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Concettualizzazione del disturbo paranoide di personalità secondo la terapia metacognitiva interpersonale

Articolo scritto da Virginia Valentino in collaborazione con Virginia Failoni.

Gli studi epidemiologici che abbiamo a disposizione indicano che negli ultimi trent’anni il disturbo paranoide della personalità (DPP) è presente nella popolazione generale con un tasso di prevalenza del 0,5 – 2,5 % (Torgersen et al., 2001), e di frequente è in comorbilità con dipendenza da alcol e sostanze (Morgan, & Zimmerman, 2018; Wong, 2020). In termini di ereditarietà, uno studio norvegese condotto su 1.386 gemelli (Kendler et al., 2006) ha riscontrato che il DPP è moderatamente ereditario (28%) e condivide una parte dei suoi rischi genetici con altri disturbi di personalità del cluster A (43%), ossia disturbo schizoide di personalità, disturbo paranoide di personalità e disturbo di schizotipico di personalità. Rispetto al genere, sono stati riscontrati tassi di prevalenza del DPP più elevati nei maschi rispetto alle femmine; tuttavia, questa differenza non è risultata statisticamente significativa (Singleton et al., 2000).

La qualità di vita dei pazienti con DPP è compromessa dal modo in cui il disturbo si esprime nella vita relazionale e nel funzionamento intrapsichico. Il paziente con DPP è, infatti, caratterizzato da specifiche condizioni metacognitive, è guidato da schemi interpersonali maladattivi (SIM, Dimaggio, Semerari 2003; Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019) e mette in atto una serie di strategie di coping nel tentativo di gestire la sua sofferenza psicologica. Tale sofferenza si esprime attraverso monitoraggi interpersonali, la messa in atto di comportamenti di protezione, a volte di isolamento ed evitamento esperienziale, e tempo investito nel coltivare un tipo di pensiero abbastanza specifico del disturbo: il sospetto, la paranoia. Per i pazienti con DPP è necessario controllare il modo in cui le persone con le quali entrano in relazione si relazionano con loro stessi. Questa necessità trova spiegazione nel bisogno di rassicurarsi: se gli altri sono considerati minacciosi, sleali, manipolativi, disonesti, diventa d’obbligo controllarli allo scopo di non farsi trovare impreparati, anticipare le mosse altrui, rispondere ad attacchi, critiche, derisioni, umiliazioni. L’aspettativa negativa riguardo gli altri è radicata nello SIM che guida il paziente nella sua quotidianità e nelle sue relazioni. Il paziente che giunge in terapia non sempre ne è consapevole. Spesso, a causa della fusione con i suoi pensieri e con il suo schema, non riesce a distaccarsene, non differenzia e soprattutto non riesce a decentrarsi dal proprio punto di vista secondo il quale gli altri sono pronti ad attaccarlo o deriderlo, coerentemente con il suo schema. I pazienti con DPP sono guidati da difficoltà metacognitive (Dimaggio et al., 2019) soprattutto di decentramento (sapersi mettere nei panni altrui a prescindere dalla propria prospettiva soggettiva), differenziazione (saper riconoscere come le proprie idee siano ipotesi e non descrizioni oggettive della realtà) e monitoraggio interno (saper identificare e mettere in relazione variabili cognitive ed emotive del proprio mondo interno). Essendo molto concentrati sull’esterno alla ricerca di possibili segnali di minaccia, difficilmente riescono a comprendere di soffrire di una sofferenza incarnata, legata al modo in cui percepiscono gli altri ma soprattutto sé stessi.

Tale convinzione è spiegabile attraverso lo SIM: i pazienti sono mossi da desideri e bisogni (ad esempio di inclusione nel gruppo) ma si aspettano risposte negative da parte degli altri (ad esempio di schernimento e umiliazione), che confermano il loro modo di percepirsi (ad esempio deboli e diversi, vulnerabili). In tal caso, i pazienti diventano iper prudenti, diffidenti e sospettosi, attribuiscono ad altri intenzioni malevole che non sempre corrispondo alla realtà (vedi carenze in decentramento, differenziazione e monitoraggio) ed entrano nelle relazioni, le rare volte in cui decidono di non evitarle, con convinzioni e aspettative sugli altri che oscillano tra l’attacco e la sottomissione. In ogni caso, per prepararsi a queste possibilità, i pazienti studiano gli avversari nel tentativo di comprenderne le mosse e preparare quella che per loro rappresenta una vera e propria strategia di guerra. Il tempo che i pazienti dedicano a monitorare l’altro, sospettare delle intenzioni e delle azioni, immaginare scenari futuri minacciosi è il nucleo stesso del disturbo. Ovviamente, queste strategie di coping cognitive che hanno lo scopo di anticipare eventuali attacchi o evitamenti, generano sintomi che oscillano tra la depressione legata all’isolamento sociale o alla rinuncia di una vita relazionale soddisfacente, e l’ansia legata all’attesa di eventi catastrofici.

Allo scopo di illustrare in maniera più chiara come la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) concettualizza il DPP, presentiamo il caso di Teresa, seguito da una delle due autrici di questo post. Teresa è una giovane mamma single di 37 anni, proprietaria di un negozio di articoli sportivi, ha una figlia di 5 anni ed inizia a notare come la propria tendenza all’isolamento possa impattare negativamente sulla vita relazionale della bambina. Durante la prima seduta, infatti, Teresa spiega che sta chiedendo aiuto perché si domanda spesso: “se io non riesco a creare legami con le altre mamme, mia figlia resterà da sola per sempre? Verrà presa in giro per questo? Devo assicurarmi che i suoi amichetti siano buoni con lei perché già me li immagino lì, pronti a beffeggiarla”.

Teresa ha un DPP. Nella prima fase della terapia, la raccolta di episodi narrativi ha permesso di comprendere come la paziente sia guidata dall’idea di essere deridibile e attaccabile, profondamente inadeguata al contesto, minacciata nel suo bisogno di sentirsi al sicuro e convinta che gli altri siano pronti a colpirla. Teresa si aspetta che le persone siano sempre malintenzionate e che possano attaccarla attraverso beffeggiamenti, derisioni, azioni sleali. Teresa, con aspettative del genere, non riesce a stare con gli altri, non ha persone di fiducia con cui intrattiene relazioni calde e intime, perciò si isola. Nei rari casi in cui si costringe a incontrare persone, di solito alle feste di compleanno dei compagni di asilo della figlia, si comporta in modo molto schivo, letteralmente studia gli altri con fare sospettoso, quando dialoga con loro cerca di comprenderne le intenzioni, finendo per attribuirgliene puntualmente di negative e sentendo il corpo pieno di ansia, teso, come se fosse pronto a doversi difendere. I segnali di neutralità o benevolenza non vengono notati e registrati da Teresa e, qualora fossero evidenti, non ci crede. Sospetta che gli altri siano fintamente gentili, fintamente buoni e che nascondano un attacco che attueranno al primo momento utile.

Questo SMI trova spiegazione in memorie autobiografiche in cui, da adolescente, Teresa è stata attaccata dai suoi insegnanti e dai suoi compagni di classe in pubblico, ricevendo beffeggiamenti e slealtà senza che lei riuscisse a difendersi. In queste condizioni, Teresa cresce senza sentirsi al sicuro nelle relazioni interpersonali, attribuendo agli altri intenzioni malevole, monitorando le persone intorno a lei, sospettando di tutto e isolandosi progressivamente. Inoltre, nel tempo, Teresa ha sviluppato dei sintomi ansiosi legato ad uno stato sottostante di allerta che spesso le impedisce di dormire serenamente.

Notiamo quindi come la ricostruzione di memorie autobiografiche coerenti con gli episodi narrativi abbia permesso alla terapeuta di ricostruire insieme alla paziente il suo schema patogeno, individuando strategie di coping cognitive e comportamentali che essa mette in atto, strategie che da un lato la proteggono ma dall’altro sostengono il disturbo stesso. Questo tipo di formulazione permette di evidenziare tutte le caratteristiche tipiche di un disturbo della personalità (SIM, disfunzioni metacognitive e strategie di coping disfunzionali) per come si esprimono nella paziente. Sulla base di questa concettualizzazione, il clinico insieme alla paziente possono accordarsi sul come procedere, concordando obiettivi e compiti terapeutici.

Successivamente, descriveremo una parte della terapia di Teresa, sempre nell’ottica della TMI (Dimaggio et al., 2003, 2013, 2019) e proveremo a focalizzarci anche sulla relazione terapeutica. Infatti, per i pazienti con DPP, anche l’incontro con un terapeuta è vissuto come pericoloso. A causa della patologia, i pazienti non si fidano, monitorano il clinico e diventano sospettosi perché, nonostante una parte di loro chieda e si aspetti aiuto, un’altra parte prevede un rischio. Ad esempio, con Teresa, la terapeuta si sentiva continuamente sotto esame, soprattutto nei momenti più informali della seduta, come i convenevoli iniziali e finali: sembrava di essere sotto una grande lente d’ingrandimento. Descriveremo, quindi, il contesto relazionale della terapia con Teresa e l’uso che è stato fatto delle informazioni tratte proprio da questa relazione.

Dimaggio, G., & Semerari, A. (Eds.). (2003). I disturbi di personalità: modelli e trattamento: stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali. Laterza.

Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., & Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale: dei disturbi di personalità. Cortina.

Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina, Milano.

Grant BF, Hasin DS, Stinson FS, et al: Prevalence, correlates, and disability of personality disorders in the United States: Results from the national epidemiologic survey on alcohol and related conditions. J Clin Psychiatry 65(7):948-958, 2004. doi: 10.4088/jcp.v65n0711

Kendler, K. S., Czajkowski, N., Tambs, K., & Reichborn‐Kjennerud, R. (2006). Dimensional representations of DSM‐IV Cluster A personality disorder in a population‐based sample of Norwegian twins: A multivariate study. Psychological Medicine, 36(11), 1583–1591.

Morgan TA, Zimmerman M: Epidemiology of personality disorders. In Handbook of Personality Disorders: Theory, Research, and Treatment. 2nd ed, edited by WJ Livesley, R Larstone, New York, NY: The Guilford Press, 2018, pp. 173-196.

Singleton, N., Bumpstead, R., O’Brien, M., Lee, A., & Meltzer, H. (2000). Psychiatric morbidity among adults living in private households. London: The Stationery Office.

Torgersen, S., Kringlen, E., Cramer, V. (2001). The prevalence of personality disorders in a community sample. Archives of General Psychiatry, 58 (6), p. 590–596.

Wong, K.K.-Y. (2020). Paranoid Personality Disorder. In The Wiley Encyclopedia of Personality and Individual Differences (eds B.J. Carducci, C.S. Nave, J.S. Mio and R.E. Riggio). https://doi.org/10.1002/9781118970843.ch293

Virginia Valentino

Psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Collabora col centro tmi di Roma ed è una delle fondatrici del centro tmi di Avellino. I suoi ambiti di interesse principali riguardano i disturbi della personalità, disturbi d'ansia e trauma correlati e le neuroscienze.

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