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Il corpo digitalizzato

[pubblicato su 7 del Corriere della sera del 1° maggio 2020]

Zoom, Skype, Whatsapp. Ora comunichiamo attraverso gli schermi, ma è vero dialogo?

Si danno appuntamento davanti a una chiesa all’EUR. Spazi grandi, alberi, marmo. Non potrebbero e sull’autocertificazione hanno scritto qualcosa tipo: consegna materiali di laboratorio. Si erano conosciuti un mese prima del lockdown, un congresso di biologia a Lione, lei veniva da una serie di storie infelici. Monica mi ha chiesto di prenderla in psicoterapia per venirne a capo. Si messaggiano, passano ora su Skype, forse si piacciono, mi dice. L’incontro è programmato: in una chiesa, chi verrà a controllare? Non sono gli unici ad averci pensato, la volante della polizia presidia il piazzale. Ripiegano su strade laterali. A un certo punto lei non resiste più, lo afferra, abbassa le mascherine e gli spara un bacio a stampo. Una sensazione così in video gli innamorati non la possono avere. Poi le esplode il senso di colpa.

Si danno appuntamento sulla scalinata davanti alle colonne del campidoglio di Lansing, Michigan. Indossano pantaloni mimetici, cinturoni per i proiettili, felpe Robe di Kappa, filtri protettivi 3M 2097 fucsia che pendono al petto, inutilizzati come le cuffie di un vecchio walkman. Impugnano mitra, fucili automatici, sventolano bandiere confederate: è questa l’America oggi? Hanno corpi massicci, le gambe larghe piantate al suolo, ostacolano gli ingressi all’ospedale mentre le loro donne reclamano il diritto di andare dal parrucchiere. Quelle pance maschili esibite con fierezza me le ha evocate un’altra paziente, parlava della tensione domestica con il marito violento. Lei non è alleata dell’aggressore, al contrario di come vogliono apparire le mogli di Lansing.

Due manifestazioni opposte tra loro, legate da un elemento: il corpo che impone la propria presenza. Appassionata e romantica, arrogante e ostruttiva. Due forme, inconciliabili tra loro, di ribellione al lockdown. Il sospiro amoroso e l’urlo di guerra, entrambe manifestazioni del corpo fisico che reclama il contatto con altri corpi. Possiamo sopire l’istinto alla carnalità, imbrigliarlo, ma non smetterà di farsi sentire. Possiamo scambiarci file su Spotify, sì. Ma ricordi novembre scorso? Sei lì, nel parterre di un concerto rock, la chitarra ha suonato accordi puliti e ora entra il distorsore e dalle corde esce vrooooom, una rete di elettricità eccitata ti rende parte di un organismo che salta. Vuoi quella sensazione indietro. Oggi non puoi, ed è giusto così.

Anche noi psicoterapeuti soffriamo della privazione dell’intercorporeità. Lo scambio comunicativo non è fatto solo di parole. È rito, posture, prosodia, il terapeuta si protende quando condivide l’emozione, indietreggia e intreccia le dita sulla nuca quando è perplesso.  I pazienti leggono il modo in cui ci sediamo, io molto scomposto devo ammettere, come ci vestiamo e lo stesso facciamo noi. L’ingresso nella stanza fisica del terapeuta è il segnale dell’inizio del gioco, l’ingresso in quella dimensione, nella terra parallela, il regno del ‘come se’, dove tutto ciò che accade diventa simbolo, rimanda ad altro. Quella donna che ci racconta di avere provato a non telefonare all’amato che tante volte l’ha trattata con disprezzo e mentre lo racconta si rannicchia su sé stessa, si tormenta la borsetta. Che succede? Si sta vergognando ai nostri occhi: sono una paziente incapace. E il nostro intervento, in quella terra parallela suona così: è come se io la stessi guardano con disprezzo. Per lei era vero, ma noi siamo autorizzati dal rito che l’ora di psicoterapia ad anticipare il prefisso: come se. Significa: “La svalutazione è nella sua mente, se lei osserva chi siamo davvero l’uno per l’altro adesso, scoprirà qualcosa di diverso. Osservi il mio sguardo, la mia postura, ascolti il tono della mia voce: la sto davvero criticando?”. Lì è il momento della sorpresa, l’apertura del cambiamento.

Molti psicoterapeuti sono come i due giovani amanti, oppure – senza mitra per carità – come militanti in forze reazionarie che reclamano l’unicità dello scambio in presenza fisica. Vorrebbero sentire il suono dei violini dal vivo, l’incisione digitale nulla è per le loro orecchie. Ma la realtà è questa, ora dobbiamo comunicare attraverso il video. Tanti colleghi hanno ceduto, preda di incapacità ad adeguarsi alla necessità, governate dall’idea che quel rito curativo solo possa officiarsi nello spazio consacrato. Di fatto hanno lasciato i loro pazienti soli.

In maggioranza ci siamo spostati sulle piattaforme digitali. Zoom, Skype, video WhatsApp quando il paziente è costretto a scendere in macchina per avere privacy. All’inizio di marzo lo facciamo con inquietudine e insicurezza: sto offrendo qualcosa di utile, benefico, sensato?

Siamo in grado di aprire la porta della terra parallela, il regno del come se, da casa a casa, senza che i nostri corpi abitino lo stesso ambiente per il tempo dovuto? Che la teleterapia (si chiama così) serva è già provato, se lo sia quanto quella dal vivo è da vedere, ma voglio dire, se siete un chirurgo e operate sul campo di battaglia, vi rifiutate di chiudere una ferita perché non ci sono condizioni sterili da protocollo, o disinfettate con quello che avete? La risposta è pura ragion pratica.

E si apre il problema del come, almeno per noi psicoterapeuti che ci interessiamo a un lavoro scientifico, empiricamente fondato. Cosa può rendere lo scambio comunicativo efficace in video? Eravamo davvero preparati all’uso massiccio del video? La risposta vera è: no. Neanche chi già lo usava, in condizioni di necessità. Siamo stati costretti a ragionarci su nell’arco di giorni, sotto la pressione dei bollettini della Protezione Civile e mentre imparavamo a sopportare la clausura.

La risposta è sempre lì: la presenza del corpo. La psicoterapia non è scambio di parola, è comunicazione tra corpi. Il modo con cui diamo significato agli eventi non nasce dal ragionamento, si origina dal basso, dalle sensazioni viscerali, dalla postura, dal livello di veglia e di attività, dal tono muscolare e dalla preparazione al movimento. Se ragionate a capo chino penserete pensieri di sconfitta. Una corrente di pensiero che unisce Merleau-Ponty a quella che ora si chiama cognizione incorporata.

Come tradurre questo concetto in un dialogo video che sia vivo, efficace e, in qualche modo, incarnato. Come rendere tridimensionale il corpo digitale? Lo sanno i registi, lo capisco guardando Alessandro Cattelan. La prima puntata di EPCC. Lui è inquadrato a figura intera in una stanza vuota, davanti alla finestra, guarda fuori. Ascolta il silenzio. La battuta, folgorante: “Il silenzio dei no-vax”. Quelle parole colpiscono perché le ha pronunciate un uomo isolato nel suo ambiente. Ecco, capisco, dobbiamo mostrare il corpo nell’ambiente. Ne parlo coi colleghi. Aumentate la distanza dallo schermo, in video si deve vedere più della vostra faccia – un regista sano di mente non vi inquadrerebbe per un’ora con un primo piano stretto – mostratevi in un luogo che porti segni di chi siete come individui. E chiedete ai pazienti di utilizzare il corpo in sincronia con voi. Si apre un universo.

Il senso di colpa di Monica, la ragazza del bacio rubato, aveva radici lontane. Ricorda che il diritto di giocare non le era concesso. Era nella stanza dei genitori, aveva 10 anni, rifaceva il letto per guadagnarsi un briciolo di approvazione. Le chiedo di rivivere quella memoria inun gioco di ruolo, eredità di Jakob Levi-Moreno. Concordiamo il copione, lei rifà il letto, io divento la madre severa. Anche io mi son fatto due metri indietro, così di apparire nello schermo in piena altezza. Le rivolgo frasi sferzanti, le suonano vere, si fa piccola nel mio video, è diventata una bambina indegna. Iniziamo la riscrittura, prima di continuare a incarnare la madre, le chiedo di ignorarmi, di tornare a giocare. Poi ritorno a offenderla. All’inizio si sente uno schifo. Le chiedo di visualizzare la stanza dei giochi, di gustarsela. “Come si sente?”. “Più libera, come se si allargasse il petto, se ne andasse l’oppressione”. La rimprovero ancora, durissimo, ma frase dopo frase la sua reazione cambia. Protesta, si arrabbia e poi si sente libera e lascia il letto sfatto.

Il sapore del bacio rubato non lo possiamo sentire, la vibrazione della chitarra elettrica live neanche, e ci mancano. Ma, anche se filtrato in digitale da uno schermo da 17 pollici, il flusso della comunicazione tra due corpi pulsanti riusciamo a ricrearlo ed è ancora integro.

 

Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e psicoterapeuta, socio fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). Ha più di 200 pubblicazioni scientifiche in inglese e ha pubblicato numerosi libri scientifici in Inglese, Italiano, Spagnolo e Portoghese. Il più recente è Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia Metacognitiva Interpersonale. Cortina: Milano. E’ senior associate editor del Journal of Psychotherapy Integration, associate editor di Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice e prossimo editor in chief del Journal of Clinical Psychology: In-Session. Tiene corsi sul suo approccio, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), e supervisiona équipe, in Italia, Norvegia, Spagna, Portogallo e Australia.

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