PsicoterapiaPsicoterapia fenomenologica

La psicoterapia come pratica aperta sull’umano – Parte 1

La sfida per resistere delle terapie orientate in senso antropologico-trasformazionale e fenomenologico.

“There’s a war coming, Ned.
I don’t know when. I don’t know who will be fighting, but it’s coming.”

Robert Baratheon, Game of Thrones E2S1

Introduzione

La psicoterapia, oltre a essere uno specifico intervento di tipo sanitario, chiamato a migliorare la salute mentale delle donne e degli uomini che ne usufruiscono, è una pratica culturalmente situata, la destinataria principe in campo professionale dell’espressione del disagio relativo all’esistenza delle persone del nostro spazio e del nostro tempo. Per quanto ci siano degli elementi generici comuni alle psicoterapie (l’utilizzo della parola, la presenza di curanti e curati, la tensione verso un generico miglioramento di situazioni sofferenti), la varietà di approcci e pratiche mette in difficoltà dall’interno il mondo degli psicoterapeuti contemporanei. Sempre più investiti di responsabilità, per l’aumento della domanda di supporto alla salute mentale, i terapeuti faticano a mettersi d’accordo rispetto al senso del proprio agire e addirittura competono, pubblicizzando sé stessi o la propria scuola di psicoterapia, come unici titolari della verità psicoterapica, infondendo non poca confusione in pazienti e giovani professionisti, che si accingono a trovare una propria strada nella formazione e nella costruzione della propria pratica.

Allo scenario già da decenni confondente della psicoterapia italiana, dominato dalla feroce competizione, ideologica ma anche commerciale, tra le scuole di psicoterapia, si aggiungono due contingenze storico-culturali fondamentali, che complicano il campo:

a) l’irruzione sempre più massiccia della psicologia e della psicoterapia nel mondo della rete, con l’esplosione delle piattaforme di psicoterapia online presso cui prestano servizio migliaia di psicologi, e con l’utilizzo massivo dei social media come strumento per promuovere l’attività libero professionale degli psicoterapeuti.

b) l’incalzare, in ambito accademico, di sanità pubblica e in generale nel dibattito scientifico-culturale, del paradigma dell’evidence-based.

In questo contesto così complicato, chi sceglie la fenomenologia come cornice per la propria attività di professionista della salute mentale si espone inevitabilmente a farsi, per usare un’immagine calcistica, un grande autogol.

La fenomenologia, difatti, si tira fuori dall’agone psicoterapico. Non si pone come approccio tra gli approcci, non ha una teoria sulla natura umana, non ha un corpus teorico su cui fonda delle pratiche conseguenti che promettono il raggiungimento di obiettivi. Nel suo essere tante cose contemporaneamente, la fenomenologia è un metodo che si fonda sulla propria debolezza. Volontariamente prende una posizione ingenua rispetto all’indagine dei fenomeni di proprio interesse. Assume che l’esperienza non sia sezionabile in componenti isolabili e si oppone alla matematizzazione di essa. Fa esattamente il contrario di quello che Giancarlo Di Maggio[1] identifica come fondamento dell’intervento psicologico: si rifiuta di ricondurre il nuovo al noto, esorta i praticanti a porsi come “eterni debuttanti”, anche quando sono espertissimi e chiamati a prendersi la responsabilità della direzione di un intervento delicato.

Il nostro (anch’io, avendo una formazione fenomenologica, indosso tra le tante maschere quella di “fenomenologo”) è un modo di proporci alla cura in controtendenza sia commerciale che scientifica. Difficilmente mi immagino come attraente per il mercato un professionista che si propone con una linea di marketing fondata sul suo essere un “eterno debuttante”, utilizzando questa dicitura come uno slogan sintetico e diretto, come si usa per la comunicazione social. Così il fenomenologo dovrà camuffarsi, nascondere i perni del suo agire, prestandosi, per legittimarsi commercialmente e scientificamente, a metodi che non gli appartengono, adottare un linguaggio psicologistico, oggi diffusissimo anche nel senso comune, per comunicare con i suoi “follower”. Nel campo della ricerca interrogherà la “psiche” con questionari self-report, o con interviste e/o narrazioni scritte, analizzate però sempre tramite un approccio empirista, che vede nel dato raccolto, e non nell’esperienza, il suo oggetto di lavoro. Tutto questo lo farà per darsi una sopravvivenza economica o accademica, per non far morire il suo studio o per tirare su il proprio h-index. Così sicuramente potranno continuare a sopravvivere gli psicoterapeuti fenomenologi. Ma che ne sarà della fenomenologia? Sto estremizzando, lo so. Ma quello che descrivo non si allontana del tutto da ciò che sta avvenendo nella vita professionale di tanti colleghi.

In uno scenario in cui la fenomenologia appare esposta agli attacchi dello spirito del tempo, che in qualche modo ne preannunciano un suo annientamento, o, al meglio, la sua sopravvivenza in una nicchia ancor più ristretta di quella di oggi, gli psicoterapeuti fenomenologicamente orientati devono armarsi di studio e ricerca, chiarendo sempre più e sempre meglio a sé stessi e ai propri interlocutori il senso del proprio lavoro.

L’intento di questo doppio articolo è l’esplicitazione di una linea di pensiero rispetto ad una pratica della psicoterapia orientata in senso fenomenologico. Questa deve poter consentire ai fenomenologi che praticano la psicoterapia di partecipare a pieno titolo al dibattito sul destino della psicoterapia contemporanea, senza dover ricorrere a sotterfugi, pur rivendicando una posizione che potrebbe apparire scandalosa agli occhi dello spirito del tempo contemporaneo.

I “nuovi” pazienti: la ricerca della riparazione

Ho aperto il presente contributo descrivendo la psicoterapia come pratica culturalmente situata. Con questa espressione ci tengo a ribadire l’ovvio, che la psicoterapia non esiste come concetto astratto e naturale. È un’invenzione umana relativamente recente, non più certo una proposta innovativa per rapportarsi al sé. Si tratta ormai di un rituale codificato, da cui ci si aspetta una cura per la sofferenza delle persone. Tale attesa designa la pratica stessa, ed emerge dallo stesso magma antropico che consente alle persone di interpretare la propria esistenza come sofferente.

Gli psichiatri del XX secolo che hanno individuato nella fenomenologia un terreno fertile per approcciarsi alla cura degli individui sofferenti (su tutti Binswanger, Jaspers e Bloss), hanno inserito la fenomenologia nelle già codificate pratiche psichiatriche e psicoterapiche in evoluzione. Hanno quindi incontrato un’umanità e una follia già dominate dalle scienze mediche e psicologiche (Foucault, 1987). Se il successo della psicoanalisi nel secolo scorso ha contribuito a costituire un essere umano contemporaneo psicoanalizzato, che si vedeva composto da un mondo interno in lotta, da una vita inconscia da scoprire, da una ricerca di sé in un passato costellato di traumi e fissazioni celati da portare alla coscienza, lo psicoterapismo e lo psicologismo che dalla pandemia in poi sembra impazzare sui mezzi di comunicazione di massa contemporanei, sta contribuendo a costituire un essere umano che si legge attraverso categorie diagnostiche del DSM, neurodivergenze e un lessico psi che attribuisce agli individui un certo sguardo sulla propria esistenza. Ci si autodesigna sempre più spesso come difettosi, inefficaci, con dei limiti la fabbricazione, riconducibili a esperienze negative, o alla propria dotazione biologica. I fenomenologi di oggi, dichiarandosi psicoterapeuti, si inseriscono in un codice che porta con sé significati che emergono da una lettura di mondo profondamente intrecciata, per dirla con Piro, con gli attraversamenti doxico-ideologici dominanti del contemporaneo.

Tali attraversamenti inscrivono la psicoterapia in un orizzonte che fa riferimento alla figura antropologica dell’homo oeconomicus, descritta già da Michel Foucault (2015), e più recentemente in termini fenomenologici anche da Stanghellini (2023). Tale figura rappresenta l’ideale umano della contemporaneità. Descrive un umano orientato all’azione, alla produzione, all’efficienza, che utilizza la scienza e le sue pratiche (tra cui troviamo inevitabilmente la psicoterapia), come correttivi rispetto ai suoi difetti ultimi. Benasayag (2016) parla in questo senso di uomo modulare, un uomo che si pensa come un aggregato, composto di componenti, funzionanti o difettose, che interagiscono tra loro in un meccanismo paragonabile a quello di una macchina. Tale uomo richiede terapie che siano altrettanto modulari.

“Durante la seduta, il/la paziente avrà unicamente di mira l’efficacia nel raggiungimento degli obiettivi che si è prefissi, senza volersi soffermare per porli in questione e meno ancora per metterli in relazione con la propria epoca, il proprio tempo.”[2]

E in effetti questo è proprio quello che ci dice anche l’esperienza in prima persona di psicoterapeuti. L’individuo che viene in terapia investe, come un piccolo imprenditore, nella cura, con l’obiettivo di allontanare da sé i propri limiti, le proprie negatività, gli intralci rispetto al suo buon funzionamento. Vuole una terapia che sia rapida (a buona ragione, dato che le terapie si danno prevalentemente nel privato e sono molto costose!) e che raggiunga gli scopi per cui ci è giunto. Si aspetta di incontrare una fonte di risposte, di indicazioni sapienti, di tecniche misteriose ma dotate di scientificità, che lo conducano al superamento del problema portato. Ci si aspetta che lo psi ponga domande e di conseguenza, attraverso l’uso di sapienti mezzi tecnici, dica cosa si deve fare, come si deve fare.[3]

Il paradigma dell’efficienza e dell’efficacia: una stretta mortale

Come introdotto in precedenza, in parallelo ed in continuità con ciò che accade ai singoli individui rispetto all’atteggiamento verso le cure psi, nel mondo scientifico avviene qualcosa di molto simile. 

Dalla pubblicazione dei primi studi di Eysenck (1952) sull’efficacia della psicoterapia, delle vere e proprie aggressioni scientifiche nei confronti della pratica, che ne mettevano in dubbio alla radice il senso d’esistere, il mondo psi si è difeso andando alla ricerca di prove relative alla propria capacità di raggiungere degli outcome desiderabili. In altre parole, per almeno 50 anni, e ancor di più negli ultimissimi anni, la psicoterapia, nei suoi differenti approcci, ha generato una grande rincorsa, tesa all’individuazione di evidenze che potessero certificare la sua capacità di agire per raggiungere degli obiettivi (efficacia) e farlo del più breve tempo possibile (efficienza). A tale corsa hanno partecipato anche gli approcci più restii alla misurazione e all’osservazione sistematica (ad esempio, la psicoanalisi), che hanno in qualche modo generato prove del proprio agire, difese al proprio senso di esistere, nonostante gli attacchi continui e le messe in discussione agite dagli ambienti cognitivo-comportamentali.

Una sorta di pacificazione in questo campo è venuta dal filone di ricerche relative al cosiddetto “Verdetto di Dodo” (Wampold et al., 1997), una serie di studi empirici che hanno verificato l’efficacia della terapia al netto del metodo utilizzato, che ha favorito l’attenzione sui fattori comuni alla psicoterapia (Laska et al., 2014) più che sulla competizione tra singoli metodi e procedure. Tali evidenze hanno prodotto una sorta di lasciapassare per tutte le tradizioni psicoterapiche, consentendo che ciascuna continuasse ad occupare il proprio posto, contenendo in qualche modo le accuse sulla legittimità dell’una rispetto all’altra.

La questione però oggi risulta tutt’altro che chiusa. Una serie di fattori gioca per rendere sempre più stringenti i criteri per valutare l’efficacia. Continua a rimanere una forte sproporzione, relativa alle epistemologie di riferimento, tra pratiche più prone a procedurizzarsi e a ricercarne prove e pratiche orientate da tradizioni che, come la fenomenologia, vedono nel primato della singola esperienza umana un ostacolo insormontabile rispetto alla prescrizione di tecniche seriali. Tutto ciò comporta una potenza di fuoco differente nel legittimarsi agli occhi del mondo scientifico e non. Tale sproporzione si riflette nel sempre più diffuso inserimento delle pratiche evidence-based nei servizi sanitari pubblici e nel novero dei servizi rimborsabili dalle assicurazioni sanitarie private, universi che inevitabilmente, nei loro funzionamenti fortemente burocratizzati, utilizzano i criteri del modello medico.

Parallelamente, alla questione definita crisi della riproducibilità nelle scienze psicologiche (Maxwell et al., 2015), lungi dal muoversi per riflettere sui limiti del modello delle scienze positive rispetto allo studio dei fenomeni psi, il mondo della ricerca ha reagito con il movimento dell’“Open Science” che mira a rendere più trasparenti e dettagliate le pratiche di ricerca in questo campo. Inoltre, va sempre più a rafforzarsi l’importanza dei criteri quantitativi relativi alle valutazioni delle carriere dei ricercatori scientifici. Ricercatori che pubblicano di più utilizzando metodi di stampo prettamente sperimentale-quantitativo (è questo l’approccio privilegiato per l’approvazione alla pubblicazione su riviste di fascia elevata, quasi tutte in lingua inglese e di gestione anglosassone) vedono oggi molto più facilmente premiati i propri sforzi e i propri lavori. A tutto ciò si aggiunge un “percepito” dilagare dello scientismo nella cultura occidentale, e la sua forte alleanza con i paradigmi dominanti[4]. Questi elementi generano un’inevitabile pressione a certificare le proprie pratiche come fondate sull’evidenza, che necessariamente inquadrano la psicoterapia come un intervento entro cui si svolgono procedure tecniche sistematiche, operate in vista del raggiungimento di obiettivi dati.

In questo senso, l’impressione è che si avvicini sempre l’orizzonte di una generale squalifica delle pratiche psi non procedurali, non evidence-based, che si concedono il lusso di tenersi aperte rispetto ai propri scopi e che non tentano di operazionalizzare quantitativamente i propri fenomeni di indagine. Nella seconda parte del presente contributo andrò ad approfondire le caratteristiche e i motivi che ci spingono a difendere pratiche fondate su epistemologie alternative rispetto a quelle dominanti nel mondo psi.

Per il momento, gli elementi raccolti in questa riflessione evidenziano come sia pericoloso continuare a legittimarsi fondandosi sul “verdetto di Dodo”, andando a colludere con un clima che pone nell’evidenza positiva dell’efficacia l’unico criterio di legittimità del darsi di una pratica.

In un clima scientifico tutt’altro che pacificato rispetto alle scienze umane e la cura della salute mentale, va ribadita, per chi rivendica una posizione alternativa agli approcci dominanti nel campo delle discipline psicologiche, l’importanza di approfondire e prendere possesso degli impliciti che guidano le nostre azioni cliniche.

Bibliografia

Benasayag, M. (2016). Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa. Edizione Economica Feltrinelli.

Eysenck, H. J. (1952). The effects of psychotherapy: An evaluation. Journal of Consulting Psychology, 16 , 319–324.

Foucault, M. (1987). Maladie mentale et psychologie. University of California Press.

Foucault, M. (2015). La nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Edizione economica Feltrinelli.

Laska, K. M., Gurman, A. S., & Wampold, B. E. (2014). Expanding the lens of evidence-based practice in psychotherapy: A common factors perspective. Psychotherapy, 51, 467–481.

Maxwell, S. E., Lau, M. Y., & Howard, G. S. (2015). Is psychology suffering from a replication crisis? What does “failure to replicate” really mean? American Psychologist, 70(6), 487.

Stanghellini, G. (2023). Homo œconomicus: a key for understanding late modernity narcissism? Psychopathology, 56(3), 173-182.

Wampold, B. E., Mondin, G. W., Moody, M., Stich, F., Benson, K., & Ahn, H. (1997). A meta-analysis of outcome studies comparing bona fide psychotherapies: Empirically, “All must have prizes.” Psychological Bulletin, 122, 203-215.


[1] https://www.psicologiafenomenologica.it/il-familiare-il-demone-della-lentezza-e-il-demone-della-velocita/

[2] Miguel Benasayag, Oltre le passioni tristi. (2016)Edizione economica Feltrinelli, Milano, p.52.

[3] Parliamo ovviamente di una significativa tendenza del reale, non di ciò che avviene necessariamente in tutte le terapie. Per esprimerci col linguaggio dell’antropologia trasformazionale, questa tendenza è presente come segno di una certa linea epocale in ognuno di noi, e quindi in tutti i pazienti delle psicoterapie contemporanee. In ciascuno tale linea può essere dominante o meno.  

[4] Per un’analisi dettagliata rimando al lavoro di De Vincenzo, Stocco e Modugno (2023)

Luca Fusco

Luca Fusco è psicologo e psicoterapeuta a orientamento antropologico-trasformazionale. Nel 2022 ha completato il suo dottorato di ricerca in “Mind, Gender and Language” all’Università degli Studi di Napoli Federico II e nel 2023 ha completato il suo percorso di specializzazione presso la “Scuola Sperimentale per la Formazione alla Psicoterapia ed alla Ricerca nel Campo delle Scienze Umane Applicate”. Si occupa di ricerca nel settore della psicologia del ciclo di vita, in particolare relativa alle scelte di vita e allo sviluppo dell’identità personale e professionale di adolescenti e nei giovani adulti. Vive e lavora a Napoli, dove ha attualmente un assegno di ricerca con l’università degli studi di Napoli Parthenope e opera come psicoterapeuta nel suo studio privato.

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