“[…] dietro il sintomo e ancor più dietro la sindrome per noi esiste sempre la personalità vivente tutta intera. E il bisogno di penetrare, attraverso i sintomi, fino a questa personalità vivente, di cogliere in un solo sforzo di conoscenza tutto il suo modo di essere”
E. Minkowski, Il tempo vissuto
Il 25 novembre di quasi un secolo e mezzo fa, un giovane e promettente psichiatra incontra nella clinica Irrenanstalt di una fredda Francoforte una paziente che farà storia. Ha 51 anni e da qualche tempo esibisce comportamenti insoliti. Si tratta senza dubbio di una “eigenartige Erkrankung (malattia caratteristica, insolita)”.
Uno dei primi sintomi […] fu un forte sentimento di gelosia verso suo marito. Molto presto mostrò perdite di memoria in rapido aumento; non si orientava in casa sua; spostava oggetti da una parte all’altra, si nascondeva, a volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare. […] Era disorientata nel tempo e nello spazio. Ogni tanto diceva che non capiva niente, che si sentiva confusa e totalmente persa. […] La regressione mentale avanzava costantemente. La paziente morì dopo quattro anni e mezzo di malattia. Nell’ultimo periodo era completamente apatica e restò confinata a letto in posizione fetale, era incontinente e sebbene ricevesse cure e attenzioni soffrì di decubito” (Alzheimer, 1907; cit. in Borri, 2012).
Così la signora Auguste Dieter viene descritta da Alois Alzheimer nel 1901. Così viene descritta per la prima volta la malattia di Alzheimer. A distanza di esattamente 123 anni dall’incontro tra Auguste e il giovane Alzheimer, cosa è cambiato nell’approccio allo studio e alla cura delle demenze?
Innanzitutto, si preferisce ora pluralizzare il disturbo. Parlare, dunque, di demenze, termine ombrello che dovrebbe sussumere una sindrome cognitivo-comportamentale con eziologia eterogenea. Tra le diverse demenze, vi sono la malattia di Alzheimer, la demenza frontotemporale, la demenza vascolare, la demenza con corpi di Lewy. Il filo rosso che accomuna le demenze e su cui la pratica clinica si concentra maggiormente per la diagnosi è il deterioramento cognitivo – da cui de-mens: senza mente.
Il DSM-5-TR (nel quale al termine “demenze” si è preferito il più generale “disturbo neurocognitivo maggiore”) caratterizza il disturbo in modo eminentemente cognitivo; i criteri diagnostici si costituiscono coerentemente come rilevazioni di “declino” e “deficit” in tal senso. Lo strumento per la diagnosi più utilizzato per le demenze, il Mini Mental State Examination, non fa che tradurre in termini testistici gli assunti nosografici del DSM-5-TR. I quesiti del MMSE si coagulano attorno all’orientamento spazio-temporale, alle abilità attentive, alle capacità di linguaggio e di ritenzione e rievocazione di informazioni.
Il sistema nosografico e i test psicologici maggiormente utilizzati riflettono, a ben vedere, un preciso modus imperante nella psicologia e nella pratica clinica che tende a privilegiare e, talvolta, a considerare unicamente l’ambito cognitivo nel disagio psicologico, nelle psicopatologie e nelle neurodegenerazioni. Schemi cognitivi maladattivi, test cognitivi, prestazioni cognitive, declino cognitivo. Un tale approccio ha indubbiamente vantaggi per la diagnosi. Rischia, tuttavia, di trascurare o ignorare del tutto un quadro sottostante alle prestazioni ben più complesso, la cui stratificazione sfugge alle prove di span, e di risultare, in ultima istanza, unilaterale.
L’approccio fenomenologico esplicita precisamente la stratificazione dell’esperienza dei soggetti con demenza, rendendone manifesta la complessità. L’esperienza vissuta di una persona con demenza non può ridursi ai noti cali nelle prestazioni cognitive e di memoria né al correlato biologico (estremamente eterogeneo e, purtroppo, ancora non del tutto univoco: le placche amiloidi, ipotizzate come eziologia della malattia di Alzheimer, si trovano anche in vasti campioni di popolazione sana e in assenza di disturbi neurocognitivi). Tacita, al di sotto della dimensione cognitiva o riflessiva, si trova una dimensione implicita, spesso data per scontata, poco indagata: l’orizzonte pre-riflessivo. Raramente viene tematizzato. Sempre viene vissuto nella prassi del nostro stare al mondo. La fenomenologia getta luce su questo strato di esperienza silenzioso e tuttavia fondante.
Nella nostra vita quotidiana, agiamo molto spesso in modo pre-riflessivo. Organizzare i nostri impegni implicitamente secondo un ordine temporale “prima-ora-dopo”, orientarci nel nostro quartiere senza riflettervi o, ancora, le nostre abitudini e abilità mediate dal corpo (dalla guida della macchina al saper suonare uno strumento musicale); solo alcuni dei modi pre-riflessivi che caratterizzano costantemente il nostro stare al mondo. In questi esempi, tuttavia, è chiara la cifra comune: si tratta di un sapere implicito, non tematizzato; più un “saper fare” che un sapere teoretico. Un dominio di esperienza che sembra non avere a che fare con le operazioni cognitive e riflessive e che, anzi, entra in cortocircuito quando si prova a razionalizzare eccessivamente. Si pensi alla guida della macchina. È davvero raro che, guidando, si pensi attivamente e analiticamente a tutti i singoli passaggi che costituiscono la pratica della guida; piuttosto, si guida. Si agisce in base ad una memoria sedimentata in gesti e azioni.
L’applicazione di queste riflessioni al caso delle demenze è di straordinario interesse. Nella demenza, le abilità cognitive e riflessive subiscono un graduale, ma incessante deterioramento. È ciò su cui Alois Alzheimer si focalizzò nel resoconto dell’esame di Auguste Dieter: “perdite di memoria”, “disorientata nel tempo e nello spazio”, “non capiva niente”, “regressione mentale”. Il Mini Mental State Examination conferma e invera un approccio pericolosamente unilaterale se assolutizzato: quello che nei soggetti con demenza prende in considerazione unicamente il declino cognitivo. L’analisi fenomenologica invita ad andare oltre o, per meglio dire, più in profondità. A sondare strati dell’esperienza sottostanti e latenti. Come la contemporanea letteratura di psicopatologia fenomenologica ha riscontrato, ad avvenire nelle demenze non è solo un declino delle abilità riflessive. Nei soggetti con demenza la dimensione pre-riflessiva rimane intatta e può assurgere a eccellente strumento psicoterapico.
Auguste Deter, nei suoi colloqui con Alzheimer, ripeteva: “Ich habe mich verloren (ho perso me stessa)”. Senza dubbio la neurodegenerazione porta a impattanti disturbi di memoria e, dunque, a difficoltà nel ricordare narrativamente gli eventi della propria vita. Quella che in psicologia cognitiva viene definita memoria autobiografica richiede un’operazione riflessiva di decentramento dal “qui e ora” e di ricollezione esplicita delle proprie esperienze – quella che Husserl definisce ritenzione secondaria o ri-presentazione (Vergegenwärtigung; Husserl 1966) – da un tempo altro rispetto al presente. Questa operazione riflessiva diviene sempre più complessa con il progredire della demenza. Tuttavia, l’analisi fenomenologica sull’orizzonte pre-riflessivo mostra come non tutto venga perduto. Il caso di Marta Cinta González Saldaña è, in tal senso, paradigmatico.
Marta è stata per tutta la sua vita una ballerina professionista. Nel 2019 è deceduta, dopo una diagnosi di malattia di Alzheimer avvenuta anni prima. Un celebre video sull’ALZHEIMER’S RESEARCH ASSOCIATION (https://www.youtube.com/watch?v=IT_tW3EVDK8) la mostra ad uno stadio di patologia molto avanzato. Marta non ricorda di essere stata una ballerina. Verosimilmente, non ricorda molto della sua vita passata. Le sue operazioni riflessive di decentramento dal “qui e ora” sono estremamente compromesse. Il filmato, tuttavia, esibisce la straordinaria permanenza dello strato pre-riflessivo. In questo caso, si assiste a quella che si potrebbe definire una memoria senza ricordo: una memoria mediata dal corpo e non di tipo riflessivo, narrativo, esplicito. Ascoltando le magnifiche note de Il lago dei cigni di Tchaikovsky, Marta ha memoria dei movimenti del suo corpo, della coordinazione, della gestualità sulla quale si è verosimilmente impegnata per anni accompagnata dal balletto. Non ricorda; ma ha memoria. Una memoria pre-riflessiva, implicita e procedurale. Pre-riflessivamente, Marta è ancora Marta. Ha certamente perso una parte di sé, ma non tutta la sua persona.
Il caso di Marta dimostra efficacemente come, attraverso la pre-riflessività, si possa addirittura avere un accesso a ciò che nella demenza si reputa perso per eccellenza: il passato. È necessario e auspicabile che l’indagine sulle implicazioni di carattere psicoterapico che la pre-riflessività può avere nelle demenze prosegua. Auguste sentiva di aver perso sé stessa. Marta, invece, attraverso la memoria del suo corpo, avrebbe potuto affermare il contrario. Non considerando unicamente le funzioni cognitivo-riflessive e abbracciando “la personalità vivente tutta intera” (Minkowski, 2004), Marta, danzando con eleganza, grida con delicata forza: sono ancora me.
Bibliografia:
American Psychiatric Association, 2022. Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed., text rev.).
M. Borri, 2012. Storia della malattia di Alzheimer, Il Mulino.
E. Minkowski, 2004. Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi.
E. Husserl, 1966. Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins: 1893-1917, HUA X.
M. Summa & T. Fuchs, 2014. Self-experience in Dementia, in Rivista internazionale di filosofia e psicologia.