Una visione critica sull’istituzione manicomiale
A partire dagli anni Settanta del Novecento, si è verificato un fenomeno chiamato «svolta culturale», che, attraversando le scienze umane e sociali, ha accentuato gli scambi tra storia e teoria culturale e si è legato ad un allargamento notevole del territorio della conoscenza storica verso temi e oggetti prima ben poco considerati (Sorba & Mazzini, 2021). La svolta culturale, servendosi di materiali d’archivio ma soprattutto di un nuovo approccio metodologico, introduce importanti novità anche nell’ambito della storia della follia. Queste novità permettono di sottolineare il ribaltamento del paradigma dicotomico, che si è a lungo imposto in ambito psichiatrico e che pone da un lato un complesso di valori dominanti e dall’altro un insieme di subculture e contesti estranei al canone prevalente ed in contrasto con i sistemi regolativi del proprio gruppo sociale (Fiorino, 2023). Recenti contributi storiografici analizzano con particolare interesse una prospettiva visuale sulla storia della follia, la quale dimostra che non si può più vedere l’ambiente interno ai manicomi come un contesto semplicemente altro rispetto a noi, popolato da soggetti che non sono in grado di conformarsi ai sistemi normativi vigenti ed ai canoni di moralità imposti. In questo lavoro, a partire da queste idee, ci proponiamo di analizzare la visione sulla follia fornita dalle rappresentazioni fotografiche dei manicomi italiani alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Vedremo come questa visione abbia contribuito alla creazione di un nuovo paradigma a proposito della follia, mettendola sotto gli occhi di tutti, e rompendo con il modello tradizionale che la vedeva come qualcosa di inavvicinabile: anche grazie a ciò, è emersa la necessità di riforma delle pratiche di salute mentale portata avanti da Basaglia.
Vinzia Fiorino, occupandosi di storia sociale e culturale della psichiatria, spiega che trattare di follia dal punto di vista storiografico significa concentrarsi non tanto su cosa essa sia, ma piuttosto su chi siano i soggetti considerati “folli” che venivano internati nei manicomi e in altre istituzioni totali; su come essi venissero classificati e catalogati nel tempo; sul sistema di relazioni sociali in cui essi erano inseriti (Fiorino, 2023). Vedremo che concentrarsi sul soggetto folle più che sulla follia in sé rappresenta una svolta fondamentale dagli anni ’60. Analizzeremo in particolare il fatto che le prospettive visuali giocano un ruolo chiave nella considerazione della follia e nella costruzione di un paradigma teorico a proposito di che cosa sia la malattia mentale, cogliendo aspetti nascosti ed inesplorati della costruzione del soggetto folle nell’età contemporanea e dimostrando la necessità di modificare le pratiche sanitarie e di cura a lui assegnate.
Per comprendere chi sono i folli dell’era manicomiale è fondamentale riferirsi alle riflessioni che ne hanno fatto il sociologo canadese Erving Goffman ed il filosofo francese Michel Foucault negli anni ‘60. Erving Goffman, analizzando gli effetti psicologici della vita quotidiana nelle istituzioni totali, formula un pensiero fondamentale: le strutture pubbliche destinate a gestire la follia non soddisfano il bisogno di assistenza, ma, al contrario, si trasformano in potenziali strumenti che amplificano la devianza. I manicomi, infatti, si rivelano più adatti a mantenere i pazienti in lungodegenza piuttosto che a favorirne la riabilitazione; di conseguenza, l’effetto delle pratiche di internamento è quello di un’interiorizzazione dell’identità patologica da parte dei ricoverati (Goffman, 1961).
Michel Foucault studia a più riprese la storia della follia e delle istituzioni manicomiali: egli rileva che la follia è legata all’internamento da metà del XVII secolo e che questo internamento ha assunto la forma dell’istituzione manicomiale con lo sviluppo del sapere psichiatrico all’inizio del XIX secolo (Foucault, 1972). Il filosofo francese sostiene che, se nel Medioevo e nel Rinascimento la follia e la ragione erano ritenute complementari nell’esperienza umana, a partire dalla metà del XVII secolo esse iniziano ad essere concepite come opposte. Il soggetto folle viene quindi recluso in spazi appositi e isolati dalla società, con il fine di osservare, classificare e tentare di guarire quella che ormai viene considerata una malattia. Dall’età moderna ad oggi si verifica dunque un passaggio dal soggetto folle al paziente come oggetto da analizzare per definire cosa sia la normalità e da sottomettere all’autorità morale del medico (Sorba & Mazzini, 2021). Perciò, Foucault inserisce le istituzioni manicomiali in quel complesso di strategie che a partire dalla fine del ‘700 sono volte all’edificazione di un sistema repressivo, al controllo delle singole coscienze e alla regolazione di sentimenti ed emozioni (Fiorino, 2023).
Goffman e Foucault svolgono dunque un ruolo chiave per la comprensione del contesto manicomiale e per una presa di posizione critica su di esso. I loro lavori più importanti a proposito sono rispettivamente Asylums: Essays on the Condition of the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates e Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, i quali hanno aperto un filone di ricerca che fornisce un punto di vista critico sulle istituzioni manicomiali e sulla psichiatria e sono stati pubblicati entrambi nel 1961, anno in cui Franco Basaglia diventa direttore del manicomio di Gorizia. Quest’ultimo si ispirerà anche ad essi per la sua attività, come dimostra il fatto che Basaglia assieme alla moglie, Franca Ongaro, citano contributi di Foucault e di Goffman in Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione. Sarà proprio Franca Ongaro a tradurre in italiano il testo Asylums di Goffman.
Franco Basaglia
Introduciamo ora brevemente la figura di Franco Basaglia: egli nasce a Venezia nel 1924, studia medicina a Padova, si interessa di filosofia e psichiatria e si specializza nel campo delle malattie mentali. Dopo aver abbandonato l’idea di una carriera accademica, diventa direttore del manicomio di Gorizia. Quando gli viene chiesto se gli interessi di più il malato o la malattia1, Basaglia risponde: «Decisamente il malato», ponendo così l’attenzione sui soggetti internati.
Da direttore del manicomio, Basaglia si convince presto che l’intero sistema manicomiale sia fallimentare: non nota benefici medici nel modo in cui i pazienti vengono trattati in queste istituzioni, ma crede anzi – come Goffman – che alcuni comportamenti disturbati vengano creati o esasperati da esse. Inizia quindi a trasformare l’istituzione dal suo interno, mettendo in atto una serie di riforme radicali: pone fine alla contenzione aprendo i reparti, demolendo muri e recinzioni e permettendo così ai pazienti di muoversi all’interno del manicomio; introduce incontri guidati dai pazienti creando una comunità terapeutica; crea un’équipe dalla cui collaborazione nel 1968 nasce il libro L’istituzione negata. Questo testo è composto da documenti ed appunti che vogliono essere l’espressione concreta di una realtà istituzionale da rovesciare e delle contraddizioni in essa implicite; un testo attraverso cui si vuole costruire un discorso antistituzionale che dimostri come il manicomio sia una realtà che non può che essere violentemente rifiutata (Basaglia, 1968).
Si inizia a parlare di “canone basagliano”, fondato sull’idea dell’istituzione negata: nell’istituzione totale del manicomio va messa in atto una pratica radicale per rovesciarne le strutture di potere ed esporre le contraddizioni interne non solo a questo sistema, ma anche alla società nel suo insieme (Foot, 2014). Perciò sono necessari una serie di cambiamenti sociali e di riforme radicali: Basaglia, affiancato dalla sua équipe e da Ongaro, sostiene fermamente la necessità di un’abolizione delle istituzioni psichiatriche su larga scala (Foot, 2015).
L’utopia di Gorizia diventa realtà concreta a Trieste. Infatti, dopo otto anni da direttore a Gorizia e due a Parma, nel 1971 Basaglia diventa direttore del manicomio di San Giovanni a Trieste. Qui concretizza un cambiamento ancora più radicale: tutti i reparti vengono aperti e la rigida divisione dei sessi viene eliminata; ai pazienti sono garantiti i diritti fondamentali; si creano una consistente équipe e delle cooperative per re-integrare i pazienti in società. Si incrementa il numero di persone assunte per lavorare nel manicomio e vari ex-pazienti diventano volontari, tanto che alla fine si avranno più operatori che pazienti (Foot, 2014). All’inizio del 1977 Basaglia annuncia che il manicomio di San Giovanni verrà chiuso entro la fine dell’anno. Si è raggiunto l’impossibile: l’istituzione non è solamente “negata”, ma cancellata. Oggi Trieste non ha un manicomio, San Giovanni è un parco e l’Italia è priva di istituzioni manicomiali.
Demolire i muri è un punto cruciale, ma contemporaneamente va anche costruito qualcosa di nuovo, un’alternativa al manicomio. Perciò è fondamentale il lavoro di Basaglia al di fuori di questi luoghi ed è importante stimolare l’opinione pubblica attraverso una sofisticata strategia mediatica (ivi). Prima di arrivare a Trieste, tra l’aprile e l’ottobre del 1968, Basaglia collabora con due fotografi, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, per fotografare i manicomi di Gorizia, Colorno e Firenze e dar vita al photobook Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, pubblicato da Einaudi nel 1969.
Una testimonianza fotografica della realtà manicomiale
Gianni Berengo Gardin inizia la sua carriera di fotoreporter negli anni ’60; negli stessi anni Carla Cerati dà un taglio sociale e politico alla sua fotografia, mezzo che aveva iniziato ad esplorare una decina di anni prima. Con la testimonianza fotografica fornita in Morire di classe, Cerati e Gardin vincono il Premio Palazzi per il Reportage nel 1969. Nel 1998 il volume verrà ripubblicato con una serie di modifiche sotto il titolo Per non dimenticare 1968. La realtà manicomiale di «Morire di classe»; a febbraio 2024 la prima versione del testo è stata ripubblicata nella sua integrità per testimoniare visivamente quale fosse la considerazione della malattia mentale prima della riforma basagliana e comprendere il significato di un cambiamento nelle pratiche di salute mentale.
Morire di classe è un libro sui generis, sia per forma e dimensioni – copertina lilla, orientamento orizzontale, pagine non numerate – sia per contenuto – fotografie scattate nei manicomi e senza una didascalia che ne indichi l’autore o il luogo. Sono fotografie prive di colore, in bianco e nero, ma capaci di far emergere tutte le sfumature dell’ambiente e soprattutto delle persone che ritraggono. Vi sono anche citazioni di diversi autori, tra cui Foucault, Goffman, Brecht, Fanon, Levi, e di alcuni passaggi tratti da manuali psichiatrici o norme di regolamento di ospedali psichiatrici; inoltre, troviamo qualche testimonianza scritta dai pazienti. Tuttavia, sono le immagini ad avere un ruolo centrale: esse mostrano il contesto fisico in cui vivevano i pazienti, fatto di sbarre, cancelli, cortili in cemento e muri enormi, e ritraggono i segni di dolore e sofferenza, di regole e imposizioni sui corpi e sui volti dei pazienti stessi (Foot, 2015).
In realtà, quando le foto vengono scattate si era già entrati in una fase di cambiamento nei manicomi, soprattutto a Gorizia, ma il libro non vuole fornire un messaggio di speranza, bensì una denuncia della necessità di chiudere questi posti il più presto possibile. È un libro politico, un prodotto della controcultura, una violenta dichiarazione di uno stato di cose che è inaccettabile. Fornisce un’analisi scritta e soprattutto visiva contenente tutti gli elementi dell’ideologia basagliana, a partire da un esame delle “istituzioni totali”, tramite le citazioni di Foucault e Goffman, fino agli effetti di questa profonda istituzionalizzazione sui corpi dei pazienti (ivi). Ci si concentra proprio sui pazienti, assumendo lo stesso atteggiamento che si può ritrovare anche in Basaglia e negli altri studi citati, come abbiamo visto; Berengo Gardin afferma infatti di aver evitato di fotografare la malattia, interessandosi piuttosto alle condizioni dei malati.
Questo lavoro è definito da Cerati come una forma di comunicazione socialmente importante: esso espone una realtà scomoda che molti italiani avevano cercato di ignorare oppure semplicemente non conoscevano. Infatti, come sottolinea Berengo Gardin, le immagini dei pazienti all’interno dei manicomi negli anni ’60 erano pochissime: niente del genere era mai stato visto prima. Dopo la pubblicazione di Morire di classe, si diffonde ampiamente l’idea di fotografare pazienti e manicomi; la fotografia si sviluppa come un modo di comprendere sia le “istituzioni totali” nell’Italia del XX secolo sia le riforme messe in atto per cambiarle ed eliminarle dall’inizio degli anni ’60 (ivi).
Durante lo stesso anno di pubblicazione del photobook, esce inoltre il documentario I Giardini di Abele, girato dal giornalista Sergio Zavoli in collaborazione con Basaglia all’interno del manicomio di Gorizia: esso viene visto da milioni di italiani. Il documentario si propone esplicitamente di mostrare, al di là del volto di un internato o della sua follia, quanto resta di un uomo dopo che l’istituzione delegata a curarlo lo ha sistematicamente oggettivato, riducendolo a numero, a cosa. Anche questa testimonianza, fornendo una visione – nel vero senso della parola – sui manicomi, si pone come una denuncia della situazione all’interno di queste istituzioni, al fine di sensibilizzare un cambiamento.
Le fotografie del photobook svolgono dunque un ruolo importante nel cambiamento della percezione a proposito dei manicomi e dei pazienti manicomiali. Esse non esplicitano verbalmente, ma mostrano in maniera lampante il paradigma teorico secondo il quale venivano trattati i soggetti folli nel contesto manicomiale, mettendolo davanti ai nostri occhi: corpi riversi a terra sotto al sole, capi piegati e rasati, pazienti con le camicie di forza; contemporaneamente creano anche un paradigma teorico di che cosa siano i soggetti folli di per sé, avvicinandoceli: uomini e donne come noi, con corpi come i nostri, in una situazione di sofferenza e fragilità. Ciò fa emergere la necessità di una riforma delle prassi di salute mentale allora vigenti, che porti le istituzioni a concentrarsi sulla riabilitazione piuttosto che sulla distruzione e sull’oggettivazione di coloro che sono stati emarginati, ma che sono uomini e donne come noi.
Leggiamo nelle pagine iniziali del testo: «Questo atteggiamento, essenzialmente pragmatico, ha consentito di svelare la faccia nuda del malato mentale, al di là delle etichette che la scienza gli aveva imposto e delle sovrastrutture che l’istituzione aveva provocato. Solo da questo momento, di fronte a questa nudità, è possibile tentare di riavvicinare il malato e la malattia, prima che una nuova ideologia li ricopra, nascondendo ancora una volta la loro vera natura» (Basaglia & Ongaro Basaglia, 1969). Il paradigma della malattia mentale qui proposto nasce da un contesto materiale, pratico, e porta ad un cambiamento altrettanto pratico, attraverso un’azione di rinnovamento dell’assistenza alla salute mentale.
Come sottolinea Fiorino, è di fondamentale importanza la prospettiva visuale, che si concentra sulle rappresentazioni visive della sofferenza negli spazi manicomiali (Fiorino, 2023). Un interesse nei confronti delle illustrazioni della follia è sempre esistito: alle origini del paradigma psichiatrico moderno vi era l’idea che le malattie mentali si generassero nella sfera morale del malato, ovvero in una sfera che oggi definiremmo “psicologica” e che ha a che fare con le passioni. Si riteneva che le passioni si basassero su un substrato fisiologico e che le malattie mentali condizionassero la fisionomia stessa del soggetto, dalla quale era possibile individuare una prova della malattia. Perciò, gli alienisti ricorrevano a disegnatori e pittori per ritrarre gli internati in manicomio, a partire dai primi psichiatri: citiamo ad esempio Jean-Étienne Dominique Esquirol, che inserisce una serie di ritratti di persone affette da alienazione nella sua opera del 1805, Des passions, considérées comme causes, symptômes et moyens curatifs de l’aliénation mentale, con lo scopo di classificare le diverse tipologie di malattia mentale. Abbiamo poi cicli di dipinti come quelli di Charles Le Brun, che cerca di rappresentare le alterazioni delle passioni sugli uomini, e di Théodore Géricault, che realizza una serie di ritratti di alienati per lo psichiatra Étienne-Jean Georget. Anche la fotografia segue inizialmente questo paradigma e arriva ad una “messa in scena” dei pazienti (Fiorino, 2023): lo vediamo con l’esperienza di Charcot nella clinica della Salpêtrière attraverso la serie di immagini Iconographie photographique de la Salpêtrière, che – raffigurando pose, attacchi, grida, estasi, e tutte le posture del delirio – teatralizza i corpi delle isteriche e spettacolarizza l’isteria clinica (Didi-Huberman, 1982), con l’obiettivo di dimostrare le sue teorie. In questi paradigmi, la follia era vista come qualcosa di radicalmente diverso da quanto considerato “normale” e dunque l’unico modo per approcciarvisi era quello di classificarne le tipologie attraverso una serie di ritratti oppure di spettacolarizzarla rendendola un artefatto.
Le fotografie contenute in Morire di classe, invece, sono ben lontane dalle iniziali rappresentazioni che si rifacevano al paradigma psichiatrico basato sul binomio salute/malattia: esse suggeriscono di rivedere il confine tra sano e malato, tra dentro e fuori degli ospedali. Cerati e Berengo Gardin, su richiesta di Basaglia, portando sotto gli occhi di tutti la vita manicomiale, rendendola sfogliabile, ce l’hanno avvicinata, in modo che non sia più considerabile un altro, un dentro rispetto al quale noi siamo fuori. Sempre nelle prime pagine di Morire di classe, si sostiene che solo nel costante dialogo fra interno ed esterno la malattia possa essere affrontata nella sua duplice faccia, reale e sociale, per cercare di eliminare le difficoltà sociali che ne impediscono una riabilitazione concreta; quest’ultima non può avvenire finché il nostro sistema sociale non si rivela interessato al recupero di chi è stato escluso (Basaglia & Ongaro Basaglia, 1969).
L’impresa compiuta da Basaglia ha attivato una narrazione nuova, anche tramite il visuale, testimoniando che la follia è parte integrante dell’esistenza umana. La potente riforma basagliana delle pratiche di salute mentale si è servita anche di fotografie e filmati, di prospettive visuali, per cambiare i paradigmi allora vigenti a proposito della follia e far emergere la necessità di cambiamento delle pratiche di cura.
- La domanda gli viene rivolta durante la registrazione del documentario I Giardini di Abele, diretto da Sergio Zavoli nel 1969, di cui parleremo in seguito. ↩︎
Bibliografia
Basaglia, F., & Ongaro Basaglia, F. (1969). Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Torino: Einaudi.
Basaglia, F. (a cura di). (1968). L’istituzione negata. Torino: Einaudi.
Basaglia, F., & Ongaro Basaglia, F. (a cura di). (1975). Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione. Torino: Einaudi.
Esquirol, J. E. D. (1805). Des passions, considérées comme causes, symptômes et moyens curatifs de l’aliénation mentale. Paris: Didot Jeune.
Fiorino, V. (2023). Follia. In Banti, A. M., Fiorino, V., & Sorba, C. (a cura di). (2023). Lessico della storia culturale (pp. 110-126). Roma: Laterza.
Foot, J. (2014). Franco Basaglia and the radical psychiatry movement in Italy, 1961–78. Critical and Radical Social Work, 2(2), 235-249.
Foot, J. (2015). Photography and radical psychiatry in Italy in the 1960s: The case of the photobook Morire di Classe (1969). History of Psychiatry, 26(1), 19-35.
Foucault, M. (1972). Histoire de la folie à l’âge classique. Paris: Gallimard.
Goffman, E. (1961). Asylums: Essays on the Condition of the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates. New York: Anchor Books.
Sorba, C., & Mazzini, F. (2021). La svolta culturale. Come è cambiata la pratica storiografica. Roma-Bari: Laterza.
Didi-Huberman, G. (1982). Invention de l’hystérie. Charcot et l’iconographie photographique de la Salpêtrière. Paris: Macula.
Zavoli, S. (Regista). (1969). I Giardini di Abele [Film]. Rai-TV.