“Una risata è la distanza più breve tra due persone” Cit. Victor Borge
Il volume di Lambruschi e Battilani riesce nell’intento di differenziarsi dai modelli psicologici attuali sul riso e sullo humour, proponendo una prospettiva che appare più integrata rispetto alle specifiche prospettive concettuali che indagano questi fenomeni. Il costrutto dell’umorismo viene infatti considerato in ottica cognitivo-costruttivista, in linea anche con la teoria dell’attaccamento (Bowlby 1977).
La teoria dell’attaccamento si è infatti gradualmente affermata, negli ultimi trent’anni, come paradigma integrativo e unitario dello sviluppo individuale, fornendo una cornice che aiuta a comprendere l’unitarietà dei processi di sviluppo, dall’infanzia all’età adulta.
Il Modello Dinamico-Maturativo dell’attaccamento (DMM, Crittenden 2008) contempla l’individuo all’interno della sua complessità organizzata, strutturatasi precocemente sulla base della relazione con il caregiver, in seguito mantenuta attraverso il perfezionamento di strategie di protezione dal pericolo.
Attraverso l’unione di queste due visioni, il volume si propone di delineare un modello che consente di contemplare il bambino e l’adulto nella loro complessità organizzata. Infatti, sulla base delle teorie precedentemente citate, gli autori tentano di connettere le funzioni e i meccanismi cognitivi caratteristici del processo umoristico con gli aspetti affettivi e relazionali intrinseci ad ogni atto umoristico: quindi una visione incarnata nelle strategie interpersonali che l’individuo ha appreso all’interno dei propri legami primari d’attaccamento.
Nel corso della lettura è possibile osservare come i meccanismi cognitivi, affettivi e relazionali si vadano a strutturare nel corso dello sviluppo nel tentativo di mantenere un senso di sé stabile e coeso nel tempo (a partire dalle prime relazioni all’interno delle quali l’individuo ha potuto fare esperienza di sé). Da questa prospettiva è possibile volgere uno sguardo nuovo verso l’umorismo, attribuendogli una funzione non più secondaria o marginale, ma di un’importanza quasi essenziale per lo sviluppo della personalità, per costruire e mantenere relazioni significative nonché per lo sviluppo del senso di identità personale e di efficaci strategie di coping in età adulta.
A questo punto si possono immaginare i numerosi risvolti clinici e le possibili applicazioni e usi del riso e dello humour nella stanza del clinico, non solo a livello osservativo e diagnostico ma anche in termini di mosse terapeutiche attuabili nelle varie fasi del trattamento, che possono promuovere un’alleanza di lavoro collaborativa.
Nella prima fase della psicoterapia l’uso strategico dell’umorismo può rivelarsi facilitante nell’agevolare la sintonizzazione sullo stile relazionale del paziente, mentre in fasi
successive può fungere da perturbazione strategicamente orientata in grado di stimolare nel paziente importanti mutamenti generativi in termini di consapevolezza, empatia, e flessibilità cognitiva. Ogni intervento deve essere sapientemente studiato e ritagliato sullo stile di attaccamento del pz, così da favorire processi riorganizzativi ed un aumento competenze metacognitive.
Nel primo capitolo vengono citati i principali autori che si sono occupati di identificare e spiegare i fenomeni umoristici, formulando teorie e ipotesi. Uno dei punti di incontro tra molte teorie sembra essere il criterio dell’incongruità, variamente definita come “una rapida e intensa riorganizzazione del campo percettivo-cognitivo da una configurazione di pensiero a un’altra” (Maier 1932) o “un rapido passaggio da uno script a un altro, usualmente in opposizione tra loro ma parzialmente sovrapposti” (Raskin 1985).
“Ridere significa essere maligni con tranquilla coscienza” (Nietzsche).
L’umorismo sembra quindi essere suscitato da una diversione delle nostre aspettative, che provoca una tensione emotiva che non si allenta attraverso operazioni cognitive di recupero di senso. La rapidità dell’attacco alle nostre aspettative e la sensazione di tensione evocano quindi stati di apprensione, assimilabili per certi sensi alla paura. Per potersi prefigurare aspettative è essenziale possedere alcuni prerequisiti, come la capacità di “fare finta”. Verso la fine del primo capitolo vengono approfonditi anche altri requisiti indispensabili per poter partecipare all’atto umoristico, per poi ragionare sulle disparate funzioni di esso nei diversi contesti culturali e fasce d’età.
Nel secondo capitolo il focus si stringe sull’ontogenesi del riso all’interno dei legami di attaccamento, con particolare attenzione ai sistemi motivazionali interpersonali (Liotti e Monticelli 2008). Sul piano evolutivo, il riso inizialmente deriva dal sollievo, sempre incerto, per lo scampato pericolo all’interno di un gioco di finzione con il caregiver. Crescendo il gioco di finzione diventa via via più raffinato, andando di pari passo con l’acquisizione di nuove competenze.
Il riso si inserisce dunque nei programmi per il mantenimento dello stato di relazione, coerentemente con la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (o SMI), secondo la quale ogni individuo possiede un’impalcatura biologica innata che prevede un insieme di sistemi comportamentali (o motivazionali) deputati a regolare importanti settori di vita. I principali SMI studiati sono quelli di: attaccamento, accudimento-cura, agonistico, sessuale, cooperativo-paritetico.
All’interno di questa teoria le emozioni restano legate a comportamenti atti a conseguire un obiettivo interpersonale. Il sistema motivazionale cooperativo, in particolare, rappresenta un grande vantaggio evolutivo in quanto promuove atteggiamenti riflessivi verso di sè e verso gli altri: le forme più sane di umorismo generativo si inseriscono all’interno di questo sistema.
Visto il rilievo che questo costrutto ripone negli aspetti interpersonali e relazionali, che si intersecano fin dai primi istanti di vita con aspetti innati, risulta evidente quanto possa essere in linea con la teoria dell’attaccamento. Quest’ultima prevede lo strutturarsi del legame primario di attaccamento come impalcatura di fondo, in termini di sicurezza all’interno delle relazioni primarie quale prerequisito essenziale che permette poi lo sviluppo di tutte le altre competenze. Il bisogno di legame intrinseco in ogni essere umano diventa quindi alimento di base per la strutturazione di un sé stabile e coeso nel tempo, faticosamente realizzato e poi mantenuto durante lo sviluppo. In questa prospettiva, il riso assume una funzione relazionale molto precoce, già nel lattante come mezzo che assicura uno scambio reciproco.
L’utilizzo del riso sembra quindi fin da subito assolvere a importanti funzioni sociali e adattive, dapprima in maniera inconsapevole e con scambi basati su stimoli tattili e acustici poi, con il sorgere di nuove capacità grazie allo sviluppo biologico, diviene possibile perfezionare strategie come il gioco simbolico e la cooperazione, fino ad arrivare in età adolescenziale e adulta ad un utilizzo dell’umorismo come strategia conversazionale, ma anche come modo di sfidare, negoziare, flirtare.
Il terzo capitolo entra nel merito degli studi e degli strumenti che hanno reso possibile approfondire la conoscenza sui processi umoristici. Le osservazioni raccolte grazie ad uno strumento in particolare hanno portano a produrre un modello che delinea e descrive le configurazioni di attaccamento ed il loro evolversi nel tempo (il Modello Dinamico Maturativo o DMM, Crittenden 2008). L’Adult Attachment Interview (AAI, George, Kaplan e Main 1985-1996) si configura infatti come uno dei più usati strumenti self-report volti ad analizzare lo stile affettivo e sentimentale adulto, a partire dalla rievocazione di esperienze d’attaccamento infantili.
La somministrazione di numerose interviste semi-strutturate ha prodotto un sistema di classificazione delle diverse strategie adottate dai principali pattern di attaccamento (tipo A o dismissing, tipo B o balanced, tipo C o preoccupied) per proteggersi dal pericolo.
Le configurazioni equilibrate tendono a mettere in atto strategie di tipo B, integrando in maniera equilibrata le informazioni cognitive ed affettive per prevedere il pericolo e proteggere il sè. Questo permette di adattarsi ad una grande varietà di situazioni, utilizzando diverse strategie in maniera versatile. I soggetti che utilizzano prevalentemente strategie di tipo A o C tendono invece a servirsi prevalentemente dell’informazioni cognitiva (nel primo caso) ed affettiva (nel secondo) e riflettono modelli interpersonali insicuri.
La AAI ci orienta a una visione dell’umorismo come fenomeno squisitamente relazionale, evidenziando correlazioni tra stili di attaccamento e utilizzo di determinati stili umoristici: per esempio chi fa più uso di strategie A sembra ricalcare schemi di una comicità clownesca, in cui gli spettatori ridono delle disgrazie del protagonista. Diversamente, chi utilizza strategie C sembra preferire il registro della tragedia, creando ad esempio trame umoristiche colme di suspense e dinamismo.
Dunque, sulla base delle teorie precedentemente citate, nel quarto capitolo gli autori riescono nell’intento di connettere le funzioni e i meccanismi cognitivi caratteristici del processo umoristico con gli aspetti affettivi e relazionali intrinseci ad ogni atto umoristico.
Dall’intersecarsi delle diverse dimensioni ricavate dal modello DMM ricaviamo, come prima accennato, due stili principali: lo stile relazionale preoccupato (o coercitivo, iperattivante) e quello deattivante (o difeso, distanziante). Una terza dimensione indica invece i livelli di integrazione del sé, che si manifestano in un continuum processuale cha parte da un buon livello di generatività, flessibilità e astrazione (il cosiddetto funzionamento “nevrotico”), fino a quello “psicotico” dove tali competenze vanno irrimediabilmente a sfaldarsi.
Le diverse strategie di protezione dal pericolo si servono di diversi registri umoristici, con differenti funzioni intra ed inter personali. Nello stile preoccupato si nota il prevalere di uno stile umoristico attivante caldo, ansioso con funzione coercitiva e ansiolitica; lo stile deattivante si caratterizza invece per una maggiore freddezza, lo humor può risultare cinico con funzione accantonante e antidepressiva, più controllato in termini di espressività emotivo/affettiva.
Caratteristica dei soggetti con stile relazionale equilibrato è invece la flessibilità, cioè la capacità di utilizzare modalità e generi umoristici diversi in forma articolata, flessibile e funzionalmente adattativa rispetto al contesto sociale e culturale di riferimento. Questa modalità funge da guida per regolare adeguatamente l’intensità di un’emozione nella relazione e favorisce la reciprocità e la sintonizzazione tra gli interlocutori.
Lo stile umoristico proprio delle configurazioni equilibrate si prefigura quindi in un certo senso come quello più funzionale, ma all’interno del modello evolutivo e relazionale proposto dagli autori lo stile umoristico che un soggetto ha strutturato nel proprio percorso è da considerarsi sempre adattativo rispetto al contesto interpersonale entro cui è stato appreso. Questo vale anche ai nuovi contesti interpersonali simili a quello: gli individui tendono infatti a riconfermare i propri contorni identitari, ed è un aspetto di fondamentale importanza nel mantenere un senso di stabilità e coesione di sé.
L’ultimo capitolo si propone di esaminare le implicazioni psicoterapeutiche del modello appena discusso entro il contesto clinico. L’umorismo si configura senza dubbio come uno straordinario strumento comunicativo con molteplici funzioni in psicoterapia. In prima istanza “permette ai sentimenti, che normalmente possono essere bloccati dalla mancanza di presa di coscienza, di essere comunicati in modo protetto, rendendo possibile esprimere emozioni e sentimenti che altrimenti sarebbero rimasti silenti per l’imbarazzo che provocano al paziente” (Winick, 1976).
Diverse ricerche hanno individuato lo humour come fattore altamente protettivo per quanto concerne la gestione dello stress e delle emozioni negative, riscontrando inoltre una forte efficacia terapeutica del farne uso con pazienti affetti da disturbi d’ansia e dell’umore, depressione, psicosi e disturbi di personalità (Dionigi 2018, Danzer 1990, Walter et al. 2007, Gelkpof e colleghi 1996). Tra i risultati principali si evidenziano: aumento della qualità di vita e del tono dell’umore, riduzione dello stato ansioso, riduzione del livello di psicopatologia e della rabbia, aumento delle competenze sociali, aumento della consapevolezza rispetto al proprio funzionamento, aumento delle strategie di coping e della capacità riflessiva.
La comunicazione umoristica all’interno del setting psicoterapeutico presenta per aspetti di ambivalenza, in quanto alcune forme di humour possono riflettere flessibilità strutturali e buone competenze riflessive e di generatività, ma altre si connotano di valenze marcatamente difensive riguardo ad aree emozionali avvertite come critiche dall’individuo. Risulta quindi fondamentale farne un utilizzo cauto e sapientemente modulato, adottato per facilitare la lettura degli stati interni propri al paziente, l’emergere suoi schemi cognitivi/ emotivi/interpersonali, lo stile d’attaccamento ed i sistemi di memoria e linguistici prevalentemente usati, al fine di favorire la riorganizzazione e la flessibilizzazione dei meccanismi meno funzionali.
L’attitudine umoristica deve essere quindi utilizzata come strumento rispettosamente cucito sull’assetto difensivo del pz, per promuovere l’auto-osservazione, la consapevolezza di sé e la cooperazione. Nella fase iniziale della terapia, una funzione strategia che pu assumere l’umorismo è quella di stabilire un assetto relazionale collaborativo e agevolare la sintonizzazione sullo stile relazionale del paziente.
Gli autori ne suggeriscono l’uso come perturbazione strategicamente orientata soltanto dopo la conclusione dell’assessment e della diagnosi funzionale, quindi in una fase successiva che si propone di far riconoscere al pz i suoi schemi difensivi e aprire la strada ad altre prospettive che possano mettere in dubbio la funzionalità delle strategie di protezione attualmente in atto, favorendo l’emergere di nuove e più funzionali strategie di coping.
Bibliografia
Bowlby J. (1977). The making and breaking of affectional bonds: I. Aetiology and Psychopathology in the Light of Attachment Theory. British Journal of Psychiatry 130, 3, 201-210.
Crittenden P.M. (2008). Il modello dinamico-maturativo dell’attaccamento. Edizioni Libreria Cortina, Milano. Danzer A., Dale J.A., Klions, H.L. (1990). Effect of exposure to humorous stimuli on induced depression. Psychological Reports 66, 3, 1027-1036.
Dionigi A., Canestrari C. (2018) The use of humor by therapists and clients in cognitive therapy. The European Journal of Humor Research 6, 3, 50-67.
Gelkopf M., Kreitler, S. (1996). Is humor only fun, an alternative cure or magic? The cognitive therapeutic potential of humor. Journal of Cognitive Psychotherару 10, 4, 235-254.
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Walter M., Hänni B., Haug M., Amrhein I., Krebs-Roubicek E., Müller-Spahn P. Savaskan E. (2007). Humour therapy in patients with late-life depression or Alzheimer’s disease: a pilot study. International journal of geriatric psychiatry 22, 1, 77-83.
Winick C. (1976). The social contexts of humor. Journal of Communication 26, 3, 124-128.