Vorrei provare a tracciare un orizzonte di senso, sfumato, provvisorio e certamente parziale, per alcune domande che si nascono questa volta a partire dal vissuto di essere psicoterapeuta in una comunità per persone psicotiche e allo stesso tempo in studio con persone che vivono una sofferenza esistenziale. Vi propongo tre piccoli passi che secondo me possono essere utili per tracciare somiglianze e differenze.
In primo luogo, parto dalla domanda che Binswanger pone alla base di ogni serio progetto scientifico nel campo della psicologia e della psicoterapia: “Chiediamoci piuttosto che cosa vuol dire essere umano?” (Binswanger, 1970). Questo primo passo possiamo definirlo antropologico. Con il secondo, invece, tenteremo di chiederci in cosa consista la differenza tra l’angoscia psicotica di frammentazione, nella quale mi trovo immerso ogni volta che come terapeuta entro in comunità, e l’angoscia esistenziale di cui ogni paziente ambulatoriale viene a condividere il peso durante la sua ora di terapia settimanale. Infine, vorrei provare a compiere un ultimo sforzo, con un piccolo passo nel campo della terapia, chiedendoci in che modo si realizzi la cura e con quali differenze tra la psicoterapia di comunità e la psicoterapia ambulatoriale.
Diverse domande che nel migliore dei casi troveranno qualche risposta soltanto parziale provvisoria, e nel peggiore (o forse migliore?) ancora altre domande.
Un passo antropologico
Quando ipotizziamo insieme ad un paziente che esiste la possibilità di cambiare in meglio la propria vita, di crescere in una direzione che attenui la sua sofferenza, o almeno la trasformi in qualcos’altro, noi siamo costretti a pensare ad un modello di uomo sano, cioè alle possibilità dell’essere umano in generale. Dire che una certa persona non riesce ad essere abbastanza aggressiva o che talaltra abbia un problema di impotenza sessuale significa immaginare che qualcun altro nel mondo invece riesca a fronteggiare le stesse sfide in modo diverso. Significa ipotizzare un’idea di uomo sano da cui quella persona che ho davanti, almeno in parte si discosta. Solo in questo modo possiamo provare a costruire col paziente un progetto terapeutico che preveda delle azioni volte al cambiamento:
“Le azioni terapeutiche si riferiscono alle potenzialità della specie e non dell’individuo. L’individuo è una particolarizzazione della specie e per capire la particolarizzazione, sia essa patologica o meno, si deve ricorrere alla normalità” (Straus, 1948, pp. 128-129).
Se il nostro modello di uomo sano vuole provare a seguire quella via di mezzo tra le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), tracciata dalla psicologia fenomenologica contemporanea, allora dovremo essere in grado di identificare ciò che rende l’essere umano simile a tutto il resto del vivente e ciò che lo rende invece diverso. In questo modo potremo forse trovare le origini biologiche ed evoluzionistiche del suo esserci, che affondano le radici nel corpo vivo, e insieme la sua essenza (eidos), cioè ciò che lo rende unico. In questo modo avremo un’idea di cosa sia salute per un essere umano e potremo progettare i nostri interventi clinici con maggiore profondità ed efficacia, poiché, lo abbiamo detto, sono le caratteristiche generali della specie ad informare su ciò che una certa persona potrebbe diventare (Straus, 1948, 51). In questo nostro tentativo ci rifaremo a due correnti di pensiero molto vicine alla fenomenologia, che sono la biologia enattiva di Umberto Maturana e Francisco Varela e la antropologia filosofica di Max Scheler.
La discontinuità tra ambiente organico ed inorganico, e cioè l’origine della vita, quel salto qualitativo che dalla fisica fa emergere le nuove leggi della biologia, può essere posto in differenti momenti a seconda della propria prospettiva. Noi scegliamo di seguire Maturana e Varela quanto parlano di autopoiesi. Essa è quella caratteristica di una rete di processi che produce i suoi stessi componenti. Detto così, in termini sistemici, sembra qualcosa di lontano dalla biologia, ma in realtà si intende che la vita ha avuto origine nel momento in cui alcuni processi di trasformazione chimica hanno casualmente dato origine ad una membrana che si è richiusa su stessa. È in questo momento, in cui una certa identità ha completato la propria chiusura organizzativa iniziando a differenziare il sé dal non-sé, che possiamo dire essere nato il primo organismo (certamente unicellulare in origine). A quel punto l’attività interna al sistema (metabolismo), ancora una volta causalmente per un principio che potremmo definire con Prigogine di ordine dal caos (1996), ha iniziato a produrre i componenti dei propri confini (membrana), mantenendo una propria identità stabile nel tempo. È l’origine della vita e di un livello di organizzazione che differisce qualitativamente da quello della fisica e della chimica: con i sistemi autopoietici nascono i primi sistemi dissipativi, in grado di produrre ordine piuttosto che disordine, iniziando a remare contro la corrente dell’entropia della fisica. In breve:
“L’origine della vita consiste in una transizione dall’ambiente chimico ad una identità che si autoproduce, in una cornice autoreferenziale” (Varela e Dupuy, 1992)
Ma non crediamo che questo basti a definire la discontinuità tra la vita e la non-vita. Probabilmente, infatti, in un futuro neanche troppo lontano, le nanotecnologie e l’intelligenza artificiale potrebbero costruire un sistema in grado di produrre sé stesso. Potremmo allora parlare di vita? Credo di no, perché mancherebbe una seconda caratteristica costitutiva del dominio biologico, che con Scheler possiamo definire impulso vitale (Lebensdrang). Esso consiste nella spinta vitale di un singolo corpo vivente, che porta con sé la sensazione di star vivendo (Cusinato, 2018). Questo impulso vitale è una tensione incarnata che spinge un certo organismo ad avvicinarsi ai propri valori biosemiotici e ad allontarsi dal pericolo della rottura della propria identità (morte):
I suoi due unici stati consistono in un ‘avvicinamento a…’, alla luce per esempio, e in un “allontanamento da…’, in un piacere privo di oggetto e in una sofferenza senza oggetto” (Scheler, 1927, p. 120)
In questo modo, tenendo insieme l’autopoiesi e l’impulso vitale crediamo di poter definire ciò che distingue la vita dalla non-vita. Dall’ameba all’essere umano ogni organismo porta con sé queste due caratteristiche originarie.
Procedendo al secondo stadio dell’evoluzione dello schema corporeo nel mondo vivente troviamo l’istinto. Esso non appartiene a tutti gli organismi. Le piante, per esempio, caratterizzate da semplici movimenti di crescita verso i propri valori biosemiotici, non hanno istinti veri e propri, ma semmai tropismi e riflessi, che sono più arcaici. L’istinto consiste nell’attivazione spontanea di un corpo vivente verso il raggiungimento di uno scopo biologico. Ne sono esempi l’istinto alla caccia dei lupi e dei felini, l’istinto di alcune specie di insetti a cooperare per il raggiungimento di scopi sovraordinati, l’istinto delle anatre di Lorenz a seguire una figura di attaccamento nel tempo zero della propria vita in movimento. Per essere definito istinto un certo flusso di esperienza corporeo si deve esprimere nell’ambiente secondo schemi e ritmi piuttosto rigidi, che consentono poca variazione comportamentale, ed essere innati ed ereditari (Scheler, 1927).
Il terzo stadio dell’evoluzione dello schema corporeo è poi rappresentato dalla memoria corporea. Essa consiste nella capacità di un corpo vivente di apprendere dall’esperienza passata. È propria di quegli organismi in grado di modificare il proprio comportamento nell’ambiente in base a ciò che ha funzionato o non funzionato nel corso dei precedenti tentativi di raggiungere un valore vitale. Prendiamo l’esempio dell’addestramento del cane, che presuppone la possibilità di apprendere dall’esperienza non solo grazie alla plasticità neuronale che consente la stabilizzazione di tracce mnestiche neurali, ma anche grazie ad una memoria corporea che a livello complessivo modifica la struttura del movimento nella sua interazione con l’ambiente. È in questo modo che il cane impara a star seduto in un certo modo per ottenere un vantaggio, che ha sempre a che fare con un valore biosemiotico: un boccone gustoso (appetito) o l’approvazione del padrone (attaccamento). La memoria corporea si organizza secondo livelli di complessità crescenti, fino ad avere nell’uomo le caratteristiche descritte da Fuchs (2018), ma appartiene a tutti gli esseri viventi dotati di un sistema nervoso centrale. Essa si accompagna sempre ad una struttura previsionale del proprio comportamento (che funziona anche a livello relazionale ed emotivo). Attraverso la memoria corporea l’apprendimento si inscrive direttamente nella carne dell’organismo e assume la forma di un sillogismo organismo-ambiente di questo tipo: “se faccio questo, allora l’ambiente risponderà in questo modo”. In definitiva, la memoria corporea è ciò che permettere l’emergere dei cosiddetti habiti (Bordieu, 1980), che sono schemi di interazione appresi dall’esperienza, e nel tedesco di Fuchs si definiscono Gewohneit (Fuchs, 2012). Attraverso gli habiti la memoria corporea fa emergere alcune caratteristiche della corporeità a discapito di altre. Queste forme della carna vanno a costituire nell’uomo il nucleo implicito e corporeo della sua identità personale.
Il quarto stadio dell’evoluzione dello schema corporeo è costituito dalla nascita della socialità e delle emozioni. Queste due caratteristiche, che chiaramente appartengono solo ad alcune specie e cioè quelle che hanno sviluppato un sistema limbico, portano il sistema della memoria corporea ad attivarsi anche nel dominio delle relazioni con altri esseri viventi. In questo modo, la formulazione “se… allora…” organizza lo spazio relazionale in gruppi, famiglie e coppie, a partire dalla diade di attaccamento in quelle specie dove essa è all’origine dello sviluppo individuale. Nasce così la socialità, insieme al concetto corporeo di identità, che è una proprietà di quelle specie che sono in grado di riconoscere come individui specifici i propri con-specifici. Un cane, per esempio, così come tutti gli altri mammiferi superiori, riconosce un altro cane come quel cane particolare, se ha avuto modo di incontrarlo prima. Quindi attraverso la memoria corporea ed emotiva la socialità consiste nell’entrare in relazione con un individuo della stessa specie in base alla storia degli accoppiamenti strutturali precedenti con quell’individuo. Le emozioni in questo senso sono una forma di coordinamento intercorporeo nello spazio interpersonale e sociale, che permette alle specie più evolute di organizzarsi in sistemi sociali nei quali ogni individuo è riconosciuto come tale dagli altri.
L’ultimo passo dell’evoluzione dello schema corporeo, compiuto solamente dalla specie umana, consiste invece nel riconoscere sé stessi come individui. La possibilità di divenire osservatori della propria esperienza vissuta, definita autocoscienza da Gallagher e Zahavi (2008), deriva dalla possibilità dell’essere umano di prendere distanza dalle tendenze biologiche del proprio corpo vivente. Tale capacità, che consiste in una sorta di emancipazione esistenziale dell’essere umano dal dominio organico, è dovuta all’assunzione della posizione eretta, che pone l’essere umano a livello corporeo in una posizione di osservatore del proprio stesso vissuto corporeo:
“A differenza degli animali che rimangono ancorati alla terra, l’uomo si oppone alla gravità e così la posizione eretta lo pone in contrasto col mondo” (Straus, 1966, p. 143).
Da questa capacità tutta umana, che emerge con la nuova caratteristica dello schema corporeo di opporsi alla forza di gravità nel senso della verticalità, discendono una serie di trasformazioni che portano il corpo vivente dell’essere umano ad essere svincolato dalle pressioni ambientali e biosemiotiche. In questo modo, lo schema corporeo umano non è più chiuso nel proprio dominio biologico, ma si apre verso il mondo in uno spazio di possibilità nel quale è chiamato a compiersi e a realizzare sé stesso (Weltoffenheit). Questo nuovo spazio di possibilità è il campo della libertà, nel quale l’essere umano deve colmare il vuoto aperto dal proprio scollamento dal corpo vivente e realizzarsi attraverso le proprie scelte. In questo senso si apre ad un livello che potremmo definire esistenziale, e che Zutt definisce cammino della vita (1971). Ogni scelta costituisce in questo senso una precipitazione graduale verso la propria realizzazione, il cui compimento totale, tuttavia, non si realizzerà se non con la fine del cammino, cioè con la morte.
Un passo psicopatologico
Tale caratteristica dello schema corporeo umano costituisce anche una forma di incompletezza e di vulnerabilità. Se infatti l’animale aderisce alla propria esperienza attraverso uno schema corporeo che riposa in sé stesso, l’essere umano è invece chiamato a realizzare continuamente il proprio stesso corpo attraverso, in particolare, il riconoscimento dell’Altro. Come affermato da Sartre, infatti, esiste una dimensione del corpo vissuto, specifica dell’essere umano, che egli definisce come il corpo vissuto attraverso lo sguardo dell’altro, che costituisce una modalità ontologica di darsi del corpo umano (Sartre, 1943). Una tale dimensione della corporeità si fonda a partire da una prospettiva ottica sul corpo, che l’essere umano assume non solo attraverso il proprio stesso sguardo (corpo-oggetto) ma anche attraverso lo sguardo dell’altro (corpo vissuto attraverso lo sguardo dell’altro). La potenza cenestesica della carne è ridotta nel caso dell’essere umano dall’assunzione della posizione eretta, che gli fa assumere una posizione di distanza al proprio centro vitale corporeo situato nelle viscere e nel bacino. Ecco che allora l’uomo è chiamato a colmare questo vuoto lasciato nel proprio schema corporeo dallo sguardo dell’altro. Tutto ciò è aumentato in maniera esponenziale e psicopatologica nei casi di anoressia (Stanghellini, Esposito, 2019), che non a caso potremmo definire la malattia mentale del nostro tempo. Io sono ciò che l’altro vede di me. Questa caratteristica dello schema corporeo umano si riassume nella summa coniata da Stanghellini “videor ergo sum” (2020). Questa caratteristica della corporeità va accentuandosi sempre di più nella nostra società con la digitalizzazione delle relazioni che aumenta l’effetto di evanescenza della carne.
Seguendo questo discorso, possiamo dire che a livello corporeo “l’uomo è l’unico animale che rifiuti di essere ciò che è” (Camus, 1951). In definitiva, è dallo stare in piedi e dalla posizione eretta, oltre che dallo sviluppo del suo sistema nervoso centrale, che nascono le infinite possibilità e insieme la grande vulnerabilità della specie umana:
“L’animale nasce una volta per tutte. L’umano invece non è mai nato del tutto. Deve affrontare la fatica di sperare di generarsi di nuovo o sperare di essere generato. La speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi solo in modo abbozzato. La sua nascita è incompleta e così il mondo che lo aspetta. Deve dunque finire di nascere interamente e creare il proprio mondo, il proprio posto, il proprio luogo. Deve incessantemente partorire sé stesso e la realtà che lo ospita” (Zambrano, 1996, p. 90).
Da questo compito antropogenetico della nostra specie, che come abbiamo visto dipende dalle caratteristiche del suo schema corporeo, derivano le due forme fondamentali della psicopatologia che ogni clinico incontra nel proprio lavoro nelle comunità per pazienti gravi e nel proprio studio con pazienti che riescono a portare avanti un certo progetto di mondo più o meno autenticamente vissuto, ma soffrono in segreto nel rapporto con loro stessi. La posizione eretta, l’autocoscienza e la libertà, infatti, possono condurre ad una perdita del radicamento (il grounding di Lowen), inteso come ancoraggio al proprio vissuto corporeo ed intercorporeo e a quello che potremmo chiamare il senso della terra (Nietzsche, 1883). In questo modo si può generare da un lato una perdita assoluta del senso di radicamento, che definisce secondo Laing una forma di insicurezza ontologica (1955), intesa anche come perdita di contatto con l’evidenza naturale e il senso comune (Blankenburg, 1979). Dall’altro lato, invece, quando un certo contatto con il proprio flusso di sensazioni corporee è mantenuto, e quando è possibile stabilire una qualche forma di risonanza con il mondo e con l’alterità, allora possiamo parlare di una perdita relativa del senso di radicamento. È questo il caso di tutti quei pazienti ambulatoriali, che hanno smarrito il senso della direzione del proprio cammino di vita, e cercano un incontro che possa aiutarli a ritrovarlo. Ecco che in questo modo, anche nel campo psicopatologico la nozione di schema corporeo fa luce sulla fondamentale differenza tra le psicosi e il resto delle forme di sofferenza mentale.
La frammentazione come caratteristica del modo di esserci psicotico consiste nella rottura dell’unità dello schema corporeo. Il corpo vivente dell’individuo perde la propria chiusura organizzativa e non assurge ad unità: ogni parte resta divisa dalla totalità e si muove in modo non integrato e non armonico. Parliamo qui di parti dello schema corporeo, quindi di distretti come quello del bacino, delle gambe, del torace, della testa e dell’esperienza vissuta ad essi correlata. Ogni parte si muove come se non facesse parte del tutto, impedendo allo schema corporeo di stabilire una relazione armonica di risonanza con il mondo. Si realizza quindi, nel caso delle psicosi, come evidente nel caso esemplare della schizofrenia, una frammentazione dello schema corporeo (Esposito, Salerno, 2022). Da qui anche la perdita dei confini corporei, che fa sentire la persona dispersa nell’ambiente e nello spazio interpersonale. Zutt chiama “perdita dello Stare” (Standverlust) (1971) un tale modo di vivere il corpo e la sua relazione con il mondo.
Piuttosto che una frammentazione la nevrosi può invece essere definita una rigidità dello schema corporeo. Con questo termine si intende una sorta di congelamento di una parte del flusso di esperienze corporee vitali, che possono essere in particolar modo legate ad un certo distretto corporeo e ad area traumatica piuttosto che a un’altra. Pensiamo ad esempio ad una persona che ha vissuto una storia di attaccamento caratterizzata dalla disconferma continua della propria aggressività. È evidente che una tale persona avrà la tendenza (struttura tendenziale dello schema corporeo) a reprimere la propria rabbia e ad escludere le azioni aggressive dal proprio range di possibilità. Una tale persona vivrà, per esempio, una devitalizzazione relativa del distretto delle spalle e del petto, dovuta ad una repressione della propria assertività e della propria aggressività. In un caso come questo possiamo parlare di una insicurezza psicologica (e non ontologica) e di una forma di inautenticità vissuta come distanza dal corpo vivente (o da alcune sue parti). In questo senso la nevrosi può essere compresa dal punto di vista psicopatologico come una perdita relativa del senso della terra. In casi come questi è possibile riappropriarsi di sé stessi e delle parti escluse dal proprio flusso vitale e dal proprio cammino esistenziale attraverso una psicoterapia ambulatoriale. È evidente, invece, che nel caso della frammentazione completa dello schema corporeo esperita dalle persone psicotiche un campo terapeutico come questo non è sufficiente a soddisfare i bisogni di sostegno e contenimento.
Un passo psicoterapeutico
Infine, un ultimo piccolo passo nella direzione della psicoterapia. Se è vero che le due fondamentali forme psicopatologiche della psicosi e della nevrosi si differenziano in base ad alcune caratteristiche della struttura corporea, allora è evidente che saranno necessarie due forme di psicoterapia diversa, sebbene entrambe corporeamente orientate.
Nel caso delle psicosi, infatti, la frammentazione dello schema corporeo e la sua completa devitalizzazione rendono necessario un trattamento di rete o di comunità. Non è possibile prendere da soli in carico efficacemente una persona che vive l’esperienza dell’angoscia psicotica. Chiunque pensi il contrario è votato al fallimento. In questi casi il campo terapeutico deve necessariamente essere allargato fino a comprendere le relazioni principali della persona. Oltre ai caregiver, ai familiari e a tutto il sistema curante, spesso è utile persino allargare il campo terapeutico ad amici e conoscenti. Non è possibile rinchiudersi dentro il proprio studio con il paziente provando a sospendere il mondo, ma è piuttosto necessario uscire nel mondo per portare lì un punto di vista e un sostegno terapeutico. Il lavoro corporeo in una psicoterapia con una persona psicotica deve certamente essere prevalentemente di stabilizzazione. Se è vero che in questi casi abbiamo davanti a noi una frammentazione dello schema corporeo dovuta alla perdita di contatto con il senso della terra, allora tutte quelle tecniche sulla stabilizzazione e sul confini corporei saranno utili a sostenere l’emersione di un Sé corporeo integrato. Il corpo vivente del terapeuta deve essere pronto in questi casi a farsi corpo vicariante di una soggettività altrimenti aleatoria ed evanescente, fornendo un punto di ancoraggio saldo e sicuro ad una realtà altrimenti incerta e sfuggente. Il terapeuta deve essere pronto a portare con sé nell’incontro con l’atmosfera alienata ed alienante della psicosi tutto la forza vitale dei propri vissuti emotivi. Deve poter esprimere liberamente e con forza tutto ciò che sente, perché attorno a lui possa coagularsi una soggettività altrimenti disincarnata e devitalizzata. Solo in questo modo, attraverso la costruzione di un legame intercorporeo stabile tra lui e il paziente psicotico sarà possibile rifondare quel senso di ancoraggio al senso comune che chiamiamo evidenza naturale. Da qui è possibile che un corpo vivente che aveva perso la propria integrità, ritrovi un modo per tenersi insieme, facendo così emergere una soggettività altrimenti smarrita. Sarà allora possibile sostenere la persona verso una maggiore assunzione di responsabilità rispetto al proprio progetto di mondo, che nel migliore dei casi le consentirà di scegliere la propria strada per realizzare al meglio possibile sé stesso.
Nel caso delle nevrosi la psicoterapia si gioca tutta su un altro piano. Per prima cosa il campo terapeutico deve essere protetto da invasioni esterne, in modo da consentire al paziente di sospendere il proprio atteggiamento naturale e accedere al mondo della vita e alla autenticità del proprio corpo vivente. In questo caso il lavoro corporeo su uno schema rigido consisterà nella apertura, lenta, consapevole e accompagnata da riflessioni verbali, di quei blocchi che si sono incistati nella carne dell’individuo al fine di proteggerlo dalla sofferenza e dall’insopportabile dolore dell’esistenza. Il corpo del terapeuta dovrà farsi corpo risonante, in grado in alcuni casi di amplificare il vissuto del paziente, in modo che egli possa diventarne consapevole, in altri casi di aiutarlo a contenere e dar forma a vissuti emotivi troppo intensi. La posizione del terapeuta si trasforma qui in quella di colui che accoglie e rimanda, senza la necessità di esprimere sempre e con forza il proprio personale vissuto emotivo. Una bassa espressività emotiva del terapeuta, infatti, serve in questi casi a poter sostenere con maggiore stabilità le oscillazioni emotive attivate nella relazione terapeutica, in modo che sia il paziente stesso ad orientarsi verso ciò che di cui sente il bisogno. Ciò non vuol dire però perdere in autenticità nella relazione terapeutica Io-Tu che si stabilisce, poiché questa è proprio il cuore di ogni cura fenomenologica. Significa semplicemente, farsi compagno di viaggio (Daseinspartner) di una persona che sta cercando di ritrovare il proprio orientamento nel proprio cammino della vita. Anche in questo caso l’orizzonte verso cui si muove la psicoterapia è quindi quello della libertà.