I concetti della fenomenologia

La coscienza interiore è la macchina del tempo

Il concetto introdotto, di recente, di tempo patico nel campo psicologico-psichiatrico pone in risalto il difficile tema della temporalità durante le crisi psicologiche e gli stati di sofferenza psichica. Il patico, di cui si accennerà in tale saggio, coincide con il “sentirsi” della coscienza per fronteggiare il limite e il confine del dolore psichico, nella propria individualità (imprigionamento patico).

E tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di patimenti necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento.1

Scriveva così nel 1822 Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone, ricordando l’inevitabilità della sofferenza vissuta nel tempo-durata e la costante sperimentazione, a livello personale, del patimento umano. “Patimento” – in greco pathos – è termine carico di implicazioni psicologiche ed esistenziali (concettuali, ontologico-metafisiche ed etico-antropologiche) su cui tenteremo, per quanto possibile, di soffermarci in modo analitico e a livello clinico.

Senza l’incontro di un vivente con altri nessun vissuto ci sarebbe. I fenomeni patici e le fenomeno-patie non si originerebbero senza il gioco di una pluralità di viventi.2

Tale tematica, che durante la sofferenza oscura (Piro, 2005) detta “psichica”, coinvolge sé stessi e gli altri, si manifesta come “rottura” della trama temporale e si configura come fondamentale ai fini della costituzione di una prassi di guarigione. Dunque, a partire dal fenomeno della temporalità (tempo vissuto, tempo patico, tempo cronodetico, tempo-durata e ipertempo) e della dimensione semantica-emozionale appare possibile adottare un ulteriore sistema di regole, accanto a quelle esistenti, riguardo l’agire terapeutico. Il mutamento del tempo patico del paziente può avvenire, come scritto in altri lavori,3 superando una sorta di “guasto temporale”. Inoltre, riconoscere le contraddizioni interne ed esterne del tempo patico, il sentire (colto a ogni istante/adesso) e il divenire/flusso del tempo (del prima e del dopo) ci permette di ritrovare la nostra natura di persone capaci di andare al di là della sofferenza. Si rende quindi necessario mettere in luce la necessità di tracciarne una genesi e una dinamica della cura a partire dalla “reciproca influenza” esistente tra temporalità, pathos e coscienza.

Il tempo procede un capovolgimento di senso – perché diventa esso il “soggetto”, ciò che agisce e determina il senso.4

Per chi scrive, il tempo patico diviene durante lo spazio della cura oggetto di riflessione, ossia un “campo operazionale” di oggetti percepiti, immaginati, desiderati tra clinico e paziente: nella modalità della percezione, del giudizio o attesa/epoché, della rappresentazione di sé e dell’altro, della speranza verso il futuro. Si tratta di oggetti idealizzati dalla riflessione e apparentemente reali che entrano nella coscienza. La coscienza si pone in rapporto con tali oggetti/riflessioni ed essi sono assunti (introdotti) nella coscienza secondo questa o quella modalità di riflessione e rappresentazione psichica esistente nel dialogo tra terapeuta e paziente.

Il tempo patico (la percezione, la rappresentazione e l’immaginazione) ci aiuta, pertanto, a scoprire e valorizzare un legame tanto complesso quanto semplice con la vita vissuta; ci invita a cogliere tutto ciò che viviamo dentro di noi: l’orizzonte della temporalità umana quale utile chiave di lettura per comprendere la sofferenza psichica (oscura) e il vissuto del dolore.

Il tempo patico, oggetto del nostro investigare, può essere analizzato sotto il profilo dell’atto concretamente vissuto da parte del paziente, di quello che Husserl (e in senso diverso Dilthey) chiama Erlebnis.5 Tale termine, intraducibile in italiano – in quanto sostantivo del verbo Erleben, a differenza di Leben (che significa vivere) in virtù dell’aggiunta del suffisso “er” (come nel verbo Er-fahren: fare esperienza) –, designa un vivere-attivo, un vivere-la-vita. Erlebnis è allora, in campo clinico, una possibile chiave per poter interpretare il tempo vissuto durante una crisi o sofferenza psichica; è, in questo senso, un atto vivente carico di pensieri, giudizi e percezioni che, per semplicità e con i dovuti limiti, può essere tradotto con “vissuto personale”.

Ma in che modo è rinvenibile tale Erlebnis dentro la temporalità o sofferenza oscura detta “psichica”? È possibile cogliere, con grande attenzione clinica, il tempo patico negli stati di sofferenza e, per meglio dire, all’interno del più generale tema della costituzione e guasto/distorsione temporale (vissuto patico del tempo-presente, tempo-passato, tempo-futuro; o triade).

Il guasto temporale che manifesta il paziente che non riesce a porsi in maniera positiva riguardo il vissuto (presente, passato e futuro) ha sempre un risvolto patico. Il termine pathos indica clinicamente tante cose: sofferenza, patimento, passione, esperienza, emozione, dolore, affetto, accidente, caso, destino, affezione morbosa, infermità, sventura, calamità, disgrazia, infelicità, affetto, infermità dell’animo. La ricchissima gamma di significati che, di primo acchito, sembrerebbero non avere nulla in comune, trova invece un fondamentale raccordo nella radice greca path:

Il vocabolo greco, come testimonia la radice παθ-, è riconducibile alla forma dell’aoristo del verbo πάσχειν, che esprime l’idea di “sofferenza” e che descrive sia il fatto di trovarsi in una condizione di “sopportazione”, sia il fatto di subire un’attività esterna, di essere “passivi”.6

Il pathos del paziente, pertanto, si configura come ciò che si subisce con dolore durante una crisi psicologica o esistenziale; come ciò da cui, nel bene o nel male, si è investiti, travolti e sconvolti. Non a caso, i latini per denotare tutto questo complesso di “sensazioni patite”, nel bene o nel male, ricorreranno ad alcuni termini come affectus, passio, perturbatio, aegritudo.

Le parole […] sono sapienti di per sé e per questo, ogni volta, prima ancora di pronunciarle bisognerebbe ascoltarle, come all’inizio. Infatti, non sono nostre, ma ci sono state donate, le abbiamo apprese.7

Ai fini delle traiettorie di una cura, questo rapporto tra tempo patico e sofferenza psichica viene isolato e indagato in vista di due obiettivi fondamentali per la clinica. In primo luogo, come viene compreso a livello razionale e cognitivo il tempo psicologico, illustrando al paziente durante il decorso di ogni incontro come la stressa tematica del tempo patico si manifesta nella durata della psicoterapia, soprattutto quando durante ogni narrazione si riferisce della propria esperienza di vita (coscienza interiore del tempo vissuto). Si parte dalla riflessione sul modo in cui si costituisce, nel bene e nel male, la coscienza della retroazione al passato, il vissuto dell’adesso e l’attesa del futuro e quale funzione essa svolga in rapporto alla storia personale attuale, al divenire e al presente percettivo. In secondo luogo, durante il colloquio si evidenziano gli approfondimenti clinici e le ricadute che il tempo patico ha sulla sua esistenza, sulle traiettorie del destino e i danni che può recare il guasto temporale, ponendo in risalto le forme della dinamica temporale.

Al di là del tempo durata di una cura (il tempo dell’orologio che misura il flusso dell’apertura e della chiusura di ogni seduta o incontro; del prima e del dopo; degli accadimenti umani tra terapeuta e paziente) ogni paziente è in bilico tra cura e sofferenza, tra la sensazione dell’eternità (il tempo infinito) e il fluire del tempo (il tempo apparentemente lineare, che scorre e che finisce). Ogni persona, ogni paziente possiede (per modo di dire) una coscienza del sentimento del tempo presente, passato e futuro, anche se non può contare su un organo di senso che permetta di svelarne l’origine, l’enigma.

Questo mondo, che adesso, in ogni “adesso” di veglia, mi è alla mano, ha il suo orizzonte temporale bilateralmente infinito, il suo passato e il suo futuro, noto od ignoto, vivo o privo di vita […]. Posso variare il mio punto di vista nello spazio e nel tempo, dirigere lo sguardo in qua e in là, avanti e indietro nel tempo, posso procacciarmi percezioni e rappresentazioni sempre nuove, più o meno ricche di contenuto, o immagini più o meno chiare, in modo da rendermi visibili ciò che nelle solide forme del mondo spaziale e temporale è possibile e presumibile.8

Durante la cura, il tempo patico ci offre percezioni, sensazioni e rappresentazioni (giudizi) sempre nuove anche se, come poc’anzi detto, non esiste un organo specifico del corpo alla base di tale percezione temporale – come esiste l’occhio per la visione. Sembra piuttosto che la percezione interiore del tempo (tempo vissuto) del paziente abbia i tratti di un dispositivo interno di livello superiore della coscienza, risultante dall’integrazione di strutture cerebrali e dall’interazione persona-campo-ambiente connesso con la crescita del livello di consapevolezza e immaginazione umana (stati interni ed esterni): il tempo patico del paziente coinvolgerebbe, durante ogni narrazione, lo slancio vitale, la memoria operativa e la capacità associativa.

Riguardo poi al tempo-durata, o percezione del flusso temporale, cosa ben diversa dal tempo interiore, come insegna Eraclito ogni individuo sa che il tempo scorre, che tutto passa, che durante il divenire non risulta mai uguale a sé stesso. Con tutta probabilità la consapevolezza del trascorrere del tempo gli deriva dall’osservazione dei fenomeni naturali, ossia dell’accadere, dall’immersione in un campo antropico da parte della coscienza pre-riflessiva. Inoltre, l’alternarsi del giorno e della notte e l’avvicendarsi delle stagioni scandiscono l’avanzare degli accadimenti, anche se ne suggeriscono un procedere relativamente lento, lineare e ciclico. Come già detto – accanto alla percezione del tempo come durata che possiamo pur sempre misurare, come una sequenza o svolgimento lineare (da un punto all’altro, in sequenza) o circolare (il ritorno delle cose che si ripresentano) –, vive in tutti noi nella coscienza un tempo patico che ristruttura l’immagine temporale dentro la coscienza di sé. Occorre anche ricordare che l’osservazione della vita – soprattutto delle persone che nascono, crescono, invecchiano e muoiono –, produce in noi tutti la sensazione profonda e inevitabile di un continuo, inarrestabile succedersi di eventi temporali a-storici in una sola determinata direzione: dal prima (presente) al dopo (futuro), di una concezione della vita alimentata dalla conservazione delle tracce delle esperienze attuate o passate.9

Purtuttavia, nel tempo patico (il sentire/sentirsi immersi negli accadimenti interiori), ciclicità e linearità orientata non sono separabili. Rappresentano anzi i volti differenti del tempo, entrambi presenti sia nella percezione che di esso si ha nella quotidianità, sia quando si fa oggetto della misurazione di una riflessione interiore. La cura psichica è costituita dall’evidenza del processo temporale del paziente, del cambiamento del curante durante un tempo-durata mediante delle collaudate e sperimentali prassi cliniche sviluppate nel tempo. Ciò comporta un’adesione emozionale tra due persone, un percorso interiore di contrasto alla sofferenza. Il terapeuta che ben conosce il tempo patico dell’uragano (le crisi psichiche) e del cambiamento repentino (le crisi improvvise), la sofferenza interiore (il mutamento), il mutamento pauroso di sé stesso (le ansie, le depressioni, ecc.), l’arrampicarsi agli orizzonti mutevoli della propria epoca (i tentativi di guarire), può affrontare le sfide della cura.

Forse solo un magma di idee, confuse, sovrapposte e dissociate che puntino al di là dell’orizzonte, può smuovere la normalità terribile della sofferenza. Coloro che curano la sofferenza di questo nostro tempo sono gli sperimentatori del tempo che sopravviene, un tempo di cui nulla è possibile prevedere, nulla sognare, nulla immaginare: ricercatori che partono dal nulla sono i protagonisti dell’ulteriorità.10

L’oggetto della cura è dunque il cambiamento del modo di vivere il tempo patico a livello coscienziale. Seguendo l’idee di Husserl è la coscienza, il modo in cui il rapporto soggetto-oggetto deve essere istituito per salvaguardare l’oggettività del dato di conoscenza e, al tempo stesso, la priorità della dimensione coscienziale-soggettiva.11 Con l’opera Filosofia come scienza rigorosa (1911), Husserl ci mostra la deprecabile tendenza a naturalizzare la coscienza. Con il successivo Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913), egli mira a definire le forme generali della conoscenza puntando sul criterio metodologico dell’epoché (sospensione dell’atteggiamento naturale dell’uomo verso il mondo) e sulla teoria dell’intenzionalità per la quale la coscienza è sempre “coscienza di” qualcosa (contenuto oggettivo).

Il detto delfico gnothi seauton [conosci te stesso] ha ottenuto un significato nuovo. La scienza positiva è scienza nell’abbandono del mondo. Si deve prima perdere il mondo mediante l’epoché per poi riottenerlo con l’autoriflessione universale. Noli foras ire, dice Agostino, in te redi, in interiore homine habitat veritas.12

In campo clinico, ricordando sia Husserl che Bergson, si mette in luce il controsenso contenuto nel problema del tempo. Sappiamo, nell’ambito della clinica, che nessuna coscienza “istantanea” sarà mai in grado di costituirsi quale coscienza della successione temporale. Il rapporto che avviene nel paziente, ad esempio, tra percezione e memoria dovrà piuttosto essere un intreccio e una reciproca compenetrazione, in termini husserliani, nel concetto di “percezione adeguata” e, in termini bergsoniani, nel concetto di “percezione concreta”.

Gli assunti principali a livello clinico sono dunque:

  • la prospettiva trasformazionale del tempo vissuto: così la cura ha il compito di trovare nuovi percorsi di cambiamento e le “forme” generali, universali, costitutive dell’esperienza dolorosa e della sofferenza oscura, detta “psichica”;
  • la riduzione fenomenologica o sospensione del giudizio dinnanzi al tempo patico: l’epochè mette tra parentesi il “mondo vissuto” in quanto oggettività e porre in evidenza l’essenza di base di ogni accadimento psicopatologico;
  • la coscienza in relazione al legame con l’intenzionalità: il vivere intenzionale del paziente comporta la capacità di dare senso (giudizi) a ogni accadimento di vita mediante gli atti intenzionali presentemente vissuti. Ogni atto della coscienza intenzionale del paziente è un proiettarsi in avanti, un “tendere” verso uno scopo umano, verso un oggetto reale o immaginifico (un “percepito” nel caso del percepire, un “ricordato” nel caso del ricordare, un “amato” nel caso dell’amare, un “visto” nel caso del vedere). Anche la cura si presenta come un “tendere” verso qualcosa, per un tempo patico positivo.

Durante la cura, quando le parole, le esperienze di vita, i ricordi, il giudizio sul presente vissuto e su noi stessi, la riflessione interiore su ciò che accade (o è accaduto) vengono comunicate al terapeuta, la vita personale del paziente e la traiettoria del destino sembrano cambiare per sempre: non si torna indietro. Durante la terapia il mondo temporale, della vita e degli altri non cessa mai di ripresentarsi nell’interiorità, in mille forme espressive e comunicative (anche nel silenzio).

Il tempo patico si pone come un processo che parte dalla persona e si presenta come coscienza/consapevolezza di esistere, nelle fasi di crisi e di mutamento personale. Il tempo patico diviene coscienza di sé che dà luogo a una spinta inevitabile in avanti (nel futuro), una traiettoria che si apre nella direzione di una crisi più o meno catastrofale. La vita interiore, lo stravolgimento del destino e la metamorfosi del tempo patico dolorante sono conseguenze necessarie, talora lente e graduali, altre volte subitanee e rapide, in direzione di una possibile gioia ritrovata, del ripristino dei talenti, della relazioni positive umane, della riconquista del tempo.

Quando avviene la metamorfosi del tempo patico dolorante (fase della “presa di coscienza” del tempo vissuto e degli accadimenti interiori) la sofferenza rigida diviene sofferenza fluente, sino a scomparire del tutto. Il raggiungimento positivo o stravolgimento della cura diviene l’obiettivo trasformazionale.

Quando la cura personale è raggiunta lo scenario del tempo patico si è modificato; la trasformazione personale appare costituita dalla fluidificazione dell’angoscia o paura del paziente (ansia, ecc.), dall’invenzione di un modo nuovo di vivere il quotidiano anche durante eventi dolorosi. Durante il percorso vengono distinti il mondo della sofferenza fluente e mutevole e il mondo della sofferenza irrigidita e ripetitiva come estremizzazioni di una numerosa gamma di condizioni umane.

Cosi il tempo della coscienza è la realtà umana che si temporalizza come totalità che è per-sé la propria incompiutezza, è il nulla che scivola in una totalità come fermento detotalizzatore. Questa totalità che insieme si rincorre e si rifiuta, che non può trovare in sé nessun limite al suo superamento, perché è essa stessa il suo superamento e si supera verso sé stessa, non può comunque esistere nei limiti di un istante. Non vi è mai un istante in cui si possa affermare che il per-sé è, proprio perché il per-sé non è mai. Al contrario la temporalità si temporalizza tutta intera come rifiuto dell’istante.13

Le sofferenze psichiche sono orizzonti patici indicibilmente differenziati: il mondo umano della sofferenza fluente e mutevole è il luogo della terapia, delle relazioni, delle interferenze, della passione, del viaggio comune. Nell’allargamento del modo di pensare e vivere, nella lotta contro sé stessi è la sorgente di ogni cambiamento di qualità del tempo patico, della sostituzione della gioia all’angoscia. Il mondo della sofferenza irrigidita e ripetitiva esige, in una difficoltà e in uno stento molto maggiori, la fluidificazione dell’angoscia e la conquista della mutevolezza patica. Ogni terapia è stravolgimento del destino temporale e le tappe della fluidificazione nel mondo irrigidito sono molteplici e alternate.


Bibliografia

1 Leopardi, G. (2016). Zibaldone. Roma: Newton, 1822.

2 Masullo, A. (2003). Paticità e indifferenza. Genova: Il melangolo, 144.

3 Errico, G. (2020). Il tempo ch’io sono. La psicopatologia del tempo interiore. Psicologia Fenomenologica.

4 D’Ippolito, B.M. (2014). Dialettica e pathos nel pensiero di Aldo Masullo, in Cantillo, G., Giugliano, D. Theatrum mentis. Saggi sul pensiero di Aldo Masullo. Milano: Mursia, 34-35.

5 Husserl, E. (1965). Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Torino: Einaudi.

6 Maso S. (2010). Lingua Philosophica Greca. Dizionario di Greco Filosofico. Milano-Udine: Mimesis.

7 Natoli, S. (2004). Parole della filosofia o dell’arte di meditare. Milano: Feltrinelli, 6.

8 Husserl, E. (1965). Op.cit., 58-59.

9 Buongiorno, F. (2014). La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl, deComporre Edizioni.

10 Piro, S. (2005). Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale. Napoli: La Città del Sole, 576.

11 Husserl, E. (2002). La coscienza interiore del tempo. Napoli: Filema.

12 Husserl, E. (2002). Meditazioni cartesiane e discorsi parigini. Presentazione di R. Cristin, Bompiani: Milano, §64, 171-172.

13 Sartre, J.-P. (2023). L’essere e il nulla. Milano: Il Saggiatore, 193.

Giuseppe Errico

Psicologo e psicoterapeuta. È attualmente presidente dell'Istituto di Psicologia e Ricerche Socio-Sanitarie (Formia, Italia) e ricercatore nel campo delle scienze umane ad indirizzo Antropologico-Trasformazionale. Svolge attività di psicologo volontario presso l’Azienda dei Colli di Napoli, Centro Regionale Malattie Rare (CRMR).

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