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Il diavolo prenda l’ultimo, La fuga del narcisista. Recensione di Antonella Centonze

Il diavolo prenda l’ultimo – La fuga del narcisista è un testo che, nonostante le sue 525 pagine, si legge tutto di un fiato. Come ormai ci ha abituati Giancarlo Dimaggio, è un lavoro scientifico a pieno titolo poiché passa in rassegna le principali teorie sul narcisismo ad oggi esistenti. E’ un testo clinico, poiché troveremo passaggi lunghi ed interessanti di sedute con pazienti che, sebbene totalmente inventati, appaiono chiaramente simili a quelli che noi psicoterapeuti incontriamo nelle nostre stanze. Ma è anche un romanzo: quattro storie che si sviluppano in parallelo. Belle, avvincenti e con colpi di scena cinematografici. Passaggi emozionanti e a volte commoventi, evidenziano come a volte la sofferenza non si mostra (come accade ai protagonisti) ma c’è ed è molto intensa: si tratta solo di trovare il modo di farla venir fuori.

Il protagonista è Lorenzo Sartori, giovane psicoterapeuta alle prime armi con una vita “piena di guai” ma anche fitta di belle speranze. La sua storia si sviluppa in parallelo alle storie di tre suoi pazienti. Tutti e tre narcisisti. Diversi tra loro ma simili per alcuni aspetti che caratterizzano appunto questo disturbo. Lorenzo all’inizio non ce la fa proprio. Non riesce ad entrare in sintonia con loro, ciò è vero soprattutto in riferimento alla prima paziente, Aurora, che manderà abbastanza in crisi Lorenzo. Poi arrivano gli altri. E nel frattempo la vita di Lorenzo va avanti con i suoi problemi di cuore e di carriera.

Man mano, l’autore ci descrive le vicende dolorose di questi pazienti che appaiono freddi, distanti, altezzosi, sprezzanti o autosvalutanti con la convizione segreta di essere meglio di tutti e con il timore di non esserlo. Sono persone che di primo acchito non suscitano simpatia per il loro voler esser perfetti, i migliori, sempre in gara con il mondo, in fuga perenne dal fallimento che per loro significa sprofondare nel “non senso” dell’esistenza, ritenuto terribile. Lorenzo all’inizio non riesce a costruire una relazione profonda e cooperativa con queste persone. E loro certo non gliela fanno facile, raccontano teorie, snobbano, non si affidano, tengono le distanze, in realtà fanno fatica a capire come si sentono e cosa provano veramente. Le storie dei tre pazienti e quella Lorenzo stesso (narcisista anche lui?) si rivelano storie dolorose, fatte di svalutazioni, di mancata protezione, di ostacoli all’autonomia spesso vestiti da sensi di colpa. Nelle storie appaiono figure che ci fanno chiaramente vedere come il paziente con una problematica narcisista è incastrato in un paradosso: se si ferma viene risucchiato nelle sabbie mobili del fallimento, se invece vince, la colpa e la vergogna lo assalgono, poiché nella loro storia c’è stato qualcuno che gli ha insegnato che vincere equivale a sbagliare o ferire.

Molteplici sono le suggestioni che questo testo fornisce. Tra le tante, balza agli occhi un quesito: cosa succede con questi pazienti nella stanza di terapia? E l’aspetto direi preliminare, riguarda proprio come costruire una relazione terapeutica profonda e realmente collaborativa con una persona che, sebbene chieda aiuto, di fatto mantiene le distanze. Quando questi pazienti arrivano in terapia (nel libro come nella realtà) hanno richieste disparate, spesso legate a sintomi: attacchi di panico, disturbi alimentari, senso di noia cronica, depressione a volte, ma anche relazioni sentimentali complicate da cui non riescono a sganciarsi. Ma nel chiedere aiuto sembra che non lo vogliano e il vissuto del terapeuta è di sentirsi inutile, impotente o in trappola, in ogni caso nei guai.

Il rapporto con loro non è affatto facile e Dimaggio lo fa vedere fin da subito. Il protagonista, Lorenzo, immerso nei suoi problemi personali, cade nella rete di alcuni suoi pazienti, si infila nelle trappole con tutte le scarpe e cade. I primi pazienti lasciano la terapia prematuramente, “droppano” si dice in gergo: l’incubo dei terapeuti, soprattutto dei più giovani.

Cos’è che fa Lorenzo? Ciò che la lettura mi ha lasciato è una serie di riflessioni riguardo al modo di stare in relazione con una personalità narcisista (ma non solo narcisista) soprattutto in riferimento alla tendenza che a volte si rischia di assumere di mettersi sul pulpito puntando più o meno delicatamente il dito contro le malefatte (ad esempio i coping disfunzionali). Questo porta il narcisista ad alzare le barriere poiché è in realtà vulnerabile, immerso nella vergogna e che si vergogna di essere cosi.

Spesso si cade nella tentazione di entrare in contatto con i pazienti assumendo un atteggiamento fatto di saggi consigli, a volte di sottolineature di comportamenti sbagliati, di definizione di cosa è giusto fare per ottenere il benessere psicologico e cosa no, con il terapeuta che si presenta come figura saggia, risolta ed equilibrata. Nella convinzione che ai pazienti serva questo: un terapeuta perfetto, che ha una vita perfetta con le idee chiare, senza problemi e del tutto risolto. Certamente questo non è sbagliato (semmai impossibile) ma con alcuni pazienti questo non funziona, soprattutto se non è vero. Ma se anche fosse vero, cioè che il terapeuta fosse risolto, equilibrato con tutte le cose al loro posto, che impatto avrebbe su questi pazienti? Lorenzo si mette in questa posizione, anche se per la verità neanche in maniera marcata. E infatti qualcosa non va.

D’altronde, a suo discapito, Lorenzo non immagina come sia dal vivo un narcisista. Siamo agli inizi degli negli anni 90 e in quegli anni dominavano le teorie psicodinamiche sul narcisismo e come Dimaggio stesso ci dice, non erano propriamente di facile comprensione oltre che poco utili sul piano del: che ci faccio con un paziente cosi? Altrettanto poco convincenti erano le teorie di stampo cognitivista dell’epoca.

Non ci sorprende pertanto che sia stato difficile riconoscere una persona con disturbo narcisistico e ancor di più sapere cosa farci. Con i primi pazienti, Lorenzo fa domande e cade nella trappola del “paternalismo” fatto di tentativi di spiegazione su cosa succede e su cosa non va. Il risultato è uno sfacelo: il narcisista è un permaloso mascherato da snob, un personaggio con un’altissima vulnerabilità e sensibilità, esperto del “si ma”. Il rischio maggiore è quello di entrare in contrasto (in agonismo) e i dialoghi rischiano di diventare delle competizioni più o meno marcate. Quando Lorenzo comincia a capire, è perché da un lato inizia una supervisione e parallelamente legge alcuni testi: Kohut, ModellKernberg e Lowen. Capisce la vulnerabilità nascosta dietro la spocchia e la freddezza e inizia a capire l’importanza dell’empatia. Lorenzo inizia a comprendere che se guarda il mondo con gli occhi del paziente capirà cosa lo spinge a fare ciò che fa e automaticamente può spostarsi dalla predica all’essere supportivo, validante, protettivo, se serve. E in modo diverso riesce anche a smontare i coping disfunzionali senza diventare giudicante.

Lorenzo capisce anche di avere dei problemi nei quali si è trovato incastrato, rispetto cui egli stesso ha messo una distanza, così come di fatto fa con i suoi pazienti, rifugiandosi nel modo del “come dovrebbe essere”. Il funzionamento interno di Lorenzo non è molto diverso da quello dei suoi pazienti narcisisti e quando inizia la sua terapia personale inizia a comprendere qualcosa in più anche di loro.

La relazione terapeutica è un luogo dove si attivano vissuti profondi e quindi è impossibile che ciò che il terapeuta sente non entri in gioco. I vissuti, le storie e gli schemi del terapeuta si attivano inevitabilmente. Proprio contrariamente al mito della neutralità terapeutica o allo stile del terapeuta saggio dispensatore di “giuste dritte sulla retta via da seguire” appare qui delineato un terapeuta “umano” che, piuttosto che lavorare “nonostante” i suoi guai interni, diventa un terapeuta che lavora “grazie ai suoi guai interni” a patto che li abbia visti, capiti, discussi, sofferti e ne abbia storicizzato l’essenza e individuato le radici.

Appare chiaro ed evidente che alla persona narcisista (solo?) nonostante la fredda capacità di snobbare chiunque, serva in realtà un terapeuta che sia anche vulnerabile, empatico ma soprattutto che non lo faccia sentire giudicato, invalidato, criticato o privato del supporto necessario o della protezione. Un terapeuta che sia sinceramente e autenticamente dalla sua parte e che si ponga quindi in contrasto con le aspettative negative che il narcisista ha nei confronti delle relazioni. Lorenzo all’inizio questo non lo sa e non lo capisce. La supervisione, le letture e l’inizio della sua terapia lo portano a capire quanto egli stesso abbia bisogno di qualcuno dalla sua parte e che nel suo essere “umano” non lo faccia sentire inferiore e che gli faccia da modello. La sua terapeuta tra l’altro lo è in modo esplicito: con una self disclosure gli mostra chiaramente che lo capisce perchè lei stessa ha provato quello che lui prova e ha tentato di uscirne. Ma la terapeuta non traccia soluzioni stereotipate e racconta un pezzo della sua storia con l’atteggiamento del “ce l’ho fatta, puoi anche tu”. Che non è la stesa cose del dire: “si fa cosi.. devi farlo, ti conviene!”.

Mentre elabora la sua vita Lorenzo capisce che stabilire una buona relazione con il paziente narcisista è fondamentale, smette di tracciare la retta via e si sintonizza e si incuriosisce alle emozioni del paziente. Le cose migliorano. Con il terzo paziente Richard le cose vanno molto meglio. Il lettore si troverà trasportato in un quarto romanzo: la storia avvincente di un chitarrista dalla vita avventurosa, con una vicenda sentimentale complicata.

Qui Lorenzo ha iniziato a capire. La terapia funziona e Richard farà un bel salto evolutivo affrontando i suoi mostri così come Lorenzo inizia ad affrontare i suoi. La storia di Richard inoltre è letterariamente bella e molto intensa, si intuisce che di pazienti così, l’autore ne ha trattati molti e che li abbia capiti a fondo. La conclusione è emozionante e piena di speranza, forse non definitiva. Ma quando lo è?

L’unica cosa su cui restiamo in dubbio riguarda le relazioni d’amore dei pazienti narcisisti. Tutti, compreso Lorenzo, sono un po’ in difficoltà da questo punto di vista. Ma nel libro non troviamo risposte. Infatti non a caso Dimaggio cita per tutto tempo il titolo di una canzone di Howard Jones a segnare, giocosamente, questo dubbio. E chi di noi c’era negli anni 80 la conosce. La canzone pone una domanda. La domanda resta senza una risposta: What is love? .

Antonella Centonze

Psicologa clinica, psicoterapeuta cognitivo comportamentale, esperta di Psicologia del Lavoro. E’ didatta di Terapia Metacognitiva Comportamentale e supervisore. Lavora presso il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma. Esperta di tecniche esperienziali e di terapia ad orientamento corporeo, si occupa di disturbi di personalità, terapia del trauma, disturbi d'ansia, disturbi dell'umore e disturbi del comportamento alimentare. E’ autrice di diverse pubblicazioni a livello nazionale e internazionale.

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