Il genio delle origini. Psicanalisi e psicosi, di Paul-Claude Racamier
Il genio delle origini tratta del controverso terreno di transito tra psicanalisi e psicosi, delle loro interazioni e dei movimenti reciproci, che ricordano una sorta di danza. Affondando le sue radici nel terreno della psicanalisi, ma attingendo ecletticamente alla teoria sistemica e alla fenomenologia, Racamier propone una visione dello psicotico che è caratterizzata in primo luogo dall’immersione in un grande fascino – fascino per un’esperienza di vita diversa e per le sue declinazioni nella pratica clinica.
Prima di tutto, nella genealogia della psicosi, viene descritta la diade madre-bambino, questa unità originaria e insostituibile, che l’intercessione fallica dell’Edipo interromperà senza rimedio, lasciando l’individuo sano a crogiolarsi nel ricordo nostalgico dell’Eden. A questo livello, Racamier parla di una fase di seduzione narcisistica, reciproca, tra la madre e il bambino, che esclude l’ambiente e ogni altro individuo. Questa interazione, intrisa di riconoscimento, è fisiologica e vitale: è il fluire senza ostacoli del cosiddetto “antedipo ben temperato”, che permette all’individuo di appropriarsi al contempo dell’esistenza e dei limiti che le sono imposti. L’Antedipo è un processo, antecedente e complementare all’Edipo, di auto-generazione e onnipotenza, in cui l’ambiguità feconda del rapporto madre-bambino genera la nuova individualità, in una sorta di seconda nascita. Questa seconda nascita, questa cesura, è il lutto originario, ovvero l’esperienza di perdita che il bambino fa dell’unità con la madre, che mai gli verrà restituita e che delineerà la struttura di tutte le perdite che incontrerà nella vita. Eppure il passaggio attraverso l’esperienza della separazione e della perdita, a partire da un amalgama pulsionale che somiglia ai concetti di Cosa lacaniana come all’informe di Stanghellini, è il presupposto invitabile per la costituzione del nostro rapporto con il mondo. Esistono però casi limite, in cui l’antedipo è troppo carico, troppo intessuto di vissuti narcisistici della madre e predestinanti della famiglia, troppo macchiato di incesto, e non permette la separazione. Interessante la precisazione che uno degli scopi fondamentali della seduzione narcisistica originaria non è la cessazione del desiderio, ma il venir meno della sua emersione: in una situazione di persistente soddisfazione, senza la separazione che insegni al bambino il desiderio, avviene un livellamento della pulsione. Inizia una cascata di eventi che porterà il bambino a rappresentare come un figurante la paradossalità della famiglia in cui è nato e infine a perdersi nelle derive della psicosi.
Noi lo vediamo
Incistamento nella seduzione narcisistica, funzione di chiavistello della dinamica della paradossalità familiare, accavallarsi di difese che hanno nel diniego e nella scissione i propri avamposti, impossibilità di vivere il lutto, sono le coordinate all’interno delle quali si collocano due entità cliniche che Racamier insiste nell’accostare: ovvero la schizofrenia e la perversione narcisistica, in tutti i gradi che la configurano, dal temperamento al delirio. Fil rouge di tutto il testo è la costante attenzione alla dimensione contro-transferale che questi pazienti suscitano nel terapeuta, dal desiderio di possessione e accudimento al rigetto morale. Pur nella descrizione di tratti francamente antisociali e maligni, infatti, Racamier conserva uno sguardo pietoso, che non giudica il comportamento ma cerca di investigarne, con precisione e minuzia, le origini soggettive.
Se però dovessi dire cosa mi ha colpito di più in questo testo, cosa ha risuonato di più dentro di me e da cosa mi sono sentita presa in causa, è l’ultimo capitolo, con l’apertura di riflessione che comporta: “elogio dell’ambiguità”. Per un libro che tratta di psicosi, non può non stupire: ma si tratta di ambiguità e non di ambivalenza. L’ambiguità è feconda, è la convivenza degli opposti, è l’accettazione di ciò che di estraneo che c’è in noi. È la salvezza, rispetto all’irrigidimento psicotico o perverso che, non riuscendo ad integrare l’alterità, le si rivolta contro. Forse le costellazioni psicopatologiche sono in gran parte tentativi, strenui e inutili, di difendersi dall’ambiguità – forse, il dono più grande che una psicoterapia possa fare, è accettare di convivere con l’estraneo che è in noi.