Durante questo seminario ho scelto di parlare della relazione tra le professioni psicologica e psichiatrica. Ci sono state persone a me care che sono state infilate, gettate in percorsi di cura non-curanti della persona stessa, frammentati: in alcuni casi un’insensata, anestetizzante terapia psicofarmacologica in assenza di alcun supporto psicologico/psicoterapeutico – essenzialmente uno psichiatra incapace di comunicare con il proprio paziente oltre la prescrizione di farmaci; in altri l’esatto opposto, ossia insistere in un percorso psicologico senza rendersi conto della necessità di un supporto medico/psichiatrico. E questo per diversi anni, non per un breve e anche comprensibile periodo di inquadramento del disturbo. Le situazioni si sono risolte cambiando professionista, fino a trovarne qualcuno disposto a complessificare il percorso di cura, a riconoscere la limitatezza delle proprie conoscenze/competenze, e a inclinarsi – come dovrebbe ricordare proprio il termine clinica – all’incontro interprofessionale.
Vorrei parlare della relazione tra psichiatria e psicologia come di un qualcosa che ancora incide, in maniera significativa, sulla crisi in cui si ritrovano queste scienze cliniche; quella crisi che le vede assenti alla cura stessa, assenti alla persona, a stare nell’incontro con l’altro, a essere presenti. Proprio questa crisi credo sia derivata – o almeno acutizzata – dalla non accettazione da parte di queste professioni del proprio poter-essere altro da quello che si sono dovute imporre di essere per esistere (ec-sistere, inteso qui come un emergere, un sopravvivere) e per coesistere all’interno del contesto storico-culturale e scientifico presente a partire dalla fine del 1800.
Un contesto – di cui alcuni aspetti ritroviamo tutt’ora – in cui per conoscere si doveva necessariamente spaccare subatomicamente ciascun sapere – senza premurarsi di ricomporlo – e creare iper-specialismi tanto specializzati, identitariamente definiti quanto incomunicanti, soli nel proprio confinato sapere. Le polifeniche scienze cliniche del mentale sono risultato di questo pensiero frammentante: sono nate da una spaccatura originaria dell’uomo e – spaccate tanto quanto l’uomo – si sono dovute adattare per sopravvivere. Da qui la ricerca – divenuta ossessiva nel tempo – di un proprio definito spazio identitario capace di legittimarne l’esistenza e contemporaneamente permetterne la coesistenza: questo le ha chiuse all’incontro, alla convivenza, portando a risposte di isolazionismo e protezionismo professionale (CNOP, 2008), e ha contemporaneamente accentuato quella stessa originaria lacerazione dell’essere umano e della sua sofferenza non permettendo di tendersi oltre – se non in questi ultimi anni – per compiere un’operazione di ritessitura dell’uomo e della cura.
Parlare della relazione tra queste scienze cliniche significa quindi contemporaneamente parlare di chi siano o – provocatoriamente – chi credano di essere.
Ma chi sono la psicologia e la psichiatria?
La sicurezza di cui avevano necessità per sopravvivere nell’intrico delle scienze era stata trovata sin dall’inizio in un’impostazione naturalistica: distanziarsi dalla riflessione filosofica per aderire quindi a una richiesta identitaria, a un’imposizione esterna che le voleva scienze della natura. Ma si trattava di un’identità inautentica, non propria ma fatta propria. Sia la psichiatria sia la psicologia sono infatti scienze (necessariamente) di confine, ossia
scienze cliniche impossibilitate – proprio per il loro (pre)occuparsi della persona tutta e della sofferenza mentale, che non è mai solo “mentale” – nell’avere una definita concezione identitaria al pari di altre scienze della natura, quali la medicina o la fisica: proprio questo voler essere come.., questa ossessione identitaria ha impedito loro di poter essere propriamente scienze dell’uomo per l’uomo e riscoprirsi nell’incontro, incontrarsi al confine nella contaminazione poietica di saperi, pratiche per dedicarsi insieme ad una sofferenza primariamente umana – e solo in un secondo momento psicologica o psichiatrica.
Dire scherzando che lo psicologo vuole essere uno psichiatra e che lo psichiatra a sua volta vuole essere un medico ha in realtà un suo fondamento storico. Queste professioni si sono rincorse sin dal principio, perdendo il contatto proprio con quel potenziale poter-essere per l’uomo, al servizio dell’uomo e della sua sofferenza: aspiravano alla medicina, al potere del medico e alla sicurezza derivata da questo potere.
Prendiamo in considerazione l’impotente psicologia clinica e l’acritico accostamento del termine “clinica” alla psicologia: questo ha comportato sin dal principio l’adesione, spesso inconsapevole, ad un modello medico-clinico di valutazione e intervento. L’assenza di riflessione sulla dimensione clinica della psicologia – nella stessa psicologia – si è inoltre tradotta nel tempo in una spaccatura – tutt’ora presente – tra scienza e professione, ricerca e clinica. Mi risuonano le parole di G. Reda durante il Symposium di Psicologia Clinica del 1951, secondo cui quest’ultima “è stata fatta da psichiatri che non hanno trovato negli psicologi l’aiuto sperato” (In AA. VV., 1952: p. 320). Ed è proprio per questo, probabilmente – come sostenevano Palmonari e Zani nel 1981 – che l’insicura psicologia clinica, privatasi di una riflessione sul proprio potenziale, si dimenava per “fare la stessa cosa che fa lo psichiatra”.
Ma cosa significa concretamente questo?
Significa scontrarsi con la professione medico-psichiatrica, sovrapporsi a quest’ultima (opportunamente o meno mi vien da dire, in dipendenza dei casi) fino ad identificare il proprio poter-essere esclusivamente in termini diagnostici e psicoterapeutici, competenze queste esercitate in quanto libero professionista e basate su un paradigma di tipo tradizionalmente medico-individualistico e su un rapporto diadico paziente-terapeuta.
Ci troviamo quindi in una sorta di odi et amo: si rincorrono – forse consapevoli inconsciamente della necessità di ritessere la lacerazione originaria, di ricomporre l’uomo e contemporaneamente di ricomporsi – ma, sospinte dal sentire del tempo, continuano a isolarsi, a reclamare una propria indipendenza e specificità nell’annichilimento dell’altro. Psichiatria e psicologia hanno provato, senza riuscirci, a tracciare i confini delle proprie professioni:
nel corso dell’ultimo secolo hanno dichiarato di occuparsi rispettivamente e esclusivamente l’una del corpo e l’altra dell’anima; l’una dell’anormale, del patologico e l’altra del fisiologico, del normale; e ancora: trattamento e diagnosi, dimensione biomedica e dimensione psicosociale, cervello e mente; malattia mentale, quindi severa, una malattia reale e disturbo relazionale, quindi lieve, quasi insignificante, non meritevole dell’attenzione del medico; trattamento e prevenzione, cura e cambiamento; malattia e salute.
Ancora tendiamo, quando pensiamo alle differenze tra queste scienze cliniche, a riferirci a qualcuna di queste contrapposizioni. Ma ho scritto volutamente “hanno dichiarato di occuparsi” in quanto queste distinzioni funzionavano solamente sulla carta, non nella reale pratica professionale, in cui tutti volevano occuparsi di tutto. D’altronde era – è – impossibile trovare una cesura netta tra tutte queste dicotomie; dicotomie derivate dal frammentante pensiero dualistico caratteristico della cultura occidentale. Dove sta, per esempio, il confine tra normale e anormale? Tra cura e cambiamento? Quello tra disturbo psichiatrico e disturbo psicologico? Ovviamente nel concreto della pratica professionale si arrivava – si arriva – a creare incomprensioni, inconsistenze, con una diretta ricaduta sui percorsi di cura e conseguentemente sulla persona sofferente.
Attualmente, per esempio, come possono essere distinte la psichiatria dalla psicologia clinica? Senza prendere in considerazione la risposta facile del corso di studi o della possibilità o meno di prescrivere un trattamento farmacologico, a quale criterio ci si potrebbe riferire? Si tratta di un criterio valido? E, tra l’altro, siamo tutti della stessa opinione?
Secondo Jervis (1997) la psichiatria dev’essere intesa soprattutto in senso ampio, come
la scienza generale dei disturbi psichici, come tale praticata sia dagli psichiatri, sia da una parte degli psicologi clinici
Ma siamo d’accordo?
Partiamo dal presupposto che non esiste una scienza generale dei disturbi psichici: se esistesse, non potrebbe coincidere né con la psichiatria né con la psicologia clinica in quanto sintesi organica di entrambe. E – personalmente – non credo possa ancora esistere, in quanto incarnerebbe secondo me il riconoscimento dell’inutilità della separazione tra queste scienze cliniche. Lasciar intendere quindi che tra queste sia la psichiatria a dover essere considerata la scienza generale dei disturbi psichici, riflette ancora una volta l’asimmetria di potere presente e il ruolo accessorio della psicologia clinica.
Tutto questo per ricordare come ci sia, chiaramente, un’asimmetria di potere.
E come sia stata caratteristica della storia della relazione di queste scienze cliniche sin dal principio.
Appunti per una storia della relazione tra psicologia e psichiatria
Prendiamo, per esempio, il Report of Committee of the New York Psychiatrical Society on the Activities of Clinical Psychologists del 1917. Questo testo documenta la reazione della cultura medico-psichiatrica nei confronti degli psicologi tutti, ma soprattutto di ‘coloro che si definivano psicologi clinici in relazione alla diagnosi e al trattamento delle condizioni anormali’: questi anomali professionisti dovevano essere costantemente controllati, non doveva essere permesso loro in alcun caso di intervenire sul paziente, potevano solamente somministrare qualche test mentale – di cui non potevano tuttavia nemmeno interpretare i risultati. Tutto questo in una posizione di sottomissione allo psichiatra, il solo capace, in quanto medico, di comprendere e trattare la malattia mentale.
Passiamo al contesto italiano: qui in passato si discuteva spesso sulla relazione tra queste scienze cliniche. Prendiamo in considerazione, per esempio, la relazione di Agostino Gemelli al XV Congresso Nazionale della Società Freniatrica Italiana (1920) intitolata Psicologia e psichiatria e i loro rapporti, o ancora il Symposium di Psicologia Clinica (1951) o il Symposium sui rapporti tra psicologia e psichiatria (1960). Quest’ultimo voleva rappresentare un momento d’incontro, finalizzato a delineare i confini operativi di queste professioni. È proprio in questa situazione che viene concesso allo psicologo clinico di poter intervenire all’interno di percorsi di cura. Bello, no? Ma come si delineava questo intervento? A chi poteva essere rivolto? La psicologo clinico era stato definito un professionista capace di intervenire sui casi lievi mentre lo psichiatra restava il solo capace di trattare, in quanto medico, le persone affette da una reale malattia mentale.
Questa distinzione, per certi versi inutile, rispondeva solamente a una richiesta di protezione dello status quo: non solo creava una distinzione tra malattie reali e non, ma rimarcava le differenze di potere tra la professione psichiatrica – identitariamente al sicuro, al riparo nella legittimazione conferitale dalla propria derivazione medica – e l’ancella professione psicologica.
Caratteristiche di questo periodo sono le controversie relative alla psicoterapia.
Inizialmente infatti lo psicologo clinico – tanto per propria scelta quanto per imposizione da parte della professione medico-psichiatrica – si era rinchiuso in una funzione prettamente testistica. Come abbiamo visto, l’intervento era permesso solamente allo psichiatra, proprio in quanto medico. L’introduzione della psicoterapia aveva scompensato totalmente questa relazione di potere: tutti volevano essere i soli a poter esercitare questa pratica terapeutica.
Mi pare interessante sottolineare come tanto psichiatri quanto psicologi riconoscessero nella pratica psicoterapeutica una risposta ad una crisi identitaria derivata dalle critiche sorte in questi anni relativamente a limiti e controversie sia di procedure “mediche” quali la psicochirurgia e l’elettroshock che di strumentazioni diagnostiche quali i test mentali. Il problema era capire in cosa consistesse questa pratica terapeutica: nessuno sapeva definire la psicoterapia – e quindi chi se ne sarebbe dovuto occupare. Si trattava infatti di un trattamento medico o di un trattamento psicologico?
Le controversie si sono trascinate per decenni – in Italia sono interessanti le relazioni presentate durante il Symposium del 1960 o le giornate di studio dedicate a La psicoterapia in Italia tra il 1965 e il 1966. La situazione si risolse solo superficialmente attraverso l’illusoria promessa di un’ancora irrealizzabile e tutt’ora purtroppo spesso irrealizzata genuina collaborazione o principio di reciprocità nella comunicazione tra psicologi e psichiatri.
Questo periodo era anche quello dell’introduzione dei primi psicofarmaci: questi permisero allo psichiatra di ripararsi nella dimensione biomedica, sentita come specificatamente propria – ma contemporaneamente di poter esercitare la psicoterapia senza alcuna limitazione o formazione specifica. Questo ovviamente non accadeva per lo psicologo, spesso ancora ridotto ad una funzione di animatore psichiatrico o privato di una propria specificità professionale: il solo modo per ricevere una qualche legittimazione era costituire la propria concezione identitaria attorno alla pratica psicoterapeutica.
D’altronde l’asimmetria nella relazione tra queste scienze cliniche ha da sempre permesso alla psichiatria di appropriarsi delle competenze della psicologia clinica, allo psichiatra di essere anche psicologo clinico: questo secondo una concezione della psicologia come ancella della psichiatria e dello psicologo clinico come una sorta di pre-psichiatra o un quasi-psichiatria.
In Italia si deve aspettare il 1984 per riconoscere come l’intervento clinico dello psicologo potesse essere rivolto tanto ai casi lievi quanto ai casi severi, quali ad esempio le psicosi e le tossico-dipendenze di cui sin dal principio si era occupata la professione medico-psichiatrica e su cui quest’ultima aveva sempre esercitato il proprio predominio. Volete immaginarvi la reazione della psichiatria? Questa non era ovviamente contentissima. Ecco quindi gli psicologi che ci mettono del proprio, dato che iniziano in quegli anni (non attualmente), soprattutto negli Stati Uniti con la RxP agenda, a pretendere il diritto di poter prescrivere e somministrare psicofarmaci, alla pari dello psichiatra.
Torniamo infine a questi ultimi anni, con l’invito del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (2020) – contenuto nel documento programmatico 2020-2024 – a creare e rafforzare – dopo oltre 100 anni di per lo più inconcludenti tentativi – il confronto e la relazione con le altre professioni, soprattutto sanitarie.
Conclusioni
Questo mio discorso voleva essere un invito a riflettere su un qualcosa che secondo me non si deve mai mettere in secondo piano; non si deve mai trattare superficialmente la questione dell’incontro tra professionisti mettendo davanti l’incontro con il paziente. Anche perché spesso l’incontro con il paziente deve poter emergere in quanto figura su uno sfondo di convivenza interprofessionale in cui ci sia una compenetrazione di intenti di cura, non solo arida coesistenza; di contaminazione poietica in cui disinteressarsi dell’incatenamento identitario per tendersi verso la creazione di un percorso di cura che sia realmente curante, integrato e non solamente combinato.
Vi lascio con qualche domanda, e con nessuna risposta. Oltre a provare a capire insieme chi siano queste scienze cliniche del mentale, come possano essere differenziate, mi viene da invitarvi a provare a riflettere anche su questi aspetti. Quali sono le vostre esperienze in proposito? Se siete psichiatri, come voi – a partire dalla vostra formazione e anche dall’asimmetria di potere che oggettivamente esiste tra un medico-psichiatra e uno psicologo clinico/psicoterapeuta – vi siete rapportati all’interno di questa relazione, come ci siete stati? Quali sono le vostre impressioni? Secondo voi ci sono delle differenze? Esiste un problema relazionale tra la psichiatria e la psicologia e, nel concreto, tra psichiatri e psicologi che si ritrovano a lavorare insieme? E lo stesso voi psicologi/psicoterapeuti. Come state in questa relazione? Credete sia presente un’asimmetria di potere? La sentite? Ne percepite la ramificazioni?