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1. L’epistemologia presoggettiva

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Ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza.

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È difficile credere che le cose non sono in sé, ma le chiama all’esistenza il soggetto che vede, e che questi vede in base ad una storia che gli ha permesso di diventare quella determinata struttura soggettiva.

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Per secoli, dalla nascita della filosofia fino alla fine dell’800, la maggior parte degli scienziati e dei filosofi nello svolgimento della propria attività di ricercatore o di pensatore ha creduto di cogliere aspetti di una realtà oggettiva esistente in sé, al di là della relazione intenzionale tra osservatore ed osservato. Per loro era sufficiente non commettere errori nel processo di osservazione e di misurazione per essere certi di aver colto un aspetto essenziale ed inequivocabile del mondo. Questo modo di concepire la conoscenza è ciò che definiamo epistemologia presoggettiva.

Possiamo quindi affermare in via preliminare che l’epistemologia presoggettiva è una teoria della conoscenza fondata sull’idea di verità come corrispondenza ad una realtà esistente in sé.

La metodologia conoscitiva che deriva da questo modo di approcciarsi al mondo impone di rimuovere le interferenze derivanti dalla soggettività, sia essa parte dell’osservatore o dell’osservato, perché essa rischia di alterare l’accesso alla realtà universale. In questo senso, la soggettività diventa un mero insieme di spiacevoli attributi, da neutralizzare mediante l’applicazione di un rigoroso metodo scientifico. Lo scopo di ogni di ricerca (scientifica o clinica che sia) diventa quindi quello di avvicinarsi il più possibile ad un luogo fondamentale di osservazione e di spiegazione (Ceruti, 1985), da raggiungere mediante il decentramento del punto di vista del soggetto conoscente.

Definiamo presoggettivo questo modo di intendere la conoscenza perché “è precedente all’emergere del problema dell’epistemologia moderna circa il soggetto che influisce con la sua storia sull’oggetto della sua conoscenza” (Ariano, 2012, p. 25). Si ipotizza che ogni uomo, purché adeguatamente addestrato al metodo scientifico, possa cogliere la realtà oggettiva, le cose in sé, senza ‘sporcarsi le mani’, senza impegnare tutto se stesso, con la propria esistenza e la propria storia, nel processo di conoscenza. Ogni soggettività, ogni contingenza, ogni realizzazione particolare è espulsa violentemente. Non c’è nessun soggetto. Esiste solo un conoscere scientifico che mette chiunque in condizione di accedere alla realtà, unica e immutabile.

Il modello epistemologico presoggettivo scaturisce da ciò che Husserl definisce l’atteggiamento naturale (1991, p. 18), che è quello dell’uomo qualunque nei confronti di ciò che lo circonda: non si chiede in che modo il mondo prenda forma davanti ai suoi occhi, ma semplicemente dà per scontato che esso sia lì, eterno, oggettivo e indiscutibile. Questo atteggiamento, che non problematizza le possibilità della conoscenza, è la condizione del vivere secondo il senso comune, e tutto sommato, dice Husserl, è normale che sia così. Si tratta del modo spontaneo di vivere la realtà, che accetta acriticamente il mondo e il suo essere lì per noi.

Il problema sorge nel momento in cui l’atteggiamento naturale si trasforma nel fondamento di una teoria scientifica. Questo è appunto il caso dell’epistemologia presoggettiva, la cui presa di posizione nei confronti della realtà conduce ad una scienza naturalistica che costruisce i propri modelli “senza aver posto la questione di come sia possibile il costruirsi della cosa a partire da quanto è realmente presente nell’esperienza” (Armezzani, 1998, p. 65). La psicologia oggettiva, come la chiama Jaspers (1912), evitando la domanda epistemologica fondamentale, si pone allo stesso livello dell’atteggiamento naturale, livello da cui non può cogliere la fragilità di un enorme edificio costruito su basi molto instabili. La sicurezza tanto ostentata dalle scienze oggettive e anche da buona parte della psicologia contemporanea deriva dal fatto che “nella visione positivistica si dà per scontato che ogni uomo, purché abbia la vista, vede tutto ciò che esiste” (Ariano, 2005, p. 227), senza porsi neppure lontanamente la questione della possibilità della conoscenza.

Alla sua nascita nel laboratorio di Lipsia di Wundt, la psicologia assume in parte tale impostazione per poter acquisire il diritto di essere definita scienza. Il suo fondatore, infatti, riteneva che la psicologia “non può servirsi di altri metodi che di quelli usati dalle scienze empiriche” (Wundt, 1896, trad. it. P. 15), e per questo motivo decise di seguire la logica di sottoporre la coscienza alla scomposizione nei suoi elementi costituivi, seguendo i canoni delle scienze positiviste dell’epoca. Una tale visione epistemologica è stata così, sin dall’inizio, dominante all’interno del pensiero psicologico, trasformandosi lentamente nella base teorica su cui sono stati costruiti la maggior parte dei modelli e degli strumenti conoscitivi (test di personalità, test di intelligenza, paradigmi sperimentali etc.).

Il modello epistemologico presoggettivo, tuttavia, oltre ad essere messo gravemente in crisi da critiche provenienti da diverse branche del sapere umano (vedi Einstein e Heisenberg in fisica), rivela il suo peccato originale proprio nel campo delle scienze psicologiche. Il punto cruciale è che un metodo fondato sull’idea dell’in-sé, volto a cogliere la realtà nella sua oggettività esterna, dissolve inevitabilmente il tema stesso della psicologia, la psiche appunto, la soggettività nella sua forma di datità originaria. Sul punto Husserl è molto chiaro:

“La psicologia fallì perché fin da quando fu fondata come psicologia autonoma rispetto alle scienze della natura, trascurò di indagare il senso del compito che per essenza le era imposto in quanto scienza universale dell’essere psichico. Piuttosto essa pose i propri compiti ed elaborò il proprio metodo sull’esempio delle scienze naturali, si lasciò guidare dall’ideale della filosofia moderna, dall’ideale di una scienza universale obiettiva e perciò concreta –un compito che certo, data la sua motivazione storica, era apparentemente del tutto ovvio” (Husserl, 1954, trad. it., p. 227).

Lo studio dell’esperienza vissuta, della dimensione d’esistenza dell’essere umano, del Dasein inteso come presenza in virtù della quale siamo gettati in un mondo, viene in questo modo per sempre sacrificato alle esigenze di un metodo scientifico statico e spersonalizzante. I principali paradigmi della psicologia del XX secolo, sebbene in maniera differente tra loro, hanno finito tutti per assumere questa impostazione riguardo al problema della conoscenza. In tal modo si è determinata una vittoria del metodo, che ha progressivamente spogliato di senso l’oggetto dell’indagine psicologica, sostituendolo di volta in volta con qualcosa d’altro: comportamenti, funzioni, pulsioni, neuroni, processi, variabili. Ciò è stato praticamente inevitabile, perché ad essere rispettati sono stati esclusivamente i canoni della scientificità di stampo naturalistico e positivista, e “dove si applicano i metodi e i modelli naturalistici l’oggetto d’indagine deve essere diverso dall’esperienza umana soggettiva” (Armezzani, 1998, p. 183).

Il comportamentismo è il modello che più di ogni altro rispecchia questo modo di avvicinarsi al mentale. Esso nega tout court la possibilità di conoscere la coscienza e l’esperienza vissuta, rimuovendo così ogni significato dal campo della psicologia. Affermando che il tema della psicologia deve essere il materiale comportamentale e null’altro, il comportamentismo incarna esattamente ciò che Jaspers intendeva per psicologia oggettiva, e cioè una psicologia che “esclude il più possibile ogni riferimento al mentale, diventando in parte o completamente una fisiologia” (1912, p. 20).

Ma la posizione epistemologica del comportamentismo è soltanto quella più radicale ed esplicitamente anti-soggettivista. In realtà, come abbiamo già accennato, eccezion fatta per l’approccio fenomenologico-esistenziale e per quello costruttivista, quasi tutti i modelli della psicologia scientifica tradizionale hanno assunto un atteggiamento di questo tipo:

“La psichiatria, considerando l’uomo a livello presoggettivo, non lo prende in considerazione; la psicologia accademica lo tratta come un epifenomeno, essendo l’individuo determinato dall’ambiente; la corrente psicodinamica, nella maggior parte dei suoi indirizzi, lo riduce ad una determinazione dalla pulsione; la corrente umanistica americana, pur facendo della libertà della scelta e della responsabilità lo specifico del suo orizzonte, lo riduce ad una semplice tendenza organismica” (Ariano, 2005, p. 227).

Un tale modo di avvicinarsi al mentale, sempre attento a non parlare di soggettività, di coscienza o di esistenza, deriva da alcuni pregiudizi delle scienze naturalistiche secondo cui solo ciò che può essere accertato in modo quantitativo può costituire opera scientifica, mentre ciò che viene indagato dal punto di vista qualitativo resta sempre arbitrario e poco verificabile. È chiaro quindi che in quest’ottica i metodi statistici e sperimentali che ricorrono a misurazioni, computazioni e analisi dei dati diventano l’unica via del fare scienza. Tuttavia, questo modo di procedere non tiene conto di un dato fondamentale, e cioè che “lo psichico deve essere compreso attraverso lo psichico”, e che “si può penetrare nello psichico solamente se lo si attualizza, poiché è sempre qualitativamente specifico” (Jaspers, 1913, trad. it., p. 22).

Per rendere conto di quel dato ineliminabile che è la coscienza soggettiva, l’unica possibilità è sovvertire questo modo di procedere. Ogni indagine psicologica deve partire dal soggetto e dalla datità originaria del suo mondo della vita, smettendo di adeguare il tema della sua ricerca al metodo d’indagine. Se la metodologia soffre di un ritardo culturale, il problema diventa quello di “sviluppare e liberare i nostri metodi in modo da offrire maggiore spazio possibile alla ricchezza e alla varietà dell’esperienza umana” (Rollo, 1970, trad. it., p. 32) evitando di ridurre ciò che è irriducibile.

La critica all’epistemologia presoggettiva investe comunque l’intero campo delle scienze positiviste e naturaliste, e non soltanto la psicologia. Quest’ultima è forse soltanto più colpevole delle altre scienze, perché ha chiuso gli occhi davanti all’evidenza che gli si poneva continuamente davanti: l’irriducibilità del soggetto. Rendersi conto di ciò poteva infatti rivelarsi più semplice per gli psicologi, abituati ad incontrare, negli studi clinici e nei laboratori di ricerca, l’alterità “in carne e ossa” (leibhafting) fatta di cuori palpitanti ed emozioni. Ciò avrebbe potuto condurre a quella Crisi tanto auspicata da Husserl, con l’effetto di sottoporre a “una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità di tutte le scienze” (Husserl, 1954, p. 35). Per questo motivo:

“alla problematicità che è propria della psicologia, non soltanto ai nostri giorni, ma da secoli, -alla “crisi” che le è peculiare- occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche, essa rivela un enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia” (Husserl, 1954, trad. it., p. 35).

 

La fenomenologia, intesa come scienza nuova e possibile fondamento di un’altra psicologia, si configura come un tentativo di accostarsi all’enigma della soggettività proponendosi di costruire un metodo diverso per lo studio dell’esperienza umana in prima persona.

 

Bibliografia

  • Ariano G. (2005), Dolore per la crescita. Antropopatologia della psicoterapia d’integrazione strutturale, Armando, Roma.
  • Ariano G., Di Gaetano S. R., Pellecchia [2012], Psicoterapia nella storia. Un modello integrativo per gli indirizzi, le correnti e gli autori, Sipintegrazioni, Casoria.
  • Armezzani M. (1998), L’enigma dell’ovvio. La fenomenologia di Husserlcome fondamento di un’altra psicologia, Unipress, Padova.
  • Ceruti M. (1985), La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, in Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 25- 48.
  • Husserl E. (1954), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2008.
  • Jaspers K. (1912), Die phanomenologische forschungsrichtung in der psychopathologie, trad. It. La cura della mente, Castelvecchio, 2014, Roma.
  • Jaspers K. (1913), Allgemeine psychopathologie, trad. It. Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma, 2000.
  • Rollo May (a cura di) (1970), Psicologia esistenziale. Saggi di G. Allport, H. Feifel, A. Maslow, C. Rogers, Astrolabio-Ubaldini editore, Roma.
  • Wundt W. (1896), Grundriß der Psychologie, trad. It. Compendio di psicologia, tratto da Armezzani M. (1998), L’enigma dell’ovvio. La fenomenologia di Husserlcome fondamento di un’altra psicologia, Unipress, Padova.
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Giuseppe Salerno

Psicologo e psicoterapeuta ad orientamento fenomenologico, esperto in psicodiagnostica, diplomato in psicoterapia integrata a Napoli e in psicoterapia fenomenologico-dinamica a Firenze. Coordinatore della Cooperatariva Sociale Agape che si occupa di salute mentale a Salerno, ed editor in chief del blog psicologiafenomenologica.it. Socio fondatore della Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica. Attualmente lavora a Salerno come terapeuta individuale, di coppia e familiare.

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