RecensioniSalute mentale

Recensione de “L’io diviso” di R. Laing

Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non
giocare un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare,
infrangerei le regole e mi puniranno.
Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco.

In lui c’è qualcosa che non va
perché crede
che in noi ci sia qualcosa che non va
per il fatto che cerchiamo di aiutarlo a vedere
che ci dev’esser qualcosa in lui che non va
a credere e che ci sia qualcosa in noi che non va
per il fatto che cerchiamo di aiutarlo a vedere che
lo stiamo aiutando
a vedere che
non lo stiamo perseguitando
aiutandolo
a vedere che non lo stiamo perseguitando
aiutandolo
a vedere che
si rifiuta di vedere
che c’è qualcosa in lui
che non va
a non vedere che c’è qualcosa in lui
che non va.

L’impressione che si ha nel leggere L’io diviso di Ronald D. Laing è quella di una sorta di Bildungsroman alla rovescia, dove si accompagna il lettore in un percorso di progressivo declino verso la schizofrenia. Il protagonista non è uno ma molti, le avventure sono i regni di una fantasia apocalittica, e non vi è maturazione in questo viaggio ma un decorso aporetico all’interno di nodi (Laing, 1970) che avviluppano il vissuto esistenziale del soggetto. Gli sviluppi psicotici del soggetto sorgono nel momento in cui egli si appella ad un tentativo disperato di voler vivere.

Nella fenomenologia esistenziale si può intendere la deriva schizofrenica come un progressivo grado di «divergenza esistente fra due persone» (Laing, 1969) il cui sguardo oggettivo, incarnato dal soggetto sano, non riesce a predisporre un terreno di senso comune per l’intersoggettività.

Si fallisce l’obiettivo dell’essere con altri, la dimensione del Leib, ossia il corpo vivente e garante di un territorio comune su cui esperire la fattualità del mondo, diventa vuoto: l’io non coincide più col suo corpo, diventando un terreno arido su cui si imprimono e manifestano le grandi contraddizioni.

Quest’ultime sono evocate dalle azioni ma soprattutto dal linguaggio sui generis e sottendono ad una Weltanschaung che, qualora decidessimo di porgerle ascolto, svelerebbe l’esperienza del soggetto da uno sguardo interno. Tramite una complice verstehen, cioè una comprensione dall’interno di diltheyana memoria si può sperare di giungere al nucleo veritativo e al significato segreto celato dietro i deliri del soggetto schizofrenico.

Wittgenstein nel Tractatus aveva chiaro come “i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Che mondo è essenzialmente quello di un soggetto schizofrenico, quando asserisce di andare a fuoco, di essere immateriale e di non esistere? Cosa scatena la disperazione per la fine del mondo che il soggetto sente imminente?

L’esperienza che il soggetto ci offre è quella di una sofferenza estrema, il cui massimo comune denominatore di ogni delirio è il senso di morte. Ma la morte non si esperisce in senso letterale, la morte è un’esperienza impossibile per i vivi. Eppure, il panico e l’angoscia del soggetto sono autentici, egli è certo di ciò che prova.

Se si volesse compiere un’opera di genealogia dei processi psicotici, da dove bisogna cominciare?

Se nella formazione dell’identità, la solidità di un individuo è data dalla sua sicurezza di essere nel mondo, assistiamo di contro ad una soggettività ontologicamente insicura, non in grado di riconoscere i confini tra sé e il mondo. La grande dicotomia tra il sé e l’altro da sé vacilla, a causa di un misconoscimento primario dove il bambino, non essendosi riconosciuto come individuo, non raggiunge la possibilità di potersi pensare autonomamente.

L’insicurezza ontologica di base e il sistema del falso io

L’esempio che Laing propone per spiegare i due vissuti esistenziali di due soggetti contrapposti in tal senso, è dato dall’esperienza della sofferenza dei personaggi del mondo di Shakespeare e di Kafka. I tumulti interiori che si riversano in parole di disperazione in un personaggio come Macbeth, possono nascondersi dietro la luce delle stelle, ma mai Macbeth potrà avere dubbi su dove finisce la sua figura e la notte stellata. La sua soggettività rimane coesa nell’esperienza del male.

«nella cella di Shakespeare in quale miglior compagnia ci si ritrova! I capitani e i re, gli amanti e i buffoni di Shakespeare sono vivi e completi fino all’ora della morte. Ma in Kafka qualcosa di terribile è stato fatto e condannati già molto tempo prima che la sentenza venga eseguita. Essi sono stati spogliati di tutto quello che si dice all’uomo, tranne la sua astratta umanità, che però come i loro scheletri, non gli si addice mai del tutto. Senza parenti, senza casa, senza moglie o figli, senza appetito» (Laing, 1969).

Basta pensare alle esistenze esiziali subite dai due protagonisti delle Metamorfosi o de Il processo: è la condizione di chi “vive senza sentirsi vivo” aggiunge Laing nella pagina seguente. La soggettività si liquefa, l’identità vien meno, scivola via dai personaggi.

Dunque, il mondo fuori da sé non sarà un campo i cui eventi rimarranno discreti, ma dardi esplosivi da cui il soggetto dovrà difendersi.

Per comprendere meglio la differenza esistenziale tra i due soggetti si possono immaginare due sagome disegnate su un foglio: la prima sagoma disegna senza aperture ma con continuità la figura dell’omino. La seconda invece tratteggia la silhouette della sagoma. Ammesso che l’inchiostro con cui si son disegnate le figure è impermeabile all’acqua, se si versa sul foglio una tinta di acquerello, solo la seconda figura stilizzata verrà invasa dalla tinta proveniente dall’esterno. Di conseguenza, il suo statuto ontologico ha subito dei cambiamenti, in un certo senso si può dire che l’io del secondo omino ha subito un “attacco” dal mondo esterno.

A contatto con questi frangenti di mondo il soggetto combatterà per non essere completamente risucchiato, tant’è che in una condizione di insicurezza ontologica di base le stesse parole di un dibattito possono diventare lame che incidono la carne: la perdita in un dibattito non è, alla peggio, l’accettazione di una sconfitta, ma è la messa a morte di un soggetto che lottava per la sua stessa vita. L’insicurezza fa esperire il mondo come un pericolo, una minaccia, un bacino di violenza. Per non svanire nel nulla, la condizione precipua per essere con l’altro è un senso solido e autonomo della propria identità, perdere questa identità equivale a sentirsi strappati via dal proprio sé.

Anche il senso di implosione, come altra forma di ansia esistenziale, riprende il senso di dissoluzione interiore, mentre la pietrificazione richiama il mito di Perseo. Lo sguardo di medusa pietrifica, uccide l’altro trasformandolo in un oggetto inerme, il pericolo dello sguardo dell’altro minaccia la soggettività non oggettificabile dell’individuo ontologicamente insicuro. Ma questo atto di reificazione può anche essere compiuto come atto di difesa: con un atto magico posso uccidere la vita che è nell’altro neutralizzando così la pericolosità del mondo.

Per questi soggetti, una delle forme più violente che minacciano la loro esistenza è l’amore, percepita come una forma di odio, poiché gli occhi dell’amore proiettano lo sguardo più intenso e penetrante. Come diceva Sartre, vale l’affermazione “l’inferno sono gli altri” il mondo diventa scenario di persecuzioni che minacciano il soggetto di essere derubato, rapito o ucciso.

L’isolamento allora diventa il tentativo di scindere il proprio sé dallo sguardo degli altri. Il soggetto può erigere una fortezza inespugnabile, e mettere come guardia all’esterno un cavaliere, un fantino-fantoccio che gestisce il corpo e le sue dinamiche col mondo. Così facendo il vero io si assicura l’incolumità a prezzo di ritirarsi dall’esistenza.

La contraddizione di fondo di tutto ciò risiede nel contraccolpo che questo pharmakon nasconde: la cura diventa presto il veleno: nel cercare di vivere, si muore sempre di più. Il vero io, recluso all’interno, vive nel suo regno di immaginazioni e fantasie, e non nutrendosi grazie all’altro da lui intrattiene un rapporto autistico in sé stesso[1]. E come riporta Laing citando Sartre, «se una persona non agisce nella realtà, ma solo nella fantasia, diventa essa stessa irreale» (Laing, 1969). Quale miglior meccanismo di difesa se non il giocare con la dicotomia sfondo-figura e rendersi più simili ad un anonimo sfondo per poter non essere visti, con l’illusione però, che il senso d’ansia e vulnerabilità spariranno, non accorgendosi che sarà egli stesso a svanire. Laing cita il gioco di una sua paziente, dove vale l’esse est percipi: dovendo attraversare una zona silvestre, per paura di venire attaccata giocava magicamente a confondersi con lo sfondo.

La conseguenza è che l’io si irrealizza sempre di più giungendo progressivamente ad uno stato psicotico, dove paradossalmente il tentativo è di tenersi coesi alla realtà cercando di restituirle un senso, una sensazione, nonostante il corpo inabitato.

L’insorgere della psicosi

Fasi di psicosi acuta invece insorgono nel momento in cui nella progressiva perdita e morte dell’io, ci si si impoverisce fino a morire, caricandosi di odio, paura e invidia. Il sistema del falso io acquisendo maggiori dimensioni diventa autonomo, e in questa accelerazione iperbolica di allontanamento dal mondo si viene disturbati da frammenti di attività involontaria.

Parallelamente al distacco dal mondo c’è l’incremento del senso di vuotezza, dove il corpo è come in balia degli altri. Questo io vuoto è dunque vorace e cerca con altrettante forme magiche di riottenere contatto con il mondo. La paura di perdersi che consegue questo percorso è un inemendabile aut aut: il soggetto si trova a dover decidere se uccidere definitivamente l’io o venire al mondo. Ma decidendo di svelarsi senza maschere, elidendo la distanza tra l’io e il falso io, si svelano i primi episodi di psicosi.

Ma ritornando al discorso sul contenuto di verità che questo modo di stare al mondo comporta:

 «La psicosi diventa comprensibile quando, è soltanto allora si riesca a raccogliere dallo stesso paziente la storia del suo io, anziché la solita anamnesi psichiatrica che di solito si raccoglie in questi casi, e cioè la storia del sistema del falso io» (Laing, 1969).

Se si segue la storia personale del soggetto, seguendo il vissuto esistenziale del suo io, le contraddizioni del linguaggio si colorano di senso. Espressioni come “ci sono due me”, “lei è un io che cerca un me” come riporta Laing, manifestano la frammentazione in io più meno autonomi che emergono reciprocamente. A questo punto il paradosso risulta evidente, la strategia dello schizofrenico è la negazione dell’essere come strumento per la conservazione dell’essere, la morte esistenziale diventa il modo prevalente dell’essere nel mondo.

Se si è già morti non ci può essere pericolo di essere uccisi, la negazione dell’essere per conservare l’essere è la contraddizione che fa da sfondo e su cui si abbarbica il soggetto. Le intrusioni psicotiche allora sono gridi di chi si ribella allo stesso desiderio implicito di nascondersi e morire.

L’interruzione del percorso di un “io” che non sa trovare un “me”, sottolinea l’importanza dei primi stadi dello sviluppo. Nell’ultimo caso clinico che Laing propone, il caso di Giulia, ci sono due possibili itinerari: ascoltare il resoconto presentato dalla madre che coincide con il falso io candido di Giulia, o ascoltare l’io autentico della ragazza, considerato “cattivo” per i suoi episodi di odio e violenza. L’io di Giulia racconta un’esistenza troncata: una madre opprimente che non l’ha lasciata vivere, e uccidendola l’ha resa il fantasma di sé stessa. Se era buona e dolce era solo perché non era altro che un corpo obbediente, nella sua trasparenza a sé stessa poteva confondersi, del resto, con tutto ciò che la circonda.

Per avviarsi alla conclusione, un’ultima domanda che sorge dalla lettura di questo testo è se sia possibile un percorso a ritroso, recuperare il soggetto dai suoi labirinti e retrocedere da questo percorso de-formativo. Anche in casi di soggetti con psicosi cronicizzate sono presenti momenti di lucidità, momenti dove i soggetti sanno darsi un valore oltre al senso di colpa, e dunque di riconoscersi come esistenti. Ciò che il testo mostra è il carattere “umano, troppo umano” dello schizofrenico, nella misura in cui tutta la nostra esistenza è chiamata in causa: quanto comuni possono essere il senso di insicurezza, l’ansia, o una iperbolica paranoia?  Forse la differenza sottile che emerge dal testo, tra il provare tutto ciò ed esserne divorati, è rimanere agganciati a quel common sense delle cose che sottrae il soggetto dai cortocircuiti di una realtà idealistica dell’esse est percipi. Il passo indebito tra una visione del mondo e l’altra è invisibile, il ritiro dal mondo ha la stessa dolcezza del canto delle sirene. Lasciarsi vivere osservando una fiaccola la cui luce diventa sempre più fioca, con il terrore per l’imminente ultimo grande atto di violenza, è la fine del proprio io. Ma forse la fine del (proprio) mondo è necessaria, e la guarigione passa tramite episodi di sofferenza inenarrabile proprio perché è faticosa la conversione dal non essere all’essere, dall’odio verso sé stessi al sapersi amare.

Bibliografia:

Laing, R. D., (1970). Knot, Tavistock publications Ltd, London. Trad. it. Pennati, C., “Nodi. Paradigmi di rapporti intrapsichici e interpersonali”, Torino. Einaudi, 1974.

Laing, R. D. (1959). The divided Self, Tavistock publications Ltd, London. Trad. it. Mezzacapa, D., “L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale”, Torino, Einaudi, 1959.

Sartre, J. P., (1943). L’Être et le Néant: Essai d’ontologie phénoménologique, ÉditionsGallimard, Paris. Trad. it. Del Bo, G., “L’essere e il nulla, la condizione umana secondo l’esistenzialismo”, Milano, Il Saggiatore, 2014.


[1] «il mio legame fondamentale con altri-soggetto deve poter essere ricondotto alla mia possibilità continua di essere visto da altri. Proprio in e per la rivelazione del mio essere-soggetto per altri, devo poter cogliere la presenza del suo essere-soggetto. Perché, come altri è per me-soggetto un oggetto probabile, allo stesso modo io non posso scoprirmi sul punto di diventare oggetto probabile, se non per un soggetto certo». (Sartre, 2014).

Jenny Agostino

Laureata in filosofia presso l’Università degli studi di Torino. Attualmente studia filosofia teorica a Torino con un interesse verso la psichiatria fenomenologica e la filosofia esistenziale, soffermandosi su autori come Sartre, Heidegger, Laing e sulle ricerche contemporanee sulle psicosi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Back to top button