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La fenomenologia critica e militante di Franco Basaglia

Preliminari di integrazione con la fenomenologia clinica della Scuola Italiana

Il presente articolo è in corso di pubblicazione su Adombramenti – Rivista di Psicologia Fenomenologica n. 1 (2024), pp. 19-43 in uscita a dicembre sul sito del nostro Centro Studi psicofen.com

Il numero 0 di Adombramenti – Rivista di Psicologia Fenomenologica è invece già disponibile al seguente link: https://psicofen.com/adombramenti/


Abstract:

Come sostenuto già da molti, l’opera di Franco Basaglia si configura come una riflessione pienamente radicata nella prospettiva fenomenologica. In particolare, quella di Basaglia può essere definita una fenomenologia critica e militante, che si articola su un livello epistemologico, uno metodologico e uno clinico. L’attuale riscoperta, a cent’anni dalla nascita di Basaglia, delle radici fenomenologiche del suo pensiero permette di aprire un nuovo dialogo tra il movimento della deistituzionalizzazione e quello della fenomenologia clinica, con importanti risvolti sulla costruzione di nuove prassi terapeutiche che non si conformino al mainstream tecnico-burocratico-riabilitativo.

Introduzione

La vita e l’opera di Franco Basaglia costituiscono, nella loro totalità, una grande avventura intellettuale, politica e scientifica, su cui oggi, a cent’anni dalla sua nascita, si continua ancora giustamente a scrivere e a riflettere (Colucci, Di Vittorio, 2024; Novello, Gallio, 2024; Peloso, 2023; Cipriano, 2018; Pivetta, 2012). Non si sottolineerà mai abbastanza l’impatto che la sua passione rivoluzionaria ha avuto sulla psichiatria italiana, che all’inizio degli anni ‘60 restava, per la maggior parte, ingessata su posizioni di riduzionismo organicista o di controllo sociale (Giannelli, 2007). Alcuni aspetti dell’avventura che ha condotto Basaglia a concepire (e poi a realizzare) la distruzione del manicomio in Italia, restano tuttavia ancora da esplorare. Uno di questi, ancora troppo in ombra, è certamente il rapporto che il pensiero basagliano – forse faremmo meglio a dire il non-pensiero basagliano[1] – ha intrattenuto con la fenomenologia e con la psichiatria fenomenologica. Di seguito, seguendo le tracce di alcuni degli autori più importanti che hanno fino ad oggi affrontato l’argomento, vogliamo proporre una riflessione sul rapporto tra il movimento della deistituzionalizzazione e quello della fenomenologia clinica, sostenendo la tesi che il non-pensiero di Franco Basaglia sia autenticamente fenomenologico, caratterizzato da alcuni aspetti particolari, e che sia necessario riarticolarlo con la corrente della fenomenologia clinica al fine di scongiurare la catastrofe che incombe sulla ‘utopia’ italiana.

Basaglia fenomenologo?

A tal proposito, alcune pagine importanti sono state scritte nel libro All’ombra dei ciliegi giapponesi di Antonio Slavich (allievo diretto di Basaglia), che nel 2018 metteva in evidenza i punti di contatto e di distanza tra Basaglia e i fenomenologi della sua epoca. In particolare, Slavich ricorda che la riflessione dello psichiatra veneziano – come dimostrano i suoi primi scritti sul corpo e sulla malafede (Basaglia, 1964; 1965; 1967) – ha preso le mosse dalla psicopatologia fenomenologica, che con lui ha assunto la forma di una psichiatra dal sapore rivoluzionario.

Questo stesso testo, tuttavia, rimproverava alla psicopatologia fenomenologica di esser rimasta sospesa tra i libri, rinchiusa negli studi e nelle biblioteche degli psichiatri che la praticarono, troppo distante, secondo l’autore, dai pazienti che all’epoca dei manicomi avevano ancora bisogno di tutto, per prima cosa di diritti, poi di ascolto, di cure, di lavoro. Non è stata l’umanità a mancare ai fenomenologi – dice Slavich – né la profondità di pensiero, quanto piuttosto il coraggio di mettere radicalmente in discussione i sistemi di cura nei quali hanno comunque fatto del loro meglio. Coraggio che invece non è certamente mancato a Basaglia e a coloro i quali hanno sostenuto quel profondo percorso di trasformazione culturale che ha portato fino alla legge 180 del ‘78[2] cavalcando l’onda di un contesto politico favorevole. 

Come già accennato, nel Secondo dopoguerra la psichiatria italiana praticamente non esisteva, se non come neuropsichiatria o “Clinica delle malattie nervose e mentali”. A differenza di quanto accaduto in Francia ed in Germania, nel nostro Paese la psichiatria non ha mai strutturato un suo statuto epistemologico. La Psicopatologia Generale di Jaspers è stata tradotta solo nel 1964 (in Francia già nel 1928). Nelle università la psichiatria si è differenziata dalla neurologia solo nel 1976, ma in cattedra sono andati i neurologi di “serie B”. A partire dal 1980, anno della morte di Basaglia e della diffusione del DSM-III, la psichiatria italiana, almeno quella neonata accademica, ha abbracciato in toto il passaggio da un retrivo organicismo ad un neuroscientismo acritico. L’impalcatura nosografica da quel momento in poi ha liquidato tutto il discernimento psicopatologico. Da allora gli psicofarmaci hanno dilagato. Il territorio, appena costituito dopo la Legge 180 del ‘78, è andato incontro – tranne che a Trieste ed in alcune realtà dell’Emilia-Romagna e della Toscana – ad una lenta e inesorabile involuzione, caratterizzata dalla caduta dello slancio e dall’accettazione acritica delle direttive imposte dalle case farmaceutiche, o dalla vulgata dei neuroscienziati dell’Università. Spenta la voce di Franco Basaglia, negli ultimi sessant’anni solo gli psichiatri fenomenologi, rinunciando alle carriere accademiche, hanno dedicato la propria vita alla mission di tenere viva l’idea di un’altra psichiatria. Ovvero della psichiatria continentale europea che si ritrova nel filantropismo umanistico ed illuministico di Pinel piuttosto che nel cerebralismo di Chiarugi. Di tutto questo Slavich non tiene conto, come non tiene conto che la pura prassi non sostanziata da un lavoro di pensiero, si dissolve come un pugno di cenere nel vento, lasciando il campo conquistato alle forze neo-regressive. È forse tempo che iniziamo a interrogarci su come abbiamo disperso le ceneri di Basaglia?   

La crasi tra i basagliani e i fenomenologi

Al di là del rapporto contingente intercorso tra i fenomenologi italiani della seconda generazione[3] e Basaglia, il libro di Slavich[4] lascia in sospeso la questione delle radici fenomenologiche del discorso critico dello stesso Basaglia. Sarebbe stata necessaria una riflessione in grado di cogliere i nessi di senso tra la matrice fenomenologica del suo pensiero, acquisita negli anni ‘giovanili’ da Basaglia, e le prassi di liberazione da lui sviluppate nelle vesti di direttore (e distruttore) di manicomi. All’interno del nutrito gruppo di psichiatri e psicologi che lo seguirono nei primi anni di Gorizia, e poi a Parma e a Trieste, forse soltanto Franco Rotelli[5]avrebbe potuto assolvere a questo compito, essendo stato l’unico provvisto di una vera e propria formazione fenomenologica, come dimostrato dalla sua tesi di specializzazione del 1967 Un’analisi critica dei fondamenti epistemologici nella concezione di anormalità e psicopatia in Kurt Schneider (Rotelli, 2021, p. 181-193). È nel testo L’uomo e la cosa del 1983[6] che in effetti Rotelli proverà, in seguito, a sottolineare l’importanza della fenomenologia nell’opera di Basaglia, a tre anni appena dalla sua morte, aprendo un discorso che negli anni sarà portato avanti con costanza soltanto dal filosofo triestino Pier Aldo Rovatti (2019)[7] e dallo psichiatra Mario Colucci (2013)[8].

Questa connessione tra l’impostazione fenomenologica e il non-pensiero di Basaglia non è quindi sfuggita sin da subito ai pochi che erano in grado di coglierla. Bisognava stare in piedi in una difficile posizione a cavallo tra la tradizione filosofica scaturita da Husserl e il nascente movimento della deistituzionalizzazione. Non c’è neppure bisogno qui di spingerci all’estero – dove pure Ronald Laing e David Cooper con la loro proposta di una psichiatria a impostazione fenomenologico-esistenziale erano diventati importanti interlocutori per Basaglia[9] – per trovare qualche studioso in grado di riconoscere le radici fenomenologiche delle sue prassi. A sottolineare i contatti continui con la pattuglia fenomenologica italiana resta l’articolo Corpo, sguardo, silenziodi Basaglia, pubblicato per la prima volta su un numero di L’Evolution Psychiatrique organizzato da Bruno Callieri (1965)[10], uno dei rappresentanti della psicopatologia fenomenologica di quegli anni. L’esitazione dei pochi psichiatri fenomenologi dell’epoca, più che da riferire a una mancanza di coraggio ha forse a che fare con il fatto che loro, tra l’ottimismo della volontà ed il pessimismo della ragione, hanno sostato di più su quest’ultima sponda. 

Le rivoluzioni diventano istituzioni

Potremmo dire che, fino ad oggi, una sorta di disturbo di sintonizzazione non ha fatto emergere quel dialogo che pure sarebbe stato possibile tra la fenomenologia clinica e il movimento della deistituzionalizzazione. Come iniziamo a vedere ciò è dipeso da vari fattori. Uno tra tutti è stato la distanza tra la forte propensione all’azione degli psichiatri che hanno seguito le orme di Basaglia e la posizione tradizionalmente più riflessiva dei fenomenologi. Queste due caratteristiche, all’apparenza tanto diverse da sembrare opposte, sono in realtà due facce di una stessa medaglia. Ogni autentica relazione curante ha in sé questi due momenti, quello riflessivo e quello trasformativo. Non ci si può prender cura di un paziente, di un intero servizio di salute mentale o di una comunità terapeutica seguendo soltanto il proprio slancio vitale e trasformativo, ma c’è bisogno di riflettere, innanzitutto su di sé, sulla propria posizione, sulle proprie pratiche. Allo stesso modo, non si può non ingaggiarsi in un ‘fare’ continuamente teso al cambiamento delle reali condizioni di vita dell’altro, altrimenti si rischia di rimanere sospesi in un limbo speculativo vuoto o estetizzante[11].

Questa distanza, foriera di sventura, tra due movimenti così importanti per la psichiatria e la psicopatologia italiane, sembra si vada riducendo negli ultimi anni grazie al dialogo aperto da alcuni[12]. A sancire la definitiva riapertura di questo canale di comunicazione è arrivato quest’anno un testo, ricco di spunti di riflessione, a cura di Mario Novello e Giovanna Gallio, intitolato Franco Basaglia e la psichiatria fenomenologica. Ipotesi e materiali di lettura. Il libro esplora a fondo i rapporti tra il pensiero di Basaglia e la cultura fenomenologica da cui esso è emerso. Nella prima parte Novello muove le mosse da alcune domande fondamentali: 

“L’esperienza di Basaglia, che già nella prima metà degli anni ’60 preconizzava la ‘distruzione dell’ospedale psichiatrico’, sarebbe stata pensabile senza la sua formazione fenomenologica? La chiusura del manicomio sarebbe stata possibile o impossibile?” (Novello, 2024, p. 32).

Attraverso un percorso di letture approfondito che parte dalla Daseinanalyse di Binswanger e passa per la filosofia fenomenologica di Husserl, di Heidegger e di Paci, Novello mette in evidenza le continue connessioni e i rimandi che gli scritti di Basaglia mantengono aperti con queste tradizioni di pensiero. La conclusione cui giunge è che “tutta l’opera di Basaglia è attraversata in profondità dall’esercizio dell’epoché, e che senza il rigore – epistemologico ed etico – che aveva acquisito nei suoi studi fenomenologici, non sarebbe stato in grado di pensare e di realizzare la fine del manicomio” (Ibidem, p. 106). Il testo riesce a mettere bene in evidenza come molti dei principi e delle categorie di pensiero che hanno reso possibile la distruzione del manicomio e la Legge 180 sono state espressione diretta delle prospettive aperte dalla psichiatria fenomenologica che Basaglia aveva respirato ed assimilato negli anni della sua solitaria ricerca universitaria. Come continua Novello, attraverso Basaglia la fenomenologia si è tradotta “in linee guida e progettualità concrete, diventando efficaci parole d’ordine nella dimensione di un lavoro collettivo” (Ibidem). 

In qualche modo il testo mostra il modo in cui la fenomenologia, più come atteggiamento che come teoria consapevole, ha permeato, e continui a farlo, le sensibilità, gli stili di lavoro e le prassi terapeutiche degli operatori dei servizi, delle associazioni e delle cooperative che negli anni hanno portato avanti quel principio di territorialità diffusa nato con la Legge 180. Ciò non impedisce a Novello di rimanere critico rispetto alla posizione, ritenuta di eccessiva chiusura, della fenomenologia clinica italiana, che dal suo punto di vista dovrebbe farsi maggiormente contaminare dai linguaggi e dalle pratiche che nascono dal basso, cioè dalla vita quotidiana dei servizi, degli operatori e dei pazienti. Novello sembra però trascurare il fatto che tra la seconda e la terza generazione della fenomenologia clinica italiana non mettiamo dieci psichiatri in fila, e nessuno con posizioni di apicali all’interno delle istituzioni. È soprattutto per questo motivo che la fenomenologia ha scarsamente influenzato – in maniera esplicita – le prassi cliniche e viceversa. Anche in ambito universitario la presenza dei fenomenologi è stata finora irrilevante a causa dell’atteggiamento di chiusura che l’Accademia ha avuto nei confronti di chi non sottostava alla logica del conformismo riduzionista[13]. A tal punto è stata scarsa la presenza dei fenomenologi nelle università che alcuni li hanno giustamente definiti “maestri senza cattedra” (Rossi Monti, Cangiotti, 2012).  Lo stesso destino è toccato in sorte a Basaglia, soprannominato “il filosofo” dagli accademici (quelli sì veramente reazionari) del suo tempo. 

Una seconda domanda, se possibile più complessa e ancora più calzante della prima per il nostro discorso, percorre le pagine del testo:

“Nella crisi in cui versano attualmente i servizi di salute mentale e la psichiatria nel suo complesso, l’orientamento antropo-fenomenologico può avere ancora un senso? Può cioè fornire visioni, idee e strumenti di cambiamento, o è solo un ricordo suggestivo del passato e niente di piò? (…) Fino a che punto la fenomenologia può confrontarsi e dialogare con le più recenti acquisizioni e i sistemi attuali di trattamento della malattia mentale nel territorio, al di fuori di uno spazio clinico chiuso o predefinito?” (Novello, 2024, p. 33).

A questa domanda, così aperta sul presente e sul futuro della psichiatria italiana è difficile dare una risposta netta e definitiva. Nel momento di profonda crisi di risorse e di cultura che i servizi si trovano a vivere (Di Petta, 2023; Giannelli, 2007), con “il progressivo definanziamento delle attività per la salute mentale e il depauperamento quantitativo e motivazionale del personale” (Starace, 2024, p. 9), l’intero sistema pubblico di welfare è messo radicalmente in discussione. In tempi come questi è facile per gli operatori della salute mentale rifugiarsi in un riduzionismo biologico che solleva dal peso esistenziale che la sofferenza mentale porta sempre con sé. Così l’ospedale psichiatrico distrutto da Basaglia uscito dalla porta rientra dalla finestra, tornando a farsi presente sotto forme striscianti come quella del manicomio chimico e attraverso politiche di esclusione che puntano dritto a soluzioni di tipo custodialistico o di mera gestione della crisi (Cipriano, 2023). L’esito sconfortante di mezzo secolo di utopia riformistica e rivoluzionaria ha visto, soprattutto con l’inizio del nuovo millennio, l’inertizzazione progressiva ed il blocco dello slancio trasformativo. Il mantra sartiano-basagliano delle rivoluzioni che diventano istituzioni è risultato essere una profezia autoavverantesi. A leggere l’ultimo rapporto SIEP curato da Fabrizio Starace (2024), l’unico trattamento realmente garantito ai pazienti psicotici in Italia sembra essere quello farmacologico (Starace, 2024). Le équipe si sono dileguate. L’età degli operatori è avanzata. La formazione universitaria degli specializzandi in psichiatria è appiattita sul binomio nosografia-farmaci. Gli psicologi non hanno ricevuto alcun invito ad entrare nei servizi pubblici, e i fondi stanziati per le loro attività sono almeno dieci volte inferiori a quanto accade nei paesi ad alto reddito, di cui l’Italia fa comunque parte. In un quadro così desolante – nella migliore delle ipotesi asservito ai modelli della Global Mental Health anglosassone e della Recovery – il pensiero di Basaglia, come hanno scritto icasticamente Colucci e Di Vittorio (2001; 2024), appare come un meteorite di ritorno da un altro pianeta. Va detto che in mezzo secolo la società è cambiata e non nel senso auspicato da Basaglia: il capitalismo ha divorato tutte le istanze collettivistiche e solidaristiche degli anni ’60 e ’70; le famiglie si sono disgregate (Pontalti, 2019); sono caduti sull’ultima curva del nichilismo tutti i valori su cui si fondava la società (partiti, religione, culture di riferimento); si sono affacciate forme psicopatologiche nuove e pervasive come i disturbi borderline (Di Petta, Billeci, 2024); si è diffuso l’uso pervasivo di stupefacenti sintetici e di disturbi comportamentali legati all’allungamento della vita; è emerso il problema degli autori di reato con salienza psicopatologica (L.81/14).    

Una renaissance della fenomenologia?

In questo contesto è quanto mai auspicabile la diffusione di quel sistema di valori e conoscenze che la fenomenologia ha sempre proposto come alternativa ad ogni riduzionismo biologicista e psicologicista, mantenendo accesa, a dispetto della sferzante critica di alcuni, una fiaccola controvento. La sfida che in questo senso la fenomenologia clinica dovrà affrontare nei prossimi anni è quella di trovare un modo per confrontarsi con la pratica in senso bottom-up, a partire cioè dai servizi e dalle comunità, per reintrodurre una prassi pensante contro quella acefala dei protocolli, delle linee guida informate al DSM di turno. 

La seconda parte del libro, a cura di Giovanna Gallio, si mette invece sulle tracce del rapporto, umano ed intellettuale, che Basaglia ha intrattenuto con colui che riteneva il suo vero Maestro: Jean-Paul Sartre, uno dei più importanti fenomenologi del Novecento. È dal mâitre à penser francese che Basaglia trae ispirazione per i suoi primi scritti di impostazione fenomenologica, come in Ansia e malafede del 1963 nel quale è esplicito il rimando a Sartre; è ancora da lui che prende le mosse, anche quando non fa riferimenti diretti[14], nei suoi testi più famosi come Che cos’è la psichiatria? (1967). Possiamo dire che la fenomenologia di Sartre, fondatore dell’esistenzialismo francese[15], ha in qualche modo permeato tutta l’opera dello psichiatra veneziano, andando a costituire con i suoi concetti una sorta di fondamento del pensiero che ha permesso poi a Basaglia di giungere alle proprie originali conclusioni in campo psichiatrico:

“Grazie al maestro-filosofo Basaglia si libera di sé stesso come psichiatra-filosofo: inventa un proprio linguaggio originale, pieno di architetture e figure del pensiero: (…) impalcature provvisorie costruite per passare velocemente da un concetto all’altro, in un campo discorsivo che diventa sempre più eterogeneo, affollato da una pluralità di soggetti e di posizioni che dialogano e si scontrano fra loro” (Gallio, 2024, pp. 145-146).

In effetti, a ben leggere tra le pagine dei suoi libri, sembra che Basaglia sviluppi le proprie teorie e le proprie prassi attraverso concetti sartriani come dialettica, critica ed azione. Ed è proprio alle ricadute pratiche e trasformative del suo pensiero che Basaglia dedica una particolare attenzione. Piuttosto che indugiare in riflessioni filosofiche meramente speculative, la lezione più importante che forse Basaglia apprende da Sartre è una costante tensione pratica: il pensiero deve sempre declinarsi in azioni coerenti nel mondo, che rendano l’intellettuale non un pensatore rinchiuso nella propria turris eburnea quanto piuttosto un uomo pienamente consapevole ed impegnato dal punto di vista sociale e politico[16]. Questa necessità di tradurre il pensiero in azione, che per Sartre va a braccetto con la questione della responsabilità personale, sarà uno dei marchi distintivi del cammino rivoluzionario del movimento della deistituzionalizzazione in Italia. A questa attenzione alla costruzione di prassi trasformative la fenomenologia clinica deve guardare per avvicinarsi a quell’ideale di Engaged Phenomenology, che vuole riflettere sull’esperienza vissuta attraverso il dialogo con altre discipline nel contesto pratico della loro applicazione, anche (e forse soprattutto) al di fuori dall’ambito accademico (Stainier, 2022).

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Il presente articolo è in corso di pubblicazione su Adombramenti – Rivista di Psicologia Fenomenologica n. 1 (2024), pp. 19-43 in uscita a dicembre sul sito del nostro Centro Studi psicofen.com

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Note:

[1] Quello di Basaglia può essere definito un non-pensiero in quanto resta costantemente critico rispetto alla possibilità di pervenire a concetti definiti una volta per tutte. Il rischio di chiudersi in modelli e ideologie precostituite lo fa rimanere costantemente inquieto, critico, in trasformazione. A tal proposito, durante le sue conferenze e nei suoi scritti Basaglia riporta spesso l’aforismo sartriano “le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte”.

[2] Nel 2019, per il quarantennale della cosiddetta Legge Basaglia, Psicofen ha organizzato con Peppe Dell’Acqua un seminario nel qual si sono discusse proprio le influenze reciproche tra la fenomenologia clinica e il movimento della deistituzionalizzazione, provando a riaprire dal vivo un dialogo da troppo tempo interrotto. Come ha poi ricordato Dell’Acqua sul Forum per la salute mentale, quell’evento ci ha permesso di riaprire un ponte che questo articolo vuole continuare a percorrere: “Tempo fa a Salerno che è la mia città, alla presenza anche di mio figlio Andrea che fa un po’ riluttante il mio stesso mestiere, ho avuto l’opportunità di tenere una conferenza insieme a Gilberto Di Petta, psichiatra cultore della tradizione fenomenologica italiana, in una sede della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica. Mi aveva invitato Giuseppe Salerno, giovane psicologo attivo in quella scuola, manifestandomi una passione e un desiderio di conoscenza di quanto era accaduto, mi era accaduto, nel lavoro con Franco Basaglia” (https://www.news-forumsalutementale.it/una-lezione-per-frequentare-la-vicinanza-di-peppe-dellacqua). In quella sede, con amarezza, Peppe Dell’Acqua scoprì che nessuno dei più giovani sapeva chi fosse Marco Cavallo. 

[3] Tra gli altri vengono considerati rappresentanti della seconda generazione della psicopatologia fenomenologica italiana psichiatri del calibro di Arnaldo Ballerini (Firenze), Eugenio Borgna (Novara), Bruno Callieri (Roma), Lorenzo Calvi (Lecco), Luciano Del Pistoia (Lucca), Filippo Maria Ferro (Roma e Chieti), Giovanni Gozzetti (Padova). Con i suoi lavori di psicopatologia fenomenologica anche Franco Basaglia può essere considerato parte di questa seconda generazione di psicopatologi.

[4] A parere degli scriventi il giudizio di Slavich sugli psichiatri fenomenologi è gravato dal pregiudizio che in quegli anni, e in quella corrente, considerava gli intellettuali ‘reazionari’ per il semplice fatto di non essersi ingaggiati nella militanza rivoluzionaria. Identico ostracismo è toccato senza distinzioni a tutti gli psichiatri psicoanalisti. Va specificato che Cargnello, a cui si deve l’innesto della tradizione binswangeriana in Italia, era nato nel 1911, ed è uscito di scena professionalmente ben prima che il vento anti-istituzionale muovesse le acque stagne e ben prima dell’approvazione della Legge 180. All’epoca dirigeva l’Ospedale Psichiatrico di Brescia. Calvi, suo allievo, è invece rimasto primario neurologo per tutta la vita, senza avere mai coinvolgimento in Ospedale Psichiatrico. Bruno Callieri fino al 1978 ha diretto l’Ospedale Psichiatrico di Guidonia, che non era inserito nella rete degli Ospedali Psichiatrici Provinciali. Lo stesso Slavich scorpora dai fenomenologi ‘reazionari’ la posizione di Borgna, senza tuttavia chiarire con fatti concreti quale sia stata la sua militanza rivoluzionaria nel reparto femminile dell’Ospedale Psichiatrico di Novara. Per quanto riguarda Arnaldo Ballerini va detto che egli fu promotore della dismissione di molti pazienti dall’Ospedale Psichiatrico di San Salvi nel Valdarno, dove realizzò di fatto la psichiatria di settore francese, riuscendo ad ottenere un’area di ricovero per pazienti psichiatrici presso l’ospedale Serristori di Figline Valdarno. Luciano del Pistoia in quel periodo era a Parigi e a Strasburgo con Lanteri Laura. Se poi Slavich si riferisce ad altri fenomenologi bisogna capire chi fossero, poiché non ci risulta che il movimento fenomenologico sia stato così largamente rappresentato, soprattutto tra i direttori di Ospedale Psichiatrico.

[5] Franco Rotelli (1942-2023) è stato uno dei principali collaboratori di Basaglia negli anni della chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste e suo successore in quella stessa città.

[6] L’articolo di Rotelli è disponibile anche sul forum per la salute mentale: https://www.news-forumsalutementale.it/luomo-e-la-cosa/

[7] Rovatti raccoglierà un ciclo di seminari sull’argomento nel suo “Follia e paradosso. Seminari sul pensiero di Franco Basaglia”, riedito nel 2019 con il titolo “Le nostre oscillazioni. Follia e filosofia” pe la Collana 180 – Archivio critico per la salute mentale diretta da Peppe Dell’Acqua.

[8] Mario Colucci parla di fenomenologia in Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia di Rovatti P. A. (2013, pp. 59-69 e pp. 61-63).

[9] Laing e Cooper, fondatori e maggiori rappresentanti dell’antipsichiatria inglese, sosterranno apertamente le esperienze di chiusura dei manicomi di Gorizia e di Trieste e frequenteranno alcuni dei convegni organizzati da Basaglia in Italia. Anche Basaglia visiterà le comunità terapeutiche inglesi, in una prima fase accogliendo con entusiasmo le novità introdotte da queste ultime – al punto che nel 1970 scriverà insieme alla moglie Franca la prefazione all’edizione italiana del testo di Maxwel Jones Ideologia e pratica della psichiatria sociale di – per metterne in evidenza alcuni rischi in una seconda fase. A differenza di Basaglia, alla fine Laing e Cooper sceglieranno la strada del privato sociale per portare avanti i loro progetti comunitari in Inghilterra.

[10] Basaglia F. (1965) Corps, regard et silence. L’éinigme de la subjectivité en psychiatrie, in “L’Evolution Psychiatrique”, n. 1. Mario Gozzano, cugino del poeta Guido e direttore della cattedra di Malattie Nervose e Mentali dell’Umberto I di Roma, ricevette all’epoca direttamente da Eugene Minkowski l’incarico di organizzare un numero della prestigiosa rivista francese da lui diretta, dedicato alla più avanzata psichiatria italiana, quella fenomenologica. Bruno Callieri, allora assistente di Gozzano, non esitò a mettere su una piccola squadra di autori che rappresentasse la psichiatria fenomenologica italiana. Basaglia fu uno di questi. Insieme a lui, a quel numero parteciparono tra gli altri anche Cargnello, Calvi, Ey, Piro, Martis, Selvini e lo stesso Callieri. 

[11] Nei suoi scritti Basaglia muove alla psicopatologia fenomenologica una critica severa rispetto all’assunzione di una posizione meramente estetizzante: “L’essere-nel-mondo della fenomenologia rischia di costituirsi in un essere-nel-mondo-estetizzante, rinunciando all’epochizzazione e alla possibilità di costruire veramente l’uomo delirante nel suo mondo sociale” (Basaglia e Pirella, 2000, pp. 19-28).

[12] Oltre al già citato seminario con Peppe Dell’Acqua del 2019, Psicofen ha preso parte alla riapertura di questo dialogo con alcuni articoli a cura di Di Petta e Cipriano: “Fenomenologia e deistituzionalizzazione: lettera aperta a Piero Cipriano” (Di Petta, 2018) e “Controlettera aperta a Gilberto Di Petta” (Cipriano, 2018).

[13] Rossi Monti e Stanghellini, due dei maggiori esponenti della terza generazione italiana di fenomenologi clinici, sono andati in cattedra ma dentro le facoltà di Psicologia.

[14] Il nome di Sartre ricorre frequentemente nei lavori di Basaglia fino al 1967, per poi scomparire. Quello a cui si assiste non è un abbandono o un allontanamento dalle posizioni del filosofo francese, quanto piuttosto un’assimilazione. 

[15] Non possiamo qui approfondire le differenze fra l’esistenzialismo francese, di cui Sartre può essere ritenuto il principale rappresentante, e quello di Heidegger, ma vogliamo almeno ricordare il dibattito aperto tra Sartre e Heidegger che culminerà con il fondamentale L’esistenzialismo è un umanismo (1946). Per quanto riguarda Basaglia, come ci ricorda Benedetto Saraceno, possiamo parlare di un “esistenzialismo gramsciano”. Con questa definizione Saraceno si riferisce al fatto che Basaglia parte dallo sguardo soggettivante della fenomenologia per “aggiungerci un pezzo, che ha a che fare con la trasformazione della realtà, cioè che ha a che fare con la politica” (Saraceno, Psicologia Fenomenologica, 2024, 14 marzo, Che cos’è la salute mentale? https://www.youtube.com/watch?v=XyQID89C4z0). 

[16] In un’intervista dedicata a Basaglia del 2018 per il blog psicologiafenomenologica.it Piero Cipriano ha ricordato l’importanza della dell’impegno politico ed istituzionale per ogni operatore della salute mentale.

Giuseppe Salerno

Psicologo e psicoterapeuta ad orientamento fenomenologico, esperto in psicodiagnostica, diplomato in psicoterapia integrata a Napoli e in psicoterapia fenomenologico-dinamica a Firenze. Coordinatore della Cooperatariva Sociale Agape che si occupa di salute mentale a Salerno, ed editor in chief del blog psicologiafenomenologica.it. Socio fondatore della Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica. Attualmente lavora a Salerno come terapeuta individuale, di coppia e familiare.

Gilberto Di Petta

Psichiatra e psicopatologo di orientamento fenomenologico, è attualmente direttore della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica di Firenze e past-president della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica. Già Direttore dell’U.O. Doppia Diagnosi-Centro Giano ASL NA 2 Nord, è Dirigente Medico presso il SPDC del P.O. “Santa Maria delle Grazie” di Pozzuoli, DSM ASL NA 2 Nord

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