione di fenomenologia pura di Husserl, chiude il soggetto in una solitudine impenetrabile, in cui della polarità soggetto-oggetto si salva solo il soggetto. In tale visione sono mantenuti il primo e il terzo degli assunti, mentre vengono ignorate l’alterità e la tematica dell’oggettività che porta con sé. Questo filone rischia di cadere nel soggettivismo, poiché considera la realtà come il prodotto di una soggettività costituente in cui “noi non possiamo stare fuori di noi stessi per osservare fino a che punto le nostre rappresentazioni si accordino con il mondo” (Varela, Thompson, Rosch, 1991, p. 167).

Il secondo modello è quello essenzialista, “in cui la soggettività diventa epifenomeno, annullando, di colpo, tutti gli sforzi di novità della fenomenologia” (Ariano, 2005, p. 129). In una visione di questo tipo è salvaguardata l’oggettività del mondo grazie alla nozione di eidos, ma si rischia di perdere il modo contingente attraverso cui ogni soggetto fa esperienza delle essenze[6].

Il terzo modello, infine, è quello intersoggettivo. Per questa prospettiva, che filtra attraverso il costruttivismo contemporaneo il pensiero di maestri del calibro di Husserl e Buber (Armezzani, 1998; 2002), diventa centrale la coessenzialità di soggetto e oggetto, insieme al riconoscimento dell’esistenza di molteplici soggetti che colgono la realtà a partire da punti di vista diversi. Compito di un modello epistemologico intersoggettivo diventa così quello di attribuire una consistenza ontica[7] al mondo costruito da ogni soggetto, alla ricerca di una strada per realizzare l’incontro tra mondi di esperienza diversi. Tale prospettiva cerca di salvare sia il soggetto percipiente che l’oggetto percepito (coessenzialità di soggetto e oggetto) e insieme ad essi la nozione di oggettività, che si trasforma però in oggettività dell’intersoggettività.

In psicodiagnostica e in psicologia clinica assumere una posizione idealista o essenzialista conduce a conseguenze problematiche. Come avviene per la psicologia umanistica (modello idealista) e anche per alcuni autori della poliedrica corrente fenomenologica, ad esempio, si perde la possibilità di costruire una teoria psicopatologica chiaramente definita, e con essa anche la possibilità di utilizzare pratiche psicoterapeutiche differenziate in base alle diverse configurazioni psicopatologiche.

Nel prossimo articolo cercheremo di guardare un po’ più da vicino i compiti e le difficoltà di un’impostazione epistemologica intersoggettiva, che può essere considerata il necessario fondamento di una psicoterapia del dialogo e dell’incontro (Stanghellini, 2017).

Note

[1] Non vanno dimenticati, tuttavia, filosofi del calibro di Pascal, Jacobi o Kant.

[2] Nel saggio di ontologia fenomenologica L’essere e il nulla Sartre mette chiaramente in evidenza che “il Cogito non dà mai se non ciò che gli si chiede di dare. Cartesio l’aveva interrogato sul suo aspetto funzionale <<Io dubito, io penso>> e, per aver voluto passare senza filo conduttore da questo aspetto funzionale alla dialettica esistenziale, è caduto nell’errore sostanzialistico” (Sartre, 1943, trad. it. P. 113). Questo errore sostanzialistico è ciò che il più contemporaneo Damasio ha definito L’errore di Cartesio, ossia la netta separazione tra res cogitans e res extensa. Da sempre la fenomenologia critica questo dualismo mente-corpo.

[3] Del procedimento dell’epoché sono state date molte interpretazioni diverse. Come arriveremo a dire tra poco, una prima interpretazione è stata quella essenzialistica, secondo cui attraverso l’epoché si può cogliere l’essenza delle cose senza alcuna mediazione; questa interpretazione trasforma la soggettività in un epifenomeno, “annullando di colpo tutti gli sforzi di novità della fenomenologia” (Ariano, 2005, p. 129). C’è poi stata un’interpretazione idealistica in cui della polarità soggetto/oggetto restava solo il soggetto perso in un solipsismo impenetrabile. Rifacendosi a quest’ultimo modo di concepire l’epoché husserliana, anche Sartre afferma che Husserl “non ha mai sorpassato la pura descrizione dell’apparenza in quanto tale, si è rinchiuso nel cogito, e merita di essere chiamato, malgrado le sue smentite, fenomenista, piuttosto che fenomenologo; e il suo fenomenismo sfiora di continuo l’idealismo kantiano” (Sartre, 1943, p. 114).

In questa sede, invece, noi intendiamo fare riferimento ad una terza possibile interpretazione dell’epochè, che fondandosi sulla coessenzialità di soggetto e oggetto, ne dà una visione costruttivista e intersoggettiva.

[4] Il termine “esaminato” è usato nella maggior parte dei testi di psicodiagnostica. Esso lascia intendere un rapporto di subordinazione dell’esaminato nei confronti dell’esaminatore, piuttosto che un incontro inter pares fondato sullo scambio reciproco (da cui lo psicodiagnosta trae i propri dati per costruirsi un proprio modello dell’esaminato), ma in questa sede viene utilizzato in questa seconda accezione.

[5] La distinzione tra spiegazione e comprensione fu posta per la prima volta con chiarezza da Whilelm Dilthey (1833-1911) che assegnava alla spiegazione causale il ruolo di metodo conoscitivo delle scienze naturali (Naturwissenschatfen) e alla comprensione quello di metodo conoscitivo delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). Per Dilthey le scienze della natura accedono al proprio oggetto di studio mediante la sua scomposizione in parti misurabili e mediante la rappresentazione matematica delle misure effettuabili, mentre le scienze dello spirito studiano l’esperienza umana nella storia (Erlebnis). Come sostenuto dalla corrente neurofenomenologica (Varela, 1997; Petitot 1995; Gallese, 2009) la sfida della scienza contemporanea, in particolare per la psicologia, la psicoterapia e in generale per tutte le scienze cognitive, è quella di integrare questi modi del conoscere attraverso una metodologia che li comprenda come tappe di un processo circolare. Questo perché, come afferma Jaspers (1913), “la conoscenza causale non trova mai i suoi limiti (…) e viceversa il comprendere trova ovunque dei limiti” ma “ogni limite del comprendere rappresenta un ulteriore impulso alla ricerca causale”.

[6] Questa, in particolare, è la critica di Ariano ad Husserl. C’è da dire, tuttavia, che del concetto di essenza può essere data anche un’interpretazione costruttivista. L’essenza può essere vista come la struttura d’invarianza dei fenomeni, l’insieme di vincoli alle variazioni possibili che consente di mantenere l’identità del dato. Tali variazioni possono essere i punti di vista di diversi soggetti (invariante intersoggettiva) o le diverse angolazioni (spaziali e temporali) con cui uno stesso soggetto accede a uno stesso fenomeno (invariante interfenomenica).

[7] La differenza tra i termini ontologico ed ontico sta nel fatto che il primo fa riferimento all’essere in generale, mentre il secondo (ontico) è usato per ogni discorso che riguardi l’esistenza particolare degli oggetti (la sua realizzazione singolare, la sua struttura). Sartre ne L’essere e il nulla parla di consistenza ontico-ontologica della coscienza, intendendo con questo la caratteristica fondamentale della coscienza per cui è solo attraverso di essa che l’essere assume il suo senso: “Tuttavia la coscienza può superare l’esistente, non già in direzione del suo essere, ma verso il senso di questo essere. Per il che la si può chiamare ontico-ontologica, perché un carattere fondamentale della sua trascendenza è di trascendere l’ontico verso l’ontologico” (Sartre, 1943, trad. it., p. 29). Questa caratteristica essenziale della coscienza era stata messa in evidenza già da Heidegger per cui il primato ontico dell’esistente umano sta nel fatto che per comprendere l’essere l’uomo deve prima comprendere se stesso in quanto Esserci.

Bibliografia

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  • Ariano G., Di Gaetano S. R., Pellecchia [2012], Psicoterapia nella storia. Un modello integrativo per gli indirizzi, le correnti e gli autori, Sipintegrazioni, Casoria.
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  • Bocchi G., Ceruti M. (a. c. di) [1985], La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano.
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  • Sartre J. P. [1943], L’être et le néant–Essai d’ontologique phénomenologique, Parigi, Gallimard, trad. It. L’essere e il nulla, Milano, Mondadori, 1958.
  • Stanghellini [2017], Lost in dialogue. Anthropology, psychopathology, and care, Oxford Press University.
  • Todisco O. [1984], La crisi dei fondamenti, Borla, Roma.

Giuseppe Salerno

Psicologo e psicoterapeuta ad orientamento fenomenologico, esperto in psicodiagnostica, diplomato in psicoterapia integrata a Napoli e in psicoterapia fenomenologico-dinamica a Firenze. Coordinatore della Cooperatariva Sociale Agape che si occupa di salute mentale a Salerno, ed editor in chief del blog psicologiafenomenologica.it. Socio fondatore della Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica. Attualmente lavora a Salerno come terapeuta individuale, di coppia e familiare.

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