“Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”
Faber
Premessa: Questa recensione spoilera, forse…
La telecamera sfuma ed inizia a passeggiare in silenzio dentro una classica scuola americana, lunghi corridoi incorniciati da armadietti ordinati e poi un auditorium zeppo di sedie pieghevoli che scrutano il palco. Nell’aria stridono le note di un pianoforte che, timide, provano a riempire l’immenso vuoto tutto attorno. Al piano c’è Maire, sola. Queste immagini appaiono già come un sinistro presagio. La quiete di questa assonnata provincia americana degli anni ’80, le sue convenzioni e quell’illusoria ed effimera felicità fatta di centri commerciali variopinti con cui Reagan foraggiava il popolo verrà messa in crisi. Sull’altare del progresso e del consumismo dei figli ribelli per nascita consumeranno il loro pasto intriso di sangue. Quest’ultimo, il sangue, è un elemento visivo importante del film, non per la quantità, che è assolutamente irrisoria se paragonata ad altri titoli in circolazione, ma per come è servito alla nostra vista. Un’immagine su tutte, i protagonismi del film che dopo essersi nutriti hanno il bavero sporco come a volerci comunicare che quel rossore non è il loro ma è della vittima nella quale hanno affondato la bocca con tale voracità da non aver badato al galateo.
Nutrire, nutrirsi, nutrimento…sono parole essenziali del film. Nutrire etimologicamente richiama lo “stillare” e quindi per similitudine il termine in latino assunse come primo significato quello di allattare un neonato. Volendo correre attraverso le sconsiderate praterie della fantasia si fa presto ad avvicinare il bambino che approccia con innata decisione le sue labbra al seno materno e l’altrettanto naturale efferatezza con cui i protagonisti affondano nelle e con le proprie vittime mentre insieme si approcciano a due inferni diversi solo nella forma.
Maire sembra una ragazza come tante fino a che non c’è il colpo di scena, la rivelazione. Lei che morde un’amica, corre a casa ed il padre sa già cosa è successo, sa già cosa fare, è pronto a scappare di nuovo per salvare la figlia dall’orrendo giudizio che l’attende nella terra dell’ordine e della civiltà. Un giudizio soprattutto morale, fatto degli sguardi disgustati degli stessi che poi ingurgitano un Big Mac menù con coca cola grande privi di vergogna, rimorso o semplicemente amor proprio.
Riflettendo il giudizio spesso è solo un modo di classificare un fenomeno con lo scopo, tra gli altri, di rendercelo familiare o del tutto estraneo. Seguendo lo stesso metodo da innumerevoli anni l’opinione pubblica bolla come “mostro” tutte quelle persone che commettono atti abominevoli allo scopo di allontanare quell’essere dal novero delle possibilità umane. Questo meccanismo ci quieta, districa quella stretta allo stomaco che ci assale d’improvviso quando veniamo a conoscenza di tremende efferatezze commesse dai nostri simili. La realtà è che forse tirati a fondo dal gorgo delle nostre pulsioni non abbiamo sempre la possibilità di scegliere “ducunt volentem, nolentem trahunt”. Allo stesso modo, dunque, viene da chiedersi quanto si possano davvero giudicare Maire, Lee o Sully. Hanno davvero una scelta se non quella di cercare di sopravvivere alla loro natura arrecando il minor danno possibile all’umanità? Il vecchio Sully, per esempio, sceglie i moribondi mentre Lee cerca di colpire solo persone senza legami affettivi. Guardando questi mostri che vibrano attraverso le loro stesse vite nel tentativo di porre un freno alla loro natura non riusciamo a sentirli vicini. L’immensa radura che ci separa da loro
non è l’omicidio, non è il cannibalismo, non è il superamento del confine corporeo con l’altro ma io penso sia il fatto che loro, a differenza nostra, hanno contezza della propria voracità e, seppur con scarso successo, cercano di prescindere da essa, di oltrepassarla nel tentativo di raggiungere un’umanità insperata. Siamo dall’altra parte della barricata “come d’autunno sugli alberi le foglie” che osserviamo, pronti a cadere nel terreno delle nostra natura che non conosciamo. Abbiamo davvero consapevolezza delle pulsioni da cui rifugiamo ogni giorno? Non mangiamo tutti qualcuno?
Devono scappare di nuovo, imboccare una strada fuori dalla provincia americana, correre lontani senza guardarsi indietro sperando che i purpurei cristalli di un’altra piccola vita solo assaggiata si disperdano sull’asfalto ed arrivati a destinazione non sia rimasto niente di essi nella loro mente e nei loro corpi. Un tentativo simile a quello del folle che si taglia via la gamba nel tentativo di staccarsi dalla sua ombra.
Il padre di Maire è una figura di una grandezza sconsiderata. Un capitano che naviga a vista attraverso un oceano che non conosce e non può conoscere se non giorno per giorno. Il suo oceano è di certo Maire, sua figlia, sconvolta da una fame che non può essere saziata dai fastfood né servita sfrigolante sui vassoi da drive-in. Cambia una città dopo l’altra, un lavoro dopo l’altro, aspira ad una vita normale insieme a lei. Poco per volta lungo la strada prende consapevolezza che la vita accanto a Maire abbia la consistenza del sogno, la materialità della nebbia. Posto di fronte a tale rivelazione crolla ma la sua caduta è piena di dolcezza, sollievo e umanità. Dentro questo pesante atterraggio c’è tutto l’amore di un padre per sua figlia, un sentimento riversato a singhiozzi dentro il nastro magnetico di una cassetta.
Adesso Maire è sola, costretta a ricercare l’affetto paterno dentro quel nastro che, pur ascoltandolo infinite volte, non emana alcun tipo di calore. Corre rannicchiata sugli autobus che solcano il paese con l’intento di ricercare la madre che non ha mai conosciuto e che forse potrà darle le risposte che non trova nell’esperienza. Lungo questo viaggio il suo fedele compagno è un libro (forse Tolkien) nelle cui pagine si immerge spesso in attesa che la sua vita la ritragga di nuovo indietro verso quello che è il suo triste destino. Un destino che si manifesta sotto forma di odore quando il suo primo incontro la riconosce proprio grazie al suo olfatto. Sully è una sorta di veterano, un maestro d’armi che le permette di scoprire di non essere sola sulla terra ma che ci sono altri simili a lei guidati dalla fame e dalle domande senza risposta. E poi c’è lui, Lee, un ragazzo che sembra venuto da un universo parallelo, che nella forma ricorda il movimento punk di London calling e delle case occupate. Pantaloni strappati e l’aspetto del bello e dannato quando questo non è solo un modo di dire ma l’atroce realtà delle cose. Lui e Maire si riconoscono, sono due facce della stessa medaglia, due anime disperse e splendenti, due reietti che desiderano guardando verso le stelle e mangiano con la faccia abbattuta nelle interiora della terra. Iniziano così il loro viaggio perchè non può essere altrimenti, quando ci si riconosce così a fondo non resta che partire insieme e condividere uno scopo che farà bene ad entrambi. Immersi nell’America selvaggia, a bordo di un’auto rubata e che a malapena regge la strada, essi sfreciano nel vento ed alzano sciami di polvere verso il cielo che lentamente si disperdono a terra lasciando il posto alla tenera e glaciale voce di Ian Curtis
“walk…in silence, don’t walk away…in silence”
Qui si cambia registro, la voce di Curtis taglia il film a metà. Pieni di vita a bordo di quella macchina sembrano guardarsi ed è come se dicessero “adesso che ci siamo trovati ci aspettano le sfide del futuro amore mio, ci aspetta l’infinito scorrere dei minuti.” Sono un funesto, disgraziato e avvolgente elogio al nichilismo che permea ormai l’era moderna. Quando nelle tue mani non resta che un cumulo di sabbia non ti resta altro che la ritirata, tornare indietro per ritrovare l’essenza perduta, tornare indietro per ritrovare quel sapore di violenza sotto i denti.
Due amanti che si vedono per la prima volta attraverso l’altro non possono che vedersi con chiarezza, è il sé che si materializza attraverso un specchio quasi perfetto. Ora possono finalmente accettarsi per quello che sono, possono divorare la vita che li circonda senza tregua o vergogna, senza fine.
“Non pensi che sia una persona orribile?”
“Penso soltanto che ti amo!”
L’oltre attraverso il quale ci si guarda, come l’abisso, è però dietro l’angolo e il passato ritorna sempre in forme spesso inaspettate. Così, quando la loro favola sembrava avviarsi verso un lieto fine, quando si erano arresi ad essere banali e scontati come tutti gli altri, il caos ritorna. Il loro odore che impesta l’aria di provincia è troppo forte ed attira i predatori. Non si può più essere, non si può più stare, non si può più guardare avanti. Non ci si arrende però senza combattere e nell’aspra e sconsiderata battaglia finale si condensa tutto il sangue e l’ardore che sembravano essersi arenati sul bordo del fiume. Non resta che fare la cosa più semplice ovvero amarsi fino alle ossa, ossa e tutto.
Le ultime inquadrature ci trascinano verso la natura, nella nudità dei loro corpi abbandonati nell’erba a condividere ogni semplice cosa fino all’essenza di due persone spoglie riverse su un prato al tramonto. Definitivo, basta così.
“forse l’amore ti può salvare”
…perché quando sei normale dell’amore puoi anche fare a meno, ti basta la staccionata bianca, ma se sei diverso ne hai uno sfrenato bisogno.
“Amami, per Dio. Ho bisogno d’amore,
amore, amore, fuoco, entusiasmo,
vita: il mondo non mi par fatto per me.”
Giacomo Leopardi, da una lettera al fratello Carlo.