I maestri abitano la nostra mente mentre parliamo con i pazienti. Quante volte mi trovo ancora oggi a dialogare in seduta con Corrado Pontalti, che è stato così fondamentale nel mio diventare psicoterapeuta? Lo ho osservato dietro lo specchio e assorbivo tutto, l’ho ascoltato nelle discussioni che seguivano e, spero, imparavo. Da lui ho imparato a considerare i familiari dei pazienti parte del processo terapeutico. Parte indispensabile, a cui rivolgersi con curiosità e rispetto, quel rispetto che si deve a chi ci chiede aiuto, ai nostri pazienti. Perché sì, di pazienti a loro volta si tratta e quindi ci rivolgiamo a loro con attenzione, validazione, empatia e cerchiamo di coinvolgerli nelle operazioni necessarie, e dolorose, di cambiamento.
Quando vedo i colleghi che li trattano con critica, condiscendenza, come se fossero avversari a cui insegnare la vita, forti di un manto di saggezza che nella vita privata tanto servirebbe a loro, mi chiedo: come mai è passato tempo e così pochi hanno ascoltato?
Mi ha insegnato a comprendere come le trame della famiglia si declinino nella mente dei figli e che spesso, se non sciogliamo quelle trame all’origine, il paziente non avrà un orizzonte nuovo a cui ancorarsi. Vorremmo offrire al nostro paziente una mappa per il futuro, ma lui quella mappa nuova non ce l’ha e non sa leggerla, perché legge i testi antichi e solo quelli capisce. Abbandonarli, riscriverli è rischio, è tabù, è un’uscita dal sacro. E così i terapeuti ignari di questa storia spingono i pazienti verso un nuovo che non sanno pensare, e se la prendono con i pazienti, con sé stessi e soprattutto con padri e madri. Dimenticando che sono gli stessi genitori che, bene o male che sia, portano a casa il pane per i figli stessi e, se l’intervento è nel privato, pagano la psicoterapia.
Gilberto Di Petta parla di quella necessità di incontrare il familiare in un dialogo che riporti senso, in un’epoca dove alla famiglia di potere e capacità di significazione ne è rimasta poca o niente.
Immagino una differenza tra il mio modo di lavorare e le riflessioni di Pontalti e di Di Petta. Loro sono alfieri della lentezza, io sono da sempre posseduto dal demone della velocità. Dall’ossessione dell’efficacia. Che mi dice: se riesci a curare quel paziente un po’ più velocemente di quanto è stato fatto finora, gli hai donato tempo di salute e orizzonti di vita lievi e luminosi. È una gara buona, è la gara della medicina in fondo, no? Vogliamo terapie che superino per efficacia quelle esistenti e abbiano meno effetti collaterali. Dell’importanza del modello medico nella cura della malattia mentale si dice sempre troppo poco.
Eppure forse Pontalti, Di Petta e io anche in questo non siamo così lontani. Perché chi cerca velocità ed efficacia può ottenerle solo attraverso una conoscenza profonda, acuta e accurata dei processi di attribuzione di significato di quella persona. Quello che non conosci oggi, quello che non conosci insieme al paziente oggi, ti sarà di ostacolo nel cambiamento sintomatico e sociale domani. La diagnosi in questo senso è per me un bene, purché sia pensata per lo scopo a cui serve: ricondurre il nuovo al noto, l’individuo alla categoria, unica forma che la mente umana ha di accumulare e trasmettere conoscenza. Perché se no, se con ogni paziente avessimo un incontro unico e irripetibile, su quali fondamenta poggerebbe il nostro intervento. Ricostruita la diagnosi però scopriamo la persona, la sua unicità e soprattutto il suo essere sano, perché la malattia è solo un personaggio nel teatro interno di ognuno di noi e il terapeuta, gli altri personaggi, deve scoprirli, stanarli e invitarli a dire la loro al centro del palco. Lì la psicoterapia è scoperta della salute, dell’orizzonte nuovo e della creatività. I clinici di oggi usano la diagnosi spesso come modo per esternalizzare la responsabilità del cambiamento. Hai subito un trauma: non c’è niente che non vada nei tuoi processi di significazione. Devi solo elaborare un qualcosa su cui non hai mai avuto potere. Hai una neurodivergenza. Non c’è niente che non vada nei tuoi processi di significazione, hai solo bisogno di una società che si accomodi a te o del farmaco giusto.
E invece la diagnosi è alleviare la colpa del dolore, la colpa che ha il paziente, la colpa che addossiamo ai familiari. E poi la terapia è assunzione condivisa della responsabilità della cura, il cambiamento richiede scommessa sul nuovo, richiede fatica, richiede azione.