A chi si fosse chiesto il motivo del successo inaspettato di Everything Everywhere All At Once potremmo rispondere che è la capacità di non deludere le aspettative di un titolo certamente altisonante. In una cornice cinematografica di genere wuxia, quella narrativa cinese in cui un eroe solitamente di bassa estrazione sociale combatte la legge e le ingiustizie attraverso il kung-fu, la pellicola contiene molto altro ancora e lo contiene, come premesso, tutto allo stesso tempo, in un caleidoscopio sincopato di riferimenti cinematografici che spaziano da Matrix a Ratatouille, dalla commedia al fantasy, passando per l’infinito universo di youtube.
Dentro questo tutto non manca una riflessione sull’attimo dell’esplosione, il big bang, la rottura traumatica che avviene dentro la vita ordinaria di una donna ordinaria. Si tratta di Evelyn, un’immigrata cinese impegnata nella gestione di una lavanderia a gettoni, in un momento di forte stress, con un matrimonio che sembra aver perso lo spazio di ascolto genuino dell’altro, con una figlia adolescente che sta dichiarando guerra allo status-quo, come ogni sano adolescente dovrebbe fare, e una serie di co-occorrenze che portano dritte a quella che Siegel chiamava uscita dalla finestra di tolleranza.
In occasione del capodanno il padre della protagonista torna dalla Cina e, contemporaneamente, un’addetta dell’agenzia delle entrate le sta alle calcagna per dei pagamenti che non tornano nel bilancio dell’attività e, come se non bastasse, la figlia lesbica sceglie proprio quel momento di invitare alla festa la sua fidanzatina, minacciando così gli equilibri che Evelyn crede di controllare al fine di non destabilizzare l’immaginario dell’anziano padre.
Se da un’esplosione originaria possono nascere infiniti universi paralleli, non c’è dubbio che dalla frammentazione del sé possano nascere nuove opportunità, ma il costo energetico è molto alto e la leggera cefalea che la visione di questo film produce ne rende bene l’idea.
Tutte le nostre potenzialità inespresse sono contemporaneamente presenti in ognuno di noi? Possiamo accedervi? Possiamo contattare in qualche modo la traccia immaginale di un successo conseguito in un universo parallelo, magari quello in cui ci siamo dedicati pienamente ai nostri talenti? Quale bizzarria serve compiere per realizzare un salto quantico di questo tipo? Sarebbe strano se lo producesse un sex toy per il piacere anale?
A differenza dei lungometraggi Marvel che raccontano il multiverso a partire da supereroi e dinamiche tipiche del fantasy, nella pellicola di Daniel Kwan e Daniel Scheiner i protagonisti raccontano una dimensione intrapsichica in cui ci si frammenta ma si può anche trovare la flessibilità per muoversi all’interno di un arcipelago di sé potenziali.
Al netto dell’ipervigilanza e dell’ottundimento che, da buone difese primarie, ci permettono di sopravvivere alla sofferenza con l’evitamento e al netto del relativo coefficiente di iperattività e disattenzione, ci si può ritrovare in una sapienza che è principalmente corporea?
Non è forse un caso che il primo ad usare il termine “multiverso” fu proprio uno psicologo, William James (Principles of Psychology, 1890). In un’epoca in cui la dimostrazione dell’esistenza di Dio era ancora un argomento in voga, individuava l’irriducibilità della natura ad un unico universo di leggi morali e invitava a pensare ad essa più come un “multiverso” che come un universo. Di strada e di teoria la fisica ne ha fatta molta da allora con la teoria delle stringhe, la teoria delle bolle, la teoria dell’inflazione eterna, e questi modelli a farci ben caso hanno fatto da specchio a una società sempre più vicina all’esperienza delle moltitudini che non dell’unitarietà.
L’accento della pellicola, sebbene in chiave comica, sembrerebbe posto sull’esperienza che lega queste diverse esperienze, a partire dal vissuto corporeo. Il film è disseminato di simboli e riferimenti alle pratiche olistiche: pratiche che favoriscono una conoscenza embodied, intuitiva e implicita, ormai ampiamente integrata anche nel paradigma scientifico occidentale come possibile via d’accesso alla conoscenza di sé. Quello che verrebbe da chiederci è: se si perdesse la cognizione di spazio e di tempo, se si vivesse un’esperienza di alienazione da sé di questo genere, a quel punto sarebbe possibile transitare dall’esperienza di un corpo vissuto così peculiare da far sì che le dita delle mani diventino dei wurstel (a proposito di mente incarnata) e che si possa vincere una battaglia alla Jackie Chan contro un’orda di guardie giurate?
La mente cosciente, o super-cosciente, simboleggiata dal terzo occhio di molte tradizioni religiose, nella fantasia di questa storia naviga fino a rientrare in quella realtà problematica che ha fatto da detonatore, che l’ha attivata. Evelyn vive in poco tempo numerose versioni di sé ma in tutte, ciò che resta invariato sono i problemi che l’affliggono nel qui e ora della sua vita familiare, come se alla fine a ricreare l’unità, l’integrazione, fossero le dinamiche di attaccamento, le relazioni affettive giocate nei ruoli di madre, moglie, figlia, amica… l’amore.