PsichiatriaSalute mentale

Architettura e psichiatria: luoghi che curano

Articolo a cura di Maria Pia Amore e Raffaele Avico

 

Giancarlo De Carlo, noto per la sua Architettura della partecipazione, affermava che esiste un rapporto estremamente intenso tra lo spazio fisico e chi lo abita e che senza l’interesse in questo rapporto non avrebbe potuto fare l’architetto. Questo rapporto, questa relazione estremamente intensa, in termini generali, tra uomo e ambiente costruito, individua un ampio campo di interesse il cui perimetro labile può essere tracciato dall’architettura insieme con la medicina, le neuroscienze, le scienze cognitive, la filosofia, la psichiatria e la psicologia. In questo campo al progetto di architettura è oggi chiesto di guardare all’uomo in relazione a un “nuovo” punto di interesse che ruota intorno alla parola chiave health, salute. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) descrive la salute come “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità”. La progettazione degli spazi della vita dell’uomo travalica i limiti di considerazioni strettamente funzionali, tecniche ed economiche per approdare a una visione dell’architettura in cui l’uomo, l’abitante è considerato nel suo insieme fisico e psicologico. Si sta sviluppando in generale una maggiore attenzione a qualità dello spazio che hanno ripercussioni sulla salute dell’uomo in senso ampio: le forme, l’uso dei colori e della luce naturale, l’inserimento del verde e dell’arte negli ambienti, la qualità delle viste verso l’esterno, ecc.

In tale prospettiva risulta chiaramente interessante affrontare i temi legati al passaggio da un’architettura “di cura” a un’architettura “che cura” in relazione alla specifico della salute mentale.

Un rapporto stretto tra luogo e trattamento dei malati psichici era rintracciabile nei vecchi istituti manicomiali la cui architettura – spesso una cittadella immersa nel verde – era articolata come un vero e proprio strumento per la cura, luogo di cura «Kom» della follia «mania», efficace perché rigidamente separato dalla realtà esterna: si riteneva che con la calma e il silenzio la mente tormentata potesse purificarsi e trasformarsi in una tabula rasapsicologica, pronta ad accogliere i nuovi pensieri assennati che vi avrebbe impiantato l’alienista. La funzione fittiziamente terapeutica del manicomio tradotto in un’istituzione totale produce nella seconda metà del Novecento movimenti anti-istituzionali che promuovono una nuova cultura antimanicomiale e concetti quali il decentramento, la territorialità, la continuità terapeutica tra Ospedale Psichiatrico e territorio, l’accoglienza in strutture intermedie fra l’ospedale e la famiglia.

Delineata la fine della soluzione asilare, con la crisi del paradigma istituzionale dovuta a fattori economici – i vecchi manicomi si sono dimostrati costosi, inefficienti e nocivi – e alla nuova sensibilità per i diritti dei pazienti – con la consapevolezza che gli Ospedali Psichiatrici non fossero luoghi di cura ma spazi di segregazione – nel 1978, sulla base teorica secondo cui un effettivo recupero del malato di mente non potesse prescindere dal suo reinserimento nella società, viene promulgata in Italia la legge 180 che sancisce il superamento degli Ospedali Psichiatrici.

Chiusura Manicomio Trieste
Immagine a cura di Maria Pia Amore:  Manifesto che segnala lo svuotamento e la chiusura dei reparti dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste disegnato da Ugo Guarino con sovrapposizione: Marco Cavallo a Trieste

Il quadro normativo attualmente vigente in Italia prevede che nell’ambito del territorio definito dall’Azienda Sanitaria Locale (ASL) la cura, l’assistenza e la tutela della salute mentale siano “garantite” attraverso strutture e servizi erogati dal Dipartimento di Salute Mentale (DSM), coadiuvato dalle Cliniche universitarie e dalle case di cura private.

Il DSM è dotato dei seguenti servizi:

servizi per l’assistenza diurna: Centri di Salute Mentale (CSM). Il Centro di Salute Mentale è il centro di primo riferimento per i cittadini con disagio psichico. Coordina nell’ambito territoriale tutti gli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione dei cittadini che presentano patologie psichiatriche. Il CSM è attivo, per interventi ambulatoriali e/o domiciliari, almeno 12 ore al giorno, per 6 giorni alla settimana.

servizi semiresidenziali: Centri Diurni (CD) Il Centro Diurno (CD) è una struttura semiresidenziale con funzioni terapeutico-riabilitative, collocata nel contesto territoriale. È aperto almeno 8 ore al giorno per 6 giorni a settimana e può essere gestito dal DSM o dal privato sociale e imprenditoriale.

servizi residenziali: strutture residenziali (SR) distinte in residenze terapeutico-riabilitative e socio-riabilitativa. Si definisce struttura residenziale (SR) una struttura extra-ospedaliera in cui si svolge una parte del programma terapeutico-riabilitativo e socio-riabilitativo per i cittadini con disagio psichiatrico inviati dal CSM con programma personalizzato e periodicamente verificato. Le strutture residenziali sono differenziate in base all’intensità di assistenza sanitaria (24 ore, 12 ore, fasce orarie) e non hanno più di 20 posti. Sono collocate in località urbanizzate e facilmente accessibili per prevenire ogni forma di isolamento delle persone che vi sono ospitate e per favorire lo scambio sociale.

servizi ospedalieri: i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e i Day Hospital (DH). Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) è un servizio ospedaliero dove vengono attuati trattamenti psichiatrici volontari ed obbligatori in condizioni di ricovero. È ubicato all’interno delle strutture ospedaliere (Aziende ospedaliere, Presidi ospedalieri di Aziende sanitarie, Policlinici universitari).  Il numero complessivo dei posti letto è individuato tendenzialmente nella misura di uno ogni 10.000 abitanti. Ciascun SPDC contiene non più di 16 posti letto ed è dotato di adeguati spazi per le attività comuni. Il Day Hospital psichiatrico (DH) costituisce un’area di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve e medio termine. Può essere collocato all’interno dell’ospedale, con un collegamento funzionale e gestionale con il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Può essere, inoltre, collocato presso strutture esterne all’ospedale, collegate con il CSM, dotate di adeguati spazi, delle attrezzature e del personale necessario. È aperto almeno 8 ore al giorno per 6 giorni alla settimana.

La riforma dell’assistenza psichiatrica ha radicalmente cambiato lo scenario del trattamento del disagio e dei disturbi psichici: si è spostato il baricentro dell’assistenza dall’Ospedale Psichiatrico al territorio e, attraverso l’organizzazione dipartimentale, i servizi integrati sono stati chiamati a rispondere a bisogni complessi e a percorsi di cura e riabilitazione/inclusione dell’utenza – senza trascurare la prevenzione/promozione della salute mentale. In altre parole, lo spazio della curaha superato i muri del manicomio per approdare in uno spazio fisico e sociale molto più ampio.

In questo processo trasformativo il tessuto sociale ha fatto proprio il Centro di Salute Mentale ed è maturata la capacità critica dei cittadini di “accoglienza” dentro il contesto urbano. Come scrive Peppe Dell’acqua–  militante basagliano tra i promotori del Forum Salute Mentale, avamposto per la tutela dei diritti delle persone con disturbo mentale e psichiatra, già Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste –  la riforma dell’assistenza psichiatrica e la chiusura dei manicomi  hanno di fatto decostruito i luoghi della psichiatria: un nuovo progetto di spazio architettonico per la salute mentale avrebbe potuto realizzarsi comprendendo il senso dei passaggi riformisti e fondando sul lavoro critico degli psichiatri e degli architetti intorno ai saperi, alle tecniche, ai contesti in cui operano.  «Il centro di salute mentale, la chiave di volta, l’avamposto del sistema comunitario di cura e di assistenza, doveva diventare, negando quotidianamente la sua pretesa natura medico-sanitaria, un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che oggi, ancor più che allora, vuole vedersi abitato non (soltanto) dai “pazienti”. Un luogo che progetta, costruisce e cura un suo dentro senza mai perdere di vista il fuori. Anzi è l’attenzione ossessiva al fuori che pretende la cura del dentro» (Dell’acqua, D’autilia, 2017).  Questi luoghi di soglia –  che per Dell’Acqua devono configurarsi “in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, le strade del rione, il centro di salute mentale” –  faticano ad essere costruiti e il loro buon funzionamento è continuamente disatteso. La rete dei servizi per la salute mentale non è distribuita in maniera omogenea sul territorio e soprattutto soffre di un enorme “vuoto” sistemico esistente tra le uniche due condizioni di sofferenza in qualche modo riconosciute: la “crisi” e la “cronicità”. La “crisi” si colloca negli SPDC e a volte in cliniche private convenzionate; la “cronicità” sedimenta nelle comunità terapeutiche e residenziali, negli istituti, nei centri diurni, nelle cooperative assistite (Camarlingi R., 2008). «È così poco sviluppato il lavoro nei territori, la presa in carico, il centro di salute mentale aperto 24 ore che acuto e cronico finiscono per determinare i percorsi di cura. […] Mancate risposte, discontinuità, assenze, contenzioni e silenziamento costringono progressivamente le persone, giorno dopo giorno, verso le periferie delle nostre città, del nostro sguardo e della nostra anima. E una volta messe al margine attraverso passaggi che sono evidenti e ricostruibili fanno fatica a rimontare. Così dal diagnosi e cura, all’associazione, al carcere, alla cooperativa sociale, all’ambulatorio, alla comunità si costruisce un circuito senza fine. Questi passaggi cominciano da un punto qualsiasi del circuito, incontrano fragili attenzioni, frammentarie prese in carico, rotture e ricoveri, isolamento e trasgressioni, servizi ambulatoriali territoriali trasparenti, incapaci di trattenere, servizi sociali burocratizzati. Ogni servizio, ogni stazione di questo circuito, offre una risposta relativa alla sua competenza, una risposta parziale. […] Il problema, il bisogno complessivo della persona resta inascoltato. […] La persona con la sua domanda continua a girare sempre più muovendo verso la periferia» (Ibidem, pp. 29-30).

Appare immediatamente chiaro che l’idea di costruzione di uno spazio della soglia inteso con Dell’Acqua non possa prescindere da un’attenta considerazione dello spazio – oltre che sociale – architettonico e urbano del dentro e del fuori.

Sint-Jozef
Schizzo di progetto, de Vylder Vinck Taillieu, Sint-Jozef, Melle, Belgio, 2016

Un caso paradigmatico può essere considerato quello dello Sint-Jozef, a Melle in belgio dove un progetto di de Vylder Vinck Taillieu ha evitato la demolizione dell’edificio per le cure psichiatriche, al centro del campus Caritas, trasformandolo in uno spazio comune ibrido fra interno ed esterno. Il progetto è stato realizzato insieme a BAVO – un gruppo di ricerca che si occupa di politica e architettura. Il processo partecipativo fra aDVVT, Bavo, medici, management, staff e pazienti della clinica ha portato a un progetto che incarna le esigenze degli utenti della clinica stessa: un edificio che non ha una funzione specifica se non quella di accogliere i desideri della comunità a cui Sint-Jozef appartiene. Alla base del progetto è la riflessione sull’evoluzione di un’istituzione come una clinica psichiatrica attraverso la riconfigurazione spaziale dei suoi edifici del XIX secolo. Per questo motivo, i pazienti sono stati coinvolti come “autori della richiesta di cura” – come spiega Bavo – per discutere e negoziare il progetto su una maquette, direttamente sotto il tetto di Sint-Jozef. Il risultato finale è uno spazio imprevedibile disseminato di scatole di vetro chiuse, progettato per reagire alle mutevoli esigenze della comunità attraverso riparazioni e giustapposizioni, dove le cicatrici del precedente funzionamento dell’edificio sono visibili, a volte esposte con orgoglio. I tre piani della struttura sono spazialmente aperti e sempre accessibili, dando una chiara indicazione del suo utilizzo. Sint-Jozef è ora un interno aperto, che può essere percepito come un giardino all’interno di una casa o – con le parole di aDVVT – una porta d’accesso in cui soffermarsi. Grazie a questo progetto, la Giuria internazionale della 16. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia ha attribuito il “Leone d’Argento per un promettente giovane partecipante alla 16. Mostra FREESPACE” a Jan de Vylder, Inge Vinck, Jo Taillieu (Ibidem, p. 66).

 

 

ASPETTI CLINICI: IL LUOGO DI CURA “OTTIMALE”

Nel lavoro strettamente medico con alcune tipologie di utenza nell’ambito della salute mentale, debbono essere tenuti in considerazione a riguardo del tema “luogo” alcuni aspetti specifici:

  1. La forma della struttura atta a ospitare un certo numero di pazienti consente un maggiore o minore “colpo d’occhio” sullo stato di salute dell’utenza stessa; questo significa che una struttura costruita in modo troppo architettonicamente articolato, presenterà al suo interno zone d’ombra non raggiungibili dallo sguardo dell’operatore sanitario, con tutte le conseguenze del caso (utenti poco visti, poco considerati, dimenticati). In questo senso ci si deve chiedere quale forma architettonica sia preferibile in relazione alla tipologia di utenza, in particolare in relazione al grado di compromissione psicofisica dell’utenza stessa: maggiore è il grado di dipendenza dell’utente dall’operatore sanitario, maggiore dovrà essere l’ampiezza della veduta dell’operatore stesso sul gruppo degli utenti. Sono ottimali in questo senso gli ambienti di cura costruiti con un corridoio centrale che affacci su diverse camere sullo stesso piano, per una questione di comodità e rapidità di “visualizzazione”, soprattutto quando si abbia a che fare con utenti non totalmente autosufficienti o grandemente richiedenti. In caso di maggiore autonomia (pensiamo a una struttura per utenti tossicodipendenti maggiormente autonomi) potrà essere sufficiente un “ufficio” centrale e aggregante dove l’utenza possa ritrovare l’operatore in turno
  2. Lo stato del luogo, il modo in cui il luogo è più o meno curato/gestito, è da sempre un aspetto largamente oscurato o sottovalutato nel suo essere strumento attivo di cura. Lo spiegano bene gli studi a proposito degli ambienti arricchiti. Esistono importanti studi di sociologia e psicologia sociale [1] che dimostrano come immergersi in e interfacciarsi a un ambiente degradato, conduca a comportamenti tendenzialmente maggiormente devianti e che ci raccontano di uno stretto legame tra un ambiente percepito come soggetto a incuria e uno “stato mentale” conseguente maggiormente deviante o abbandonico. Il luogo di cura ottimale dovrebbe comunicare, dunque, una presenza umana attiva che si occupi dello stato di igiene, pulizia e ordine del luogo stesso, considerando la manutenzione del luogo di cura come strumento primario nell’attività clinica stessa
  3. Come commentano molti articoli disponibili anche sul web [2] oltre che sulle riviste di settore, promuovere la creazione di ambienti arricchiti di elementi non strettamente necessari al lavoro di cura, ma in grado di impattare sullo “spirito” di un individuo (ispirandolo, ricaricandolo di energia rinnovata), aumenta l’efficacia dello stesso luogo di cura. Esiste molta letteratura a riguardo della scelta dei colori – ad esempio la teoria dei colori di Goethe, ripresa da Rudolf Steiner – e di ciò che dovrebbe idealmente caratterizzare in senso estetico il “setting[3]. Nonostante l’apparente scientificità “debole” della questione, l’impressione è che questi aspetti inerenti il setting debbano costituirsi come aspetti di scelta di metodo di primaria importanza. Concetti centrali sono qui quello di salutogenesi (promozione attiva di salute, non semplice tentativo di estirpare la malattia) e di umanizzazione del luogo di cura (ergonomia del luogo, miglior “comodità” nell’interfacciarsi a un certo luogo di cura).
  4. La conformazione dei luoghi, si carica inoltre di alcuni significati simbolici che comunicano in modo implicito alcuni valori del luogo stesso: l’importanza per esempio della gestione dei limiti/porte, o la presenza o meno di finestre interne alla stessa struttura che costituiscono elementi di comunicazione implicita tra il personale curante e il gruppo degli ospiti, in grado di veicolare precisi messaggi o di creare “atmosfere” (maggiore o meno inclusione, sensazione di “lavorare insieme”, sensazione da parte del gruppo ospiti di essere escluso dal lavoro del personale curante, etc.). Questo vuol dire che in un ambiente come quello di una struttura terapeutico/psichiatrica, tutto, potenzialmente, è in grado di veicolare messaggi, potremmo dire che tutto può divenire “setting”; risulta necessario sottolineare che il personale curante dovrà produrre una riflessione su aspetti come:
  • forma e apertura o chiusura delle porte
  • presenza o meno di finestre
  • dispositivi anti-suicidari e loro forma: allo stato attuale la maggioranza delle strutture psichiatriche adotta sbarre alla finestre alte, sbarre di distanziamento da luoghi potenzialmente in gradi di offrire appigli per suicidi volontari, reti a proteggere le trombe delle scale; esistono però delle eccezioni a queste consuetudini d’arredamento “psichiatrico”: per esempio la clinica di Zurigo Burgholzli, celebre per aver ospitato il praticantato di Gustav Jung, si è dotata di pareti di vetro anti-sfondamento al posto delle sbarre, apposte internamente alle finestre più alte (come si osserva in fotografia).
Finestre del Burgholzli
Le finestre del Burgholzli, la famosa clinica psichiatrica, montano un vetro infrangibile piuttosto che sbarre
  • arredamento delle zone di lavoro congiunto (operatori e utenti): disposizione dei tavoli nei locali dove vengono effettuati i pasti, disposizione delle sedie/poltrone/divani nei locali dedicati allo svolgimento di gruppi terapeutici o assemblee; l’aspetto dell’ingresso (per un approfondimento su questo andrebbe letto il PDF prima citato) come luogo primo di accoglienza per lavoratori e utenti; la composizione dei giardini, se presenti e la presenza di piante/vegetazione negli ambienti chiusi;

 

Il discorso può essere allargato e può prendere dimensioni più sfumate; la medicina antroposofica, per esempio, rappresenta l’attuazione dei principi teorici promulgati dagli studi di Rudolf Steiner, personaggio e intellettuale controverso nella sua poliedricità; l’architettura steineriana, antroposofica, si modella su principi di coesistenza armonica tra uomo e abitazione applicabili anche al contesto “clinico” [4].

Vi si estrae un doppio aspetto, o meglio, un doppio razionale di intervento:

  • l’attenzione alla vita quotidiana di utenti operatori, facilitati nella convivenza da luoghi strutturati per essere “umanizzati e salutogenici”
  • un mandato di ordine superiore che consenta un progettazione architettonica ispirata dalla triade concettuale ENERGIA/COMFORT/SALUTE, questo in particolare laddove una struttura debba essere costruita o progettata ex-novo: in questo caso vi si potrà dedicare un’attenzione peculiare, orientata a mettere l’uomo al centro.

 

 

Bibliografia:

  • Amore M.P. (2019), Relazioni inedite. La definizione del margine tra gli ex manicomi e la città: appunti per un inventario, Tesi di Dottorato in Architettura presso il Diarc – Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
  • Camarlingi R. (2008), Intervista a Peppe Dell’Acqua: la legge Basaglia 30 anni dopo, fogli d’informazione n° 5-6, terza serie – 01-06/2008, pp.22-36.
  • De Carlo G. (2015), L’architettura della partecipazione, Quodlibet Habitat.
  • Dell’Acqua P., D’Autilia S. (2017), Un’architettura per liberare la follia. San Giovani non è memoria monumentale in AA.VV., Rapporto sullo stato degli ex Ospedali Psichiatrici in Italia, a cura di D’Agostino A., «Festival dell’Architettura Magazine, ricerche e progetti sull’architettura e la città», n.41, luglio-settembre 2017.

 

Note:

1. Si veda ad esempio la teoria introdotta nel 1982 in un articolo di scienze sociali pubblicato sulla rivista The Atlantic degli studiosi James Wilson e George nota come broken windows theory.

2. Si veda ad esempio http://www.lavorosociale.com/archivio/n/articolo/luogo-cura-luogo-cura

3.  Si vedano gli atti del convegno “Architettura per la Salute: la progettazione consapevole degli spazi di cura” promosso dall’Associazione Culturale arslineandi e dall’Università degli Studi di Trento svolto il 20 maggio 2016 a Trento e disponibili on line al link: https://www.medicinaantroposofica.it/wp-content/uploads/2017/01/DYNAMEIS-numero-2.pdf. Disponibile anche la documentazione video del convegno al link: https://www.youtube.com/watch?v=IDvyR8mSwCM

4. Per un approfondimento puntuale su questi aspetti, si veda il contributo al convegno, di cui in nota precedente, di Alessandra Orgoni e Marco Plebani “La FilderKlinik . Architettura antroposofica in una clinica quale luogo per la salute

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Back to top button