Prologo
Pensare ad uno spazio in cui raccontare certe tipologie di sofferenze che, per senso comune, si chiamano anoressiche, richiede accurate riflessioni preliminari. Ineludibili per potersi avvicinare a comprendere stati e condizioni umane che non contemplano l’indifferenza, per la loro tragicità.
Anche se indifferenza pretendono.
In primo luogo questo spazio vuol essere racconto di incontri. Infatti, anche all’interno di una stanza di psicoterapia, e indipendentemente dai modelli di ognuno, solo l’incontro stesso diventa viatico di trasformazione e di cambiamento. Quindi è esso stesso cura. Solo nell’incontro e “tra” identità può esistere quel vero, che rimanda consistenza e senso al Sé così profondamente e disperatamente vuoto della persona anoressica.
Ma cosa si intende per incontro vero? Come possiamo tradurlo in parole che aiutano?
Si potrebbe attingere, a questo punto, da un elenco infinito di grandi e di dotti che si sono espressi in modo sublime su questi temi. Ma, meglio ribadirlo, questo spazio non vuole essere questo, ma uno spazio in cui si raccontano storie per approfondire comprensioni e per condividerle. Allora in quali termini possiamo tradurre cosa si intende per incontro vero?
Per chiudere in fretta la kermesse della scelta infinita quanto impossibile, andiamo a rifugiarci in alto. Tanto in alto che più non si può, ricorrendo a chi, sommo poeta non a caso, ha racchiuso tutto nelle poche parole con cui chiude la sua opera: …amor che move il sol e le altre stelle. Sottolineandone parola per parola. Qui è racchiuso tutto ciò che non è racchiudibile, come energia che ci spinge verso l’ulteriore, trasformando l’impossibile. Amor..che move..
Eppure, a parlare di amore e di anoressia ci si sente un po’ come quando si affronta un ossimoro. Gli occhi sembrano girare nelle orbite ognuno per proprio conto senza trovare un punto di incontro. Ti senti dilaniato da sentimenti forti e fortemente in contrasto tra loro. Così alla fine rischi l’immobilità per impotenza. Proprio quello che succede alle anoressiche e nei disturbi alimentari in genere.
Nel corso di tanti anni di lavoro, gli incontri con l’alterità anoressica sono sempre stati incontri stra-ordinari. Esperienze di Io-Tu vissute all’interno dello spazio della terapia, quanto mai delicate, proprio negli scontri più violenti per rompere rigide ed ossute convinzioni, per entrare nella possibilità di un dialogo. Esperienze oltretutto estremamente pericolose, a sfidare ogni limite imposto dalla vita.
Come si può quindi parlare d’amore quando, come nelle anoressiche, i pensieri sono solo meccanici e privi di pathos, quando si combatte a denti stretti contro ogni cambiamento, per voler riuscire nell’impresa più pazza e più impossibile di tutte: dominare il fluire, che con i suoi “se” e “forse” impedisce ogni certezza.
Questo tentativo strenuo quanto disperato viene da lontano, da molto lontano, Anzi dal più profondo. Dal cercare di tenere a bada e spingere negli abissi della coscienza la terribile sofferenza di accettare la vita come caos e disordine, come imperfezione e cavalcarne l’onda della intrinseca sofferenza. Un po’ come pretendere con le dighe più massicce e resistenti di bloccare e fermare lo scioglimento dei ghiacciai. Magari ce la potessimo cavare così.
La loro, diventa una sfida contro il mostro “bios”, la vita, di cui non accettano di essere solo fruitori e non dominatori. E che, quando vuole, riesce a diventare più terribile del più incazzato Zeus dell’Olimpo! Proprio come succede con alcune anoressiche. Direbbe chi ne ha fatto esperienza.
Questo in breve sintetizza un po’ il retroscena generale di ogni fenomenica anoressica, in cui poi ciascuna singolarità costruisce storie diverse.
Come mai quest’idea di dare luce a storie d’amore anoressico. Quale esigenza o bisogno?
Tante storie sono state raccontate dal lato di chi ha sofferto e in qualche modo è riuscita a risalire chilometri e chilometri di vuoto di esistenza. Eh sì. Espressione più onesta, rispetto al parlare di “aver superato il problema”. A meno che per problema non si intendano la bilancia e/o il vomito.
Di fondamentale importanza risulta comprendere e condividere l’orizzonte all’interno del quale leggere i fenomeni descritti ed intendere la cura di una sofferenza che non può limitarsi al trattamento dei sintomi, spesso necessari e in alcuni casi addirittura auspicabili, perché possa prodursi vero cambiamento.
Sono tanti i racconti catartici che hanno aiutato a diffondere ai più il vissuto di una sofferenza straziante. Come sono innumerevoli le divulgazioni scientifiche sull’argomento, degne di ogni interesse. Ma si tratta sempre di storie e vissuti descritti in prima persona o in terza.
Le storie d’amore sono invece cosa diversa. E’ co-involgerci in un’esperienza che ci trasforma, perché trasforma ogni elemento in gioco. Esperienza che è essa stessa cura, come ri-nascita che riempie il vuoto e costruisce senso e che riguarda non solo chi come noi terapeuti si ritrova sul bordo dell’abisso con le corde in mano per salvarle, ma per chiunque, parenti amici o conoscenti, si percepiscano con loro sul bordo di quell’abisso. Con la terra che sdrucciola sotto i piedi.
Incontri veri sono sempre storie d’amore. E una storia d’amore è sempre una storia a quattro mani, la cui essenza non è l’Io e non è il Tu ma il loro vivo intersecarsi, che costruisce significati, rimanda spessore e consistenza e ricostituisce confini e limiti. Anche quando spesso, specie all’inizio, si tratta più di scontri di visioni diverse in gioco, inevitabili nella stanza di psicoterapia in questi casi. Qui, infatti, per costruire insieme bisogna prima rompere rigide e ossute convinzioni, accettando che allo stesso tempo per costruire un incontro pieno di senso bisogna essere disposti a dare inizio alle danze del mettersi in gioco, facendo da apristrada a chi questo modello dialogico non lo conosce, trincerata nella fortezza del vuoto e nell’illusione della perfezione, fino alla morte. E non è per niente facile spogliarsi di ogni certezza per cercare insieme e daccapo. Solo questa condizione di epoché permette di lasciarsi ascoltare, sentire ed esserci per diventare viatico di trasformazione. Per questo la fenomenologia è propedeutica ad ogni psicoterapia, come diceva Callieri, indipendentemente dai metodi o dalle tecniche utilizzate. E in questa ottica ogni trasformazione è sempre biunivoca, a doppia direzione e riguarda entrambe le soggettività in gioco.
Da tutto questo ed altro ancora nasce Disvelamenti – Rubrica sul mondo dell’anoressia, come tributo heideggeriano di partenza, ma specifico nel sottolineare un orizzonte di cura che è allo stesso tempo premessa e scopo nel trattamento di disturbi gravi in cui l’impotenza la fa da regina e diventa troppo spesso una trappola mortale.
Dalle picconate dei loro rifiuti e dei mutismi svalorizzanti, al bisturi delicato ma fermo del nostro presentificarci, quali esistenti che non fuggono la propria fragilità sotterrandola ma la rendono motore sempre vitale di crescita. Attenti ad evitare trappole di potere e di controllo, apriamo così in loro la possibilità di un esistere diverso, che non hanno vissuto prima. E quindi poi di poterlo scegliere.
Cambiare i connotati dall’esistere come un oggetto, sempre perfetto, che non conosce errori o cambi di marcia, all’esistenza in quanto umana fragilità e caducità intrinseca a partire da cui diventare soggetti portatori di senso, liberi, responsabili e capaci di costruire mondi intersoggettivi. Offriamo così loro la possibilità di un disvelamento nel dialogo, attraverso il nostro disvelarci e aprendo un cambio di giudizio sulla fragilità umana.
Mia madre non mi ha mai spazzolato i capelli
Come è triste essere vuoti dentro. Fuori c’è tanta musica tanta aria da respirare
e l’immobilità del cuore è la cosa più arida e inumana che esiste.
“Stai un po con gli occhi chiusi e concentrati sul tuo respiro. Vedi cosa succede”.
Oggi è un dolce e affettuoso ricordo della mia terapia. Ma allora il solo chiudere gli occhi e pensare al mio respiro era peggio del più atroce tormento infernale. Come tutto il resto.
La prima cosa che mi angosciava a letto appena sveglia era l’odioso rumore del frigo che si apriva di continuo. Insopportabile. Quel frigo come la giornata che iniziava e tutto il tormento che mi aspettava. Un macigno da trascinare senza dove.
Quale forza sovrumana per mettere i piedi a terra e varcare la soglia della cucina. Ma come potevo cavarmela? Non avevo scampo. Ero braccata, marcata strettissimo.
Una volta ho letto di animali che quando avvertono che stanno per essere preda del più forte, come ultimo meccanismo per sopravvivere, si fingono già morti paralizzando ogni propria funzione vitale. Mi pare lo chiamino freezing; ecco penso che più o meno fosse questo che mi succedeva. Non mi usciva voce già da un po’ credo. Ho passato diversi mesi, compresi i primi tempi della terapia, senza voce, nel senso che non proferivo verbo. Anche a scuola si accontentavano di qualcosa di scritto.
Ogni mattina c’era la grande attesa del mio ingresso in cucina. Il rito dei falsi sorrisi e di qualunque altra cosa, purchè io aprissi la bocca per ingoiare. Quel dannato frigo era frenetico. Le cose più disparate, di tutto e di più. Ma, evidentemente, come si era bloccata la voce così non riusciva ad andar giù praticamente nulla. Solo a pensare a cosa mia madre era capace di preparare ogni mattina e con quale energia, verrebbe il vomito anche ai più affamati. Ma io non vomitavo. Non ci sono mai riuscita. Ci ho provato giusto un po’ all’inizio ma era un supplizio, quello del vomito, che non riuscivo proprio a reggere. Preferivo spegnere tutto. E basta.
Avrei capito, molto dopo, che certi comportamenti e certe modalità avevano tutte un significato. E questo non contemplare il vomito era il mio modo rigido di non accettare compromessi con me stessa, attraverso raggiri poco onesti. Quello che volevo dire stando male in quel modo io allora proprio non lo sapevo. Ma non riuscivo ad essere falsa, anche nella disperazione del mutismo e del digiuno. Non volevo averla vinta facile ma combattere ad armi pari. E da quando sono riuscita a dirlo, l’aggettivo che più definisce la mia controparte in battaglia è proprio FERREO. Quindi, armi pari, appunto. D’altra parte solo aria di guerra ho respirato a casa mia.
E soldatino di ferro sono diventata.
Lei, mia madre, attiva senza sosta, a prendere, a preparare. Forse meglio questo, forse quello. Nell’attesa del mio ingresso in cucina per controllare quante volte ingoiavo. Quindi urla e pianti. Suoi.
Io restavo sempre uguale, di marmo.
Quanti anni avevo? Mah, forse 16 o 17, ma non saprei dire da quando tutto ha avuto inizio. Non credo che ci sia stato un inizio o un particolare motivo. Deve trattarsi però di qualcosa che di me è sempre esistito. Mi hanno raccontato che ho avuto un’ansia terribile di mettere subito i piedi a terra e di camminare, anzi di correre. Erano tutti sorpresi di tanta precocità. Ma allo stesso tempo non sopportavo di andare in braccio, specie a mia madre, ma un po’ anche in generale. Ero tutto un minuscolo divincolarmi fino a che non mi mettevano giù, anche se neanche sapevo dare bene i passi. Non solo ma, cosa che chiaramente venne fuori nei primi colloqui causati dal mio problema anoressico, venni a sapere che proprio non volevo saperne di mangiare da piccolissima. Serravo la bocca e non c’erano versi. Salvo poi se non interveniva mio nonno, che era l’unico che mi sapeva prendere con i suoi modi. Nessuno si spiegava tali misteri, rimasti tali anche dopo varie visite e controlli in giro dai pediatri vari.
Da quando però io ricordo, verso i 4 – 5 anni, non c’era più traccia di quei comportamenti. Anzi, mai uno screzio o un disappunto. Mai un rifiuto. A casa come a scuola.
Poi mi sono ritrovata piano piano a percepire come una frattura inesorabile. Non riuscivo ad obbedire più. Ma solo a tavola. Per tutto il resto mi trascinavo, burattino senza comandi. Piano piano come una macchia d’olio che si allarga cominciavo a percepire tutto in modo diverso. Rifiutarmi ostinatamente di mangiare mi faceva sentire più forte. Così chiusi anche totalmente con ogni comunicazione verbale. E con tutti. Come una sorta di muro sempre più alto. Tutto quello che succedeva fuori diventava cemento per fortificare quel muro di rabbia.
Quanto ero inadeguata! Ben prima di tutto questo. La mia vita con mia madre e mia sorella. I loro discorsi, il loro modo di guardare ogni cosa. Sempre in giro per comprare. E prima e dopo a parlare del prossimo acquisto, del prossimo sogno da realizzare, bleffando alleate sui costi, per tenere tranquillo mio padre, preoccupato di non arrivare a fine mese. Poi c’ero io e poi il cane. Ah no, che stupida. Poi c’era il cane, affettuosa consolazione di mio padre. E poi c’ero io, che da sempre dovevo adeguarmi ai loro copioni. Nonostante mi sforzassi tanto di compiacerle, non ricordo mai una parola di sostegno o di incoraggiamento. Dai voti a scuola all’abbigliamento. Dal chi frequentare al come farlo. Non andava mai bene nulla. Nulla che mi riguardasse. La sensazione base che mi accompagnava da sempre era un “come se non ci fossi”. Spesso da piccola mi ritrovavo a farmi strane domande. Sempre più assorta nelle mie storie fantastiche che mi sembravano così vere, a volte cercavo uno specchio per convincermi che ero lì, in quello spazio e non altrove. Ma facevo fatica, se cercavo di rendermi presente non era mai una bella esperienza per me. Sembrava che ogni cosa che venisse da me fosse qualcosa di inaccettabile che disturbava e su cui ci si concentrava per puntare il dito.
Viene proprio facile, così, preferire la ricerca della propria invisibilità.
Pur mantenendo apparenti buone relazioni con l’esterno, ancora mi fa male rivedermi in quella solitudine profonda in cui mi trovavo, con un mondo interiore abitato da angosce così tenacemente inesprimibili. Cercavo disperatamente e invano di evaporare. Non riuscirci era come avere un mostro alle calcagna che sta sempre per afferrarti, che ti aspetta al varco, ineluttabile. Non andavo bene. Mai. Senza scampo.
Sensazioni di paura insostenibile. Avrei preso qualunque via di fuga. Invece allo stesso tempo restavo ferma, immobile. Sempre uguale, sempre brava, sempre a posto. Non avrei mai potuto mettere parole a quello che mi succedeva. Non esisteva spazio né tempo per me. Parlarne avrebbe significato dare problemi e riceverne ansie e senso di colpa. Come potevo interrompere i miei che litigavano continuamente rendendo l’atmosfera più tagliente di una lama, o mia madre sempre indaffarata che al massimo mi dedicava un “allora hai saputo i voti? sempre ottimo, vero? Ti raccomando” e poi ci metteva l “atomica”: “mica qualcuno ha avuto di più?”. Sisi. Nono. Mi affrettavo per prevenire oscuramenti. D’altronde come avrei potuto interrompere loro o chiunque altro? L’unica cosa che potevo dar loro era la mia angoscia.
Dopo diversi anni e tanta tormentata crescita oggi mi guardo con occhi ben diversi. Guardo i miei piccoli piedi, sempre un po’ incerti, che allora cercavano invano terra ferma sull’orlo del vuoto di me stessa. E mi fa quasi tenerezza quello scricchiolo insignificante che aveva ben imparato a non respirare e non infastidire.
Intanto il malessere cresceva, anche di notte.
Spesso mi faceva sobbalzare nel sonno la sensazione improvvisa che provavo di cadere nel vuoto. Più che un sogno di immagini era un vivere la sensazione corporea di quando scendiamo le scale sicuri dell’appoggio sul gradino successivo e invece… non c’è e… ci inabissiamo nel vuoto. Chiaramente senza riuscire neanche ad urlare o a chiamare qualcuno in aiuto. Terrificante da morire.
Imparavo velocemente ad affinare e organizzare sempre meglio i modi della mia invisibilità. Fino ad arrivare quasi alla mia stessa fine.
Ero sempre “sbagliata”. Ogni cosa che mi riguardava, fosse una risposta o un gesto, era sempre sbagliata. E per quanto ce la mettessi tutta, nulla andava bene. Ad un certo punto il disagio cominciò a focalizzarsi sulle mie forme, sformate dalla crescita. Come il resto forse anche questo ha avuto inizio dall’esterno che cambiava e si trasformava. Sentivo mia sorella, le sue amiche e poi anche le mie, interessarsi di cose nuove e per me estranee. Ascoltavo assorta discorsi sui ragazzi, su certi avvicinamenti, sul ciclo, sempre dalla mia finestra-bunker che mi proteggeva dalla vista altrui. Ricordo bene una delle innumerevoli volte in cui mi ritrovavo negli spogliatoi di vari negozi, a dover provare roba addosso, sotto le solite continue insistenze. Tragedia. Quegli sguardi sui rotolini odiosi. Piano piano mi convinsi che io ero quei rotolini. E mi guardavo con quegli occhi sulle mie imperfezioni, che sembravano peggiorare di giorno in giorno.
Mi ritrovai presto ossessionata e convinta degli sguardi di disprezzo di tutti su di me, anzi su tutto quello che si vedeva di me. Già da un po’ di tempo mi disturbava l’atteggiamento di mia madre che entrava e usciva dal bagno, noncurante della mia presenza. Faceva lo stesso con mia sorella? Può darsi ma io non credo. O forse a mia sorella non provocava disagio. Senza neanche il tempo di rendermene conto il mio rifugio-bunker si trasformò nel peggiore inferno.
Di fronte all’oceano di paura e di rabbia che mi inghiottiva da tempo e che mi aveva portato al mutismo più estremo e radicale, fortificavo la mia zattera coi no più totali ed assoluti. Era l’unica possibilità di salvezza. Il rifiuto totale del cibo fino all’inanizione.
Nella mia caverna intravedevo solo la piccola fiamma del camino di miei nonni. Per tanto tempo mi bastava chiudere gli occhi, quando ci riuscivo, e pensare a loro, ai miei nonni. Vedo sempre la stessa immagine. Quella del cerchietto di luce in fondo al tunnel lungo e buio, che ti apre il respiro e ti ridà le forze perdute. Con loro mi sentivo in pace. Da loro non avevo mai freddo. Con il loro sorriso quieto e lo sguardo che mi abbracciava forte. Proprio strano. Come può uno sguardo abbracciare forte? Eppure, lì non avevo bisogno di niente altro. E con loro parlavo e ascoltavo le loro storie.
Ma, come sempre, era una guerra. Al solito. Anche andare da loro. Erano i genitori di mio padre. Che grande problema!
Adesso capisco bene quanti e quali vantaggi avevo acquisito con l’anoressia. Da quando ero “malata” riuscivo a poter andare dai miei nonni, nell’ottica dell’obiettivo cibo, chiaramente. Era l’unica arma che potevo impugnare. E chiaramente me ne guardavo bene dal mangiare, anche dai nonni. Anche se lì non si facevano guerre. Sarebbe stato come arrendersi e gettare le armi. In quel disperato silenzio, quel rifiuto era l’unica arma che avevo. Per non morire, paradossalmente.
Nel tempo e con la terapia, infatti, mi sono resa conto che ogni volta che volevo “esistere”, pensare ed agire a modo mio, era come entrare nel campo di battaglia in cui venivo continuamente screditata. Dovevo prepararmi scudo e armi, per attacco e difesa. Fin da piccola non ci riuscivo. Non so se non ne avessi la forza o da qualche parte non accettavo questo guerreggiare continuo. Non lo so. Forse entrambe le cose. Mi sentivo totalmente impotente e spesso mi ritrovavo a piangere senza capirne il motivo.
Da piccola mi domandavo spesso come mai mia sorella fosse diversa. Continue discussioni, questioni infinite su ogni cosa, una guerriglia in cui sembravano star bene entrambe. Intanto mia sorella ai miei occhi andava avanti senza farsi condizionare più di tanto. Viveva le sue esuberanze adolescenziali con la testa diritta e con quella che allora io consideravo la sua forza, il suo ribellarsi. Solo più tardi avrei capito che non aveva nessuna testa. Intanto però se la combatteva. Io, invece, più respiravo quella tensione e quel vivere continuamente nel litigio e più mi spegnevo. Testa bassa e spalle curve, sui libri. Ogni tentativo mio di reagire si trasformava in pianto. E così non riuscivo a dire mai nulla di quello che avrei voluto. In questo modo aggiungevo solo punti alla rabbia verso di me e al senso di impotenza. Quello di potermi anche minimamente esprimere e darmi uno spazio era un compito troppo difficile. Ingoiavo e buttavo giù ogni cosa, triturando per bene ogni germoglio di me.
In questo modo, e non lo sapevo, rendevo impossibile ogni incontro con chiunque, perché in mia assenza non poteva esistere né relazione né dialogo. Cresceva solo la confusione e un senso di incomprensione, insieme alla mancanza di ogni contatto.
Ero tanto arrabbiata con me che non ero capace di rispondere a tono, di dire quello che avrei voluto, di essere come mia sorella. Di non avere coraggio e non sapere perché.
Paura. Anzi, terrore. Devo ringraziare il mio corpo, che è stato più forte di me, andando alla grande guerra contro il cibo- mondo- madre. Senza che io potessi fermarlo, dopo aver polverizzato e reso impossibile, ogni tentativo di gesto o parola, di reazione. Tra la paralisi e l’incapacità.
Chiaramente anche oltre la porta di casa ogni chiamata all’esistenza era un angoscioso tuffo al cuore, un boato con rossore e imbarazzo tanto carichi di vergogna che imparai ben presto ad organizzare bene la mia invisibilità.
Ma più triste ancora di questo è il rivedere la solitudine più profonda in cui mi trovavo, il mio mondo interiore, per lo più abitato da tormenti di ogni tipo in quel periodo, così tenacemente inesprimibile e tanto serratamente non condivisibile, che davvero mi terrorizza il solo ricordo. Contattarmi era un inferno che mi aspettava al varco, ineluttabile. Logico quindi scappare. Evitarmi.
Ma purtroppo le chiamate all’esistenza erano infinite e le angosce estenuanti : notti ad occhi aperti prima di interrogazioni e compiti. Ricordo ancora le mie analisi lucide durante le notti insonni. Cercavo risposte che non potevo avere allora. Capivo che non erano uguali per me compiti o prestazioni. Matematica, latino o storia non mi provocavano quell’agitazione e quella paura, al contrario delle prove di italiano e di tutte quelle prestazioni in cui entrava in gioco in mio “introspettivo”, la mia presenza, la mia opinione personale, il mio punto di vista, il mio pensiero. Eppure l’insegnante era la stessa.
Ho sentito dire che scrivere è l’espressione più alta dell’animo umano. Ora lo riconosco e me ne rendo conto. E capisco anche il terrore che avevo allora di scrivere. Espressione all’ennesima potenza del terrore di vivere e mettere dei punti sul proprio esistere. Scrivere di Sé poi… è sempre contattare un pezzo di sé. Ed essere disposti a cambiarlo.
Chiarito allora perché a metter mano sul foglio mi ritorna su un bel po’ della vecchia angoscia scolastica. Interrogazioni, compiti in classe. In effetti amavo scrivere ma il terrore mi assaliva al solo pensiero che qualcuno potesse leggere! Per questo i temi di italiano in classe erano un vero incubo. Non riuscivo a capire allora perché proprio quel dannato compito di italiano fosse il mio terrore. Al contrario degli altri, che lo preferivano in quanto non richiedeva di prepararsi e di studiare. Quel foglio bianco era peggio di un lancio nel vuoto! E tutto quello che scrivevo mi sembrava sempre così misero, addirittura ridicolo. L’unico modo per ammansire l’ansia era quello di trovare pensieri e formule rassicuranti, prese da ogni parte, che mi garantivano anonimato e quindi sicurezza. Rileggere dopo aver consegnato era una vera tortura. Che avevo presto imparato ad evitare. Come le foto. Non ne parliamo neanche.
Potevo solo riempire il foglio bianco ma non scrivere davvero. Per scrivere veramente bisogna esserci e potersi contattare. Per scrivere ci vuole in primo luogo il coraggio di mantenere un proprio punto. E quello non era uno scrivere ma un “fare bene il compito”. Questa la mia grande confusione: pensare che vivere significasse questo. Essere all’altezza significasse questo: essere all’altezza del compito che mi veniva dall’esterno, in cui non era prevista alcuna scelta e non era ammesso alcun rifiuto.
Tutto un fare per placare l’implacabile. Come mettere un tappo all’oceano.
Iniziare un percorso di psicoterapia? Neanche sapevo cosa fosse e al solito mi ci ritrovai, trascinata, come un soldatino ubbidiente ma che si rifiutava di parlare e di mangiare. Inutile credo aggiungere da chi.
In effetti le devo tutto. Tutto il bene e tutto il male.
Ogni cosa, anche quello che sono oggi.
Mentre mi racconto e mi rivedo, mi riempio di lacrime e di sorrisi e mi immagino chi sorride con me, in questo momento per quello che semplicemente sono, dico e scrivo.
Sento il mio respiro che mi fa compagnia e mi riscalda, mentre scorre la mia esistenza, anche su questo pezzo di carta. Questo mentre mi riempie la vita. E’ la grande bellezza di questo momento, di questo ora, che si espande avanti e indietro, senza quel sempre mai pago di sé, sempre in corsa per un sempre meglio, che è stata la tortura più terribile. Chi vive la sofferenza di questa tortura come può amare la vita in cui non sono ammesse certezze se non quella della morte. E chi soffre di questi modi malati di intendere la vita, infatti, non ha nessuna paura della morte. Come si può aver paura di perdere qualcosa che non si ama, da cui si è sempre fuggiti come da una odiosa forza dominatrice, che ci fa sentire sempre e solo perdenti.
I primi tempi la terapia era solo un altro duro boccone da ingoiare, anch’esso controvoglia. Accettai solo alla condizione di andarci da sola, senza loro. E già mal sopportavo la presenza di mio padre che mi accompagnava e che rappresentava per me tutto quello da cui mi sentivo invasa e che allo stesso tempo rifiutavo. Cioè tutto, senza alcuna distinzione. Forse anche per questo mi guardavo bene dal parlare e nei primi mesi i lunghi silenzi erano interrotti da rari monosillabi. Ricordo molto bene lo sguardo particolare della dottoressa quando estrassi dalla borsa un libro, anzi un librone, per lei, che rimase colpita e folgorata dal titolo: Mia madre non mi ha mai spazzolato i capelli di Marilyn French. E le aprii la prima pagina: Parte prima – I bambini a dura prova. Lo avevo visto per caso e di sfuggita in una libreria ma quel titolo continuava ad accompagnarmi in testa, come qualcosa che mi apparteneva così tanto che feci i salti mortali per tornare a prenderlo. E darlo a lei, dopo già diverse sedute mute. Erano le mie prime parole, prese in prestito, come al solito. L’unico modo di cominciare a stare in quell’incontro. Il mio primo vero incontro. Lei mi guardò a lungo negli occhi e forse fu la prima volta in vita mia che riuscii a non abbassarli. Tutto sempre senza una parola. Quel nostro sguardo resta per me l’esperienza più bella che io ricordi di quel periodo.
A proposito di quel titolo, avrei dopo avuto chiaro che puntare il dito e focalizzarsi alla ricerca di un aguzzino (la madre, il mondo, gli altri..) era stato un modello di funzionamento che avevo appreso da casa. Ma è vero anche che probabilmente è una comune reazione istintiva, utilizzata per lenire il dolore e per proteggersi. Guardare i propri limiti è cosa difficile per tutti.
Ma diventa impossibile quando cresci nella convinzione che i limiti sono peggio della peste, che bisogna fuggirne via in tutti i modi. E che, se proprio non ce la fai ad eliminarli tutti e subito, almeno che non si vedano!!
In questo modo, invece, si ottiene proprio il contrario. Crescono sempre più gli aguzzini più crudeli che sono quelli interiori, che si innerboriscono e si alimentano delle battaglie e del sangue. Piano piano ho spostato l’attenzione dai carcerieri, o presunti tali, alle mie catene, che sono state il vero problema da affrontare, per allentarle punto per punto. Così piano piano dal mio respiro cominciava ad uscire un flebile suono. La mia voce. Le mie parole.
Quello che, sorridendoci su, abbiamo chiamato “il mio primo vagito” fu una sera, dopo la seduta. Era già passato qualche mese ma io restavo di pietra. Solo qualche monosillabo, anche dopo il libro. C’era sempre mio padre fuori e questo mi infastidiva non poco, anche se mi rendevo conto che era impossibile che potesse ascoltare. Ma mi sentito invasa lo stesso, al solo pensiero che avrebbe riferito ogni cosa, senza chiaramente neanche pensare di chiedermelo prima. Avevo appreso da lui a fare il soldatino ubbidiente. Ma quello che non mi è mai piaciuto era il suo modo di prendersi le sue cose e i suoi spazi di nascosto, negando spudoratamente evidenze inopinabili.
Cominciavo a rendermi conto che su quella poltrona le cose della vita, della mia vita, si trasformavano non poco e le iniziavo a vedere in un modo nuovo, senza quel duro muro di rabbia e di rifiuto. Nonostante non riuscissi a parlare cominciava a piacermi stare su quella poltrona in silenzio. Cominciavo a sentirla accogliente. Non solo. Cominciavo a sentire che tutto ciò che mi aveva da sempre fatto più paura, fino all’evitamento e alla fuga, nello stesso tempo aveva un qualcosa di terribilmente attraente e piacevole, da ricercare, come un sogno da realizzare. Ma continuavo a non riuscire a parlare neanche con lei, come se temessi di perdere l’unica mia protezione possibile. Non mi rendevo assolutamente conto che in quel rifugio antiatomico che mi ero costruita per resistere e sopravvivere, attraverso i no, alle costrizioni di ogni genere, proprio quel rifugio, mi avrebbe portato inevitabilmente alla morte. Era cosa che non mi toccava in nessun modo, presa solo da quella sensazione di potenza che mi rimandava il mio resistere.
Così una sera di fine inverno, eravamo alla fine di un incontro piuttosto frustrante anche per chi, come la dottoressa, ci è avvezzo. Tentativi di dialogo con una pietra. Almeno all’apparenza. Stavo quasi per andar via quando mi arrivò un vero fendente in pieno viso, un uno-due che mi mise al tappeto.
“Sai non possiamo andare avanti molto ancora così. In ogni cosa della vita ci sono dei tempi. Ormai è quasi un anno che non hai ciclo. Se non torna per giugno non credo che l’apparato possa riprendersi e quindi non posso assicurarti che potrai avere dei figli. Ci hai pensato?”
Più che le parole rimasi trafitta dal dispiacere che le leggevo negli occhi. Era vedere quei suoi occhi tristi per me che mi scosse profondamente, ancor prima e più delle parole chiare. Mi sentivo trasformata, cambiata, diversa. Dovevo assolutamente fare qualcosa. Per lei? O per me? Boh. Era tutto indistinto.
Quando uscii, appena sola, ebbi un impulso molto forte di chiamarla. Mai fatto e mai proferito parola fino a quel momento: “Per favore, la prego, mi dice cosa è buono che mangi stasera?“
Dall’altra parte del telefono ricordo un lungo silenzio. Che cosa era successo? Scambio totale delle parti.
Era una sorpresa carica di gioia, quasi di incredulità. Sentire la mia voce. Non solo. Ma che parlava dell’innominabile. Il cibo. Ho sentito per telefono un cuore che batteva forte per l’emozione. Siamo riuscite a dircelo e a parlarne solo un po’ di tempo dopo. Forse il mio primo vagito alla vita. Più tardi l’avrei riconosciuto come il primo vero atto d’amore. Di chi verso chi non ha alcuna importanza. Ho imparato che in ogni atto d’amore si è sempre in due, almeno in due, e non c’è chi prende e chi dà.
Seguii le indicazioni su quello che era necessario che mangiassi, come una Bibbia, con rispetto e precisione. Come ho già detto, da questo punto di vista non sono mai riuscita a fingere, a vomitare di nascosto o dire falsità. Questo aspetto di me magari sarà rigido e intransigente, ma mi piace e ne vado fiera. Anche adesso.
Tornarono presto le energie e mi sentii più forte. A giugno il ciclo. E fu un’altra grande commozione.
E da lì ho preso in mano la mia vita, a modo mio. E non è stato per niente facile.
Avevo guardato alla vita degli altri, come una spettatrice incantata. Quasi come una ladra da uno spioncino. Da un “fuori” che non comprendeva, anzi rifuggiva da ogni prima persona.
Ascoltavo attentamente i racconti delle mie compagne di classe che si riunivano a mucchietti appena la cattedra si svuotava, per raccontare della sera prima. Incontri a due, chiaramente, con tanto di occhi che brillavano dalla gioia anche solo di un piccolo contatto particolare e comunque intimo. Che mondi sconosciuti in cui mi perdevo, tra il fascino e la paura. Ma la mia estraneità e la distanza mi davano tranquillità. A guardare con gli occhi degli altri è certo più comodo e rassicurante. Non entrare in gioco è il modo, almeno il mio, di non esporsi ad un giudizio sempre massacrante e mortifero.
Era l’unico modo che avevo di assaggiare la vita, per interposta persona. Non mi rendevo conto che quella strada che avevo intrapreso mi avrebbe ben presto condotto sempre più lontano dalla realtà delle cose vere e autentiche. In questo modo arrivai al mio primo innamoramento, sempre solitario, mai dimostrato né verificato. Ero ai primi anni del liceo e, come tutti, ci ritrovammo ben presto in adorazione dei grandi, quelli dell’ultimo anno. Si pendeva dalle loro labbra per ogni cosa, dalla scuola alla politica e tutto il resto.
Mi ritrovavo sempre piuttosto periferica, ad avvicinarmi insieme ai miei compagni a formare gruppetti con quelli più grandi, in procinto di affrontare l’esame di stato. Tra loro spiccava un ragazzo che mi aveva colpito, per i suoi modi timidi timidi. Colpita e folgorata esclusivamente dal suo sguardo su di me, così fitto da sentirmi irrompere in ogni parte di me e scivolare in ogni mio dove. Non erano gli occhi, né la voce che forse non ho mai neanche sentito, visto che si siamo tenuti ben lontani da noi. Solo quel dialogo di sguardi, tanto intensi e tanto fissi e profondi che ancora mi sciolgo al pensiero. Attimi che erano eternità.
E credo di essere impazzita, solo per questo. Per la gioia e la paura insieme.
In quel periodo, infatti, ero stracarica di energie, instancabile e alla ricerca continua di quel punto di attrazione esterna da cui non riuscivo a staccarmi neanche un attimo con il pensiero. Forse durò tutto qualche mese ma a me sembrò un tempo lunghissimo che avrei voluto fermare per sempre. Mi ero accorta che molto spesso, quasi ogni sera, vedevo dalla finestra della mia cameretta quella cinquecento, la sua, ferma a motore spento di fronte alla finestra, la mia. Quante serate passate con il cuore che mi bombardava in gola dietro i vetri. Tutto qui. Per il resto null’altro. Silenzio più assoluto. No telefono, figuriamoci ad incontrarsi. Forse eravamo due terrori che si erano intercettati. Ma quegli infiniti attimi mi continuano ad accompagnare e a riscaldare. E mi prende spesso una tenerezza infinita e una dolce nostalgia di quei tempi.
Purtroppo però, da allora e per troppo tempo, quello che ho portato con me di tutto questo è la convinzione che quegli sguardi e quelle infinite attese in macchina non fossero per me e dirette a me. Attese di cosa poi? Mah…comunque non potevano essere per me, per cui mi sono profondamente persuasa che indiscutibilmente tutto questo non fosse rivolto a me, ma alla mia amica di allora da cui spesso mi recavo. Amica tanto ma tanto più…tutto…di me. Al massimo potevo essere un tramite per raggiungere lei. Convinzione assoluta e certezza senza dubbi e senza nessun confronto o dialogo con qualcuno. Ne ero così profondamente convinta che …meglio vergognarsene in privato piuttosto che renderlo evidente ad altri. Quanto mi dispiace di quella me che “ero”. E quanta rabbia si celava inesplosa sotto tutto questo. L’avrei scoperto di lì a poco.
Solo dopo anni ho potuto rivedere questa storia come quella di un primo amore mai realizzato, che non è potuto esistere, come niente altro di me allora. E, di più, che quella convinzione così certa e che mi ha spento piano piano, che tutte quelle attenzioni prive di parole e di contatto ma così tanto tanto vere, non fossero per me, era il mio modo di sottrarmi al gioco della vita, così spesso doloroso e deludente. Ed era anche il modo di sottrarsi ad ogni scelta libera e responsabile.
Invece di infuriarmi e starci male e maledire la mia amica per tutti gli attributi suoi che non avevo, io al contrario me ne sentivo quasi rassicurata. Avevo trovato un’ottima strategia perché tutto morisse prima di nascere. Con la partecipazione attiva dell’estrema timidezza della controparte.
Gli ho dedicato tante giornate senza che ne abbia saputo niente.
Ricordo ancora il giorno del suo esame di stato e il mio stato! Ero molto più tesa e superagitata del giorno del mio di esame! Lo passai in attesa di poterlo vedere scendere lo scalone della scuola all’uscita, a prova finita. Ma nonostante i miei sforzi non ci riuscii. Scappò ai miei occhi, pur così attenti.
Tornai molto dispiaciuta a casa. Fuori orario e fuori tempo massimo per il pranzo. Ma il timore di infrangere le rigide regole di casa non mi sfiorò neanche un poco. Quell’energia era motore di coraggio.
Forse il mio voleva essere un modo di condividere, anche solo con lo sguardo, quel momento importante. Mi sentii totalmente svuotata e angosciata, sbattuta fuori dalla mia navicella spaziale. Ho impresso quel pranzo diverso di quel giorno. Ancora mi rivedo da sola di fronte a quel piatto. Tutti i canali chiusi per ingoiarlo. E quella fu la prima volta che feci quell’esperienza.
Durante i primi anni di università si verificò di nuovo un’ esperienza molto simile. Stesso sguardo e stesso mio esserne totalmente risucchiata. Un’attrazione forte quanto negata. In aula e fuori, stessa intensità, altro ragazzo. Questa volta ci fu qualche scambio verbale tra noi, ma funzionò come una ghigliottina, in cui svolsi il ruolo di boia di ogni possibilità di rapporto. Alla sua timida richiesta di una pizza a due, il mio raggelante “No, grazie. Torno a casa”. Operazione di distruzione totale conclusa.
Intollerabile per me ogni forma di contatto, ogniqualvolta percepivo di “sentire”.
Così dopo poco mi sono ritrovata nell’unica relazione a due della mia vita, in cui però non ho mai vissuto questi picchi di intensità di attrazione e di profondità. Era forse il modo di poter scrivere “occupato” sulla mia porta. Per i miei criteri ero impegnata. Con il mio lui, però, non riuscivo a condividere quasi nulla. Due lunghezze d’onda diverse. Tenevo le mie cose per me, compresa tutta la sofferenza legata all’anoressia. Anche quest’ultima lo condizionava ben poco. Pensavo che questo significasse esser forte e certo migliore di me. Come pensavo di mia sorella. Ma, dopo anni in cui abbiamo anche convissuto nella città universitaria, ci siamo ritrovati più estranei che mai. Con difficoltà e con dolore ho rinunciato a questo rapporto, in cui non riuscivo ad esprimermi e a vivere emozioni e sensazioni nuove.
Il mio cambiamento con la malattia ha coinvolto e travolto ogni cosa. Anche se è stato necessario molto tempo, piano piano mi sono resa conto che questo rapporto non era nato da una scelta consapevole ma, come il resto, più da un bisogno degli altri. Sopra tutti di mia madre. Essere ok significa anche avere un fidanzato, magari di buona famiglia e laureato. Dalla buona apparenza e…così via. Anzi così sia.
I vecchi schemi tra noi erano così arrugginiti che non consentivano cambiamenti radicali di cui avevo bisogno. Anche vivendo insieme per un bel po’ di tempo, finivo per concentrarmi sempre sui suoi bisogni e non sui miei, né forse era possibile una tale trasformazione della relazione, senza tra l’altro una sua comprensione e partecipazione. Quando ho cominciato a chiedermi cosa provassi in quella relazione ho visto con chiarezza le nostre distanze. Ho cominciato da sola a liberarmi di compiti o doveri, in primo luogo a provare la gioia di sentirmi, a star bene con me e a riempirmi di atti d’amore.
Tra questi e forse in primis nei confronti di mia madre, imparando a superare la rabbia e a prendermi cura in qualche modo di lei, senza svilirmi e annullarmi. Come è avvenuto quando, appena laureata, mi sono anche ritrovata improvvisamente ad aver bisogno di un intervento al cuore, per un’anomalia dalla nascita. Svenuta più volte durante l’anoressia, non era mai venuta fuori questa cardiopatia congenita. Ho rischiato proprio tanto! Con grande coraggio ho sostenuto e ho assistito mia madre, crollata nella disperazione più profonda.
Sì, non ho sbagliato, la malattia e l’intervento era il mio. E oggi sono contenta di non sentirmi mai abbastanza piena.
Come ho trovato tutta questa forza? Per non parlare di quella di separarmi, da lui come dalle altre persone della mia vita, in primis ancora una volta mia madre, con le quali avevo instaurato i soliti rapporti senza confini netti tra loro e “me”, anzi senza “ME”. Non ce l’avrei fatta se non fossi totalmente trasformata, sempre grazie agli incontri della mia vita. Con la terapia sono riuscita, piano piano, a darmi il permesso di esistere, imparando a gestirne i duri effetti collaterali. Camminando su questa nuova strada sono arrivata fino alla gioia più grande, quella dell’Incontro più importante. Grazie al mio lavoro ho incontrato persone d’amore che, senza volermi vendere il paradiso, mi hanno accolta e accompagnata ad imparare ad amare le differenze senza giudicare. E ancora di più a non restare indifferente.
Fino a dedicarmi ad aiutare quelli che soffrono e tanto, in particolare i bambini più sfortunati. Non avrei potuto sentirmi più viva, grazie ai loro sorrisi che sono un inno continuo alla vita, che chiede di risollevarsi, anche quando si nasconde e non sa chiederlo, come è successo a me.
E i miei voti sono un fiume d’amore che scorre.
Dice Benigni, a commento dei dieci comandamenti:
Il problema fondamentale dell’umanità si ricapitola e riunisce in questa parola: “Amarsi”. Affrettiamoci ad amare.. Non esiste amore sprecato… È più rischioso nascere che morire, non bisogna aver paura di morire ma paura di non vivere.
Il problema fondamentale dell’umanità si ricapitola e riunisce in questa parola: “Amarsi”. Affrettiamoci ad amare.. Non esiste amore sprecato… È più rischioso nascere che morire, non bisogna aver paura di morire ma paura di non vivere.
Roberto Benigni
Se ai tempi dell’anoressia mi avessero detto che sarei morta da lì a poco, la cosa non mi avrebbe neanche scalfito. Ma la prospettiva di una vita senza amare, no. Quello era off limits. Ripenso spesso a quella frase bomba sui figli, che ha cambiato il verso della mia esistenza. Forse è arrivata al momento giusto. Stavo appena cominciando a sentirmi in modo nuovo, a poter respirare senza dolore e a credere che quel paralizzante senso di impotenza potesse iniziare a trasformarsi e a sciogliersi, come neve ad un pallido sole. Oggi mi sento nel fluire di ogni istante, viva nei “mentre” di ogni momento, piena negli sguardi di tutti i sofferenti che incontro e mi riempiono la vita. Ancora una volta, come sempre in amore, non so se sono io che aiuto loro o sono loro che aiutano me a star bene. E’ uguale. Queste esperienze mi riempiono di senso e mi aprono al futuro. Quasi inebriante, direi. Ho imparato bene a scansare trappole mortifere. In particolare quel forsennato e instancabile fare, perché non è mai abbastanza o perché non è mai il meglio che si potrebbe.
Neanche il mio presente pieno potrebbe mai cancellare il passato. Quando succede che mi rimandano il mio sorriso un po’ triste è perché ripenso a quanto mi è costato il terrore di amare e di vivere e alle tante emozioni abortite. Perché per le emozioni bisogna essere in due.
Ma allo stesso tempo e proprio per questo so che tutto quello che ho patito era necessario per riconoscere e quindi tenermi lontana da certi forni crematori dell’anima.
Specie quando hanno l’apparenza di un giardino fiorito.
Commento: variante prodighe
Quello di E. è uno degli stili che ho riscontrato più di frequente in queste ragazze sofferenti e che mi piace avvicinare ai prodighi, alle persone cioè che sono dedite agli altri e ai loro bisogni.
Mi ritornano in mente espressioni che fin da piccola ho sentito spesso, come “essere prodighi verso il prossimo” in ambito religioso, che mi hanno confuso non poco su cosa si volesse intendere per prodigo e quanto fosse una qualità e un valore. Quando poi, con Dante, mi son ritrovata i prodighi all’Inferno, sono andata non poco in crisi e mi sono resa conto di avere bisogno di un cambio di vedute per giungere ad un’idea più chiara. I prodighi dannati alla pari degli avari, insopportabili da sempre e con la stessa pena. Eticamente si tratta dello stesso peccato, quello del mal dare. Non essere equilibrati nella gestione delle ricchezze come delle virtù.
Il prodigo è l’altra faccia della medaglia dell’avaro, nella misura in cui sperpera e butta al vento beni e valori, per uno scopo per niente altruistico, cioè mirato al bene o benessere altrui. Ma solo per riempire attraverso l’approvazione degli altri il proprio vuoto di esistenza, esistenza che non possiede in sé. I prodighi peccatori nella misura in cui passano il loro tempo ad esaudire i desideri degli altri per avere in cambio la loro consapevolezza di esistere. Incapaci di dire no alle richieste altrui ma non centrati veramente su quello che è bene per l’altro.
Sono entrambe forme bieche di egoismo, di un non uscire da se stessi, di un poco-amore, per mancanza di incontro. Peccatori di una visione egocentrica, anche se indossano il vestito dell’altruista.
Non è impresa facile diventare consapevoli di questo “peccato” d’amore, di questi limiti che in superficie hanno l’aspetto di un generoso darsi agli altri.
Gli altri prima di me. O addirittura senza di me. Questa è la più luccicante delle gabbie d’oro anoressiche.
A volte trappola mortale del rifiuto del loro vitale, brutto sporco e cattivo.
Un acume fuori da ogni tempo, quello del sommo poeta!