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La psicologia sociale del Coronavirus

“Le rappresentazioni sociali sono sistemi di valori, idee e pratiche con due funzioni fondamentali: la prima, è quella di stabilire un ordine che permetterà agli individui di orientarsi nel loro mondo sociale e materiale e di padroneggiarlo; la seconda, quella di permettere la comunicazione tra i membri di una società fornendo loro un codice per lo scambio sociale e per nominare e classificare in maniera chiara i vari aspetti del loro mondo, della storia individuale e collettiva.”

La fenomenologia e la psicologia sociale appartengono ad ambiti del sapere diversi: la prima si riferisce perlopiù allo studio dei fenomeni che si riferiscono l’esistenza individuale, la seconda, invece, aiuta gli studiosi a comprendere il pensare, il sentire e l’agire collettivo. Tali discipline possono però interagire e dialogare fra loro per far emergere e per comprendere più a fondo i fenomeni sociali.

Nello specifico, che cosa ci dicono rispetto alla realtà che stiamo vivendo oggi? Qual è la rappresentazione che la popolazione italiana possiede rispetto all’epidemia di Covid-19 che sta dilagando in questo periodo sul territorio? Quali sono le sfumature emotive che tale fenomeno implica? Forse possiamo riuscire a rispondere a queste domande grazie alle teorie che i grandi studiosi del passato ci hanno lasciato in eredità, in particolare autori come Moscovici e Le Bon che con le loro opere hanno influenzato e sistematizzato l’analisi dei fenomeni sociali.

Negli anni ’60, mentre negli Stati Uniti si diffondevano gli studi sull’atteggiamento, in Europa, soprattutto in Francia, nasce il concetto di rappresentazione sociale[1], proposto dal sociologo e psicologo  Serge Moscovici nell’ambito selle scienze sociali attraverso la sua celebre opera “La psychanalyse, son image et son public” (1961, 1976). Come si legge dalla citazione in apertura, le rappresentazioni sociali sono delle credenze, delle idee e dei valori socialmente condivisi che, oltre a dare senso al mondo in cui viviamo permettendoci di padroneggiarlo, offrono la possibilità di comunicarerispetto a temi e fenomeni comuni (Myers, 2009). Grazie alle rappresentazioni sociali, il sapere ed il senso comune acquisiscono pari importanza rispetto alla conoscenza scientifica e rigorosa, poiché Moscovici elabora una teoria solida che spiega, da un punto di vista psicologico e sociologico, come esse si creino e come si tramandino.

Non tutti i fenomeni divengono delle rappresentazioni sociali, poiché devono soddisfare almeno tre criteri (Moscovici, 1961, 1976): l’oggetto o fenomeno sociale deve essere definito in modo ambiguo, deve suscitare l’interesse collettivo e deve suscitare un bisogno di comprensione nella collettività[2]. Mi sembra che il Covid-19 incarni questi tre aspetti e, per questo, cercheremo di capire come si è formata una rappresentazione sociale attorno al fenomeno.

Le rappresentazioni sociali si formano attraverso due processi: l’ancoraggio e l’oggettivazione (Moscovici 1961, 1976; Myers, 2009). Il primo permette l’assimilazione dell’ignoto al noto, dunque permette di avvicinare il fenomeno a categorie conoscitive pre-esistenti[3]: il virus, dunque, non appena è stato isolato allo Spallanzani di Roma è stato denominato Covid-19 per indicarne la tipologia (Coronavirus), il mese e l’anno di diffusione. Il sistema categoriale “Virus” è qualcosa di già noto all’essere umano, qualcosa che, in qualche modo, è controllabile attraverso terapie mediche e conoscenze specialistiche. Questo processo dovrebbe permettere di ridurre la paura e lo stupore che ha provocato questo nuovo oggetto sociale.

E così è stato, almeno fino a che l’Italia stessa non è diventata un focolaio. Ma andiamo con ordine.

Il secondo processo, l’oggettivazione, consente di scoprire l’aspetto iconico di una categoria: in altri termini, permette di rendere concreto ciò che invece è astratto. Essa lavora con la scelta selettiva di alcuni concetti legati al fenomeno che sono più avvicinabili (e dunque più comprensibili) che vengono quindi decontestualizzati dal precedente orizzonte teorico (quello scientifico) e trasferiti al nuovo orizzonte di senso che si sta creando, quello per l’appunto sociale.

Dopo il suo isolamento, sappiamo benissimo per esempio che forma abbia il Coronavirus ma, cosa assai peggiore, fino a che i focolai italiani sono rimasti silenti esso è stato definito “una banale influenza; un’influenza che, causando problemi respiratori, risulta mortale solo nel 2% dei casi e solo tra anziani e pre-morbosi”. Non solo: per ridurre la paura è stata persino paragonata alla Sars, virus assai più mortale seppur a minor contagiosità.

È indiscusso che, oltre ai processi fin qui descritti, la formazione di questa rappresentazione sociale sia stata mediata dall’azione dei mass media[4], organo potentissimo in grado di dirigere ed agevolare la costruzione di rappresentazioni sociali.

Questa prima rappresentazione del virus condiziona ovviamente anche l’agire delle folle, che in effetti, forte delle convinzioni e delle idee che abbiamo brevemente descritto sopra, non ha modificato di molto la sua quotidianità. Dopotutto, la parola d’ordine era: “non creiamo allarmismi inutili, attenti sì ma senza panico”. Con le parole di Le Bon (1985) possiamo dire che:

“La folla, per quanto neutra la si supponga, si trova spesso in uno stato di attenzione aspettante favorevole alla suggestione. La prima suggestione formulata s’impone, per contagio, a tutti i cervelli, e stabilisce subito l’orientamento. Negli esseri suggestionati, l’idea fissa tende a trasformarsi in azione.” [Le Bon 1895, p. 17]

La forza della teoria delle rappresentazioni sociali è duplice: non solo riesce a delineare in modo preciso ed accurato come esse si formino, ma coglie anche in maniera accurata come idee e valori collettivi possano tramutarsi in azioni. È evidente che rappresentazione ed azione, che condividono uno stesso contesto simbolico, siano legate vicendevolmente da un nesso specifico: se muta l’una, cambia coerentemente anche l’altra.

Quando le province italiane sono diventate un focolaio dell’epidemia, c’è stato un notevole cambio di tendenza rispetto a prima: il Covid-19 gradualmente non viene più considerato come “una banale influenza”, ma diventa un nemico invisibileche attacca l’unità e la salute del popolo italiano dall’interno[5]. Le caratteristiche che prima, grazie al processo di oggettivazione, erano state isolate per rendere il fenomeno più conoscibile e quindi meno pauroso, non sembrano più aderire a quello che sembra un nuovo oggetto sociale. Markovà (2000) inquadra benissimo questo indissolubile legame fra rappresentazione sociale e contesto storico in cui si crea.

Modificata così l’identità del Covid-19, cambiano le emozioni e le azioni della folla (in questo caso direzionate anche dai provvedimenti tutelanti del Governo):

“I sentimenti, buoni o cattivi, manifestati da una folla, presentano questo duplice carattere: di essere semplicissimi e assai esagerati. Su questo punto, come su tanti altri, l’individuo della folla si avvicina agli esseri primitivi. Inaccessibile alle gradazioni, egli vede le cose nell’insieme e non conosce transizioni. La semplicità e l’esagerazione dei sentimenti delle folle le preservano dal dubbio e dall’incertezza.” [Le Bon 1895, p. 22]

E questo spiega l’assalto delle persone ai supermercati, a cui abbiamo assistito attraverso i servizi dei telegiornali dal momento in cui il governo ha preso provvedimenti per contenere il contagio e per evitare un collasso, che sembra sempre più imminente, del sistema sanitario. Come sostiene Le Bon (1895, p. 31), “cento piccoli omicidi non attireranno mai l’attenzione di una folla”, ma i numeri (che indicano una diffusione così esponenziale dei contagi) e l’idea che i propri cari possano morire da soli provando sensazioni simili all’annegamento, sono potenti generatori nella collettività di paura ed impotenza. L’immaginazione delle folle è fortemente influenzata da immagini che si stagliano nella coscienza collettiva e che generano emozioni molto intense e “primitive” che nessun pensiero razionale (come per esempio “non è prudente creare affollamenti nei supermercati”) riesce a scalfire. Il potere delle parole è fortemente associato alle immagini che conducono, molto meno al significato che veicolano. Dunque, “uscire di casa solo se necessario” diventa “dobbiamo procurarci scorte di cibo perché non potremo più farlo per le prossime settimane”. La metafora usata in questo caso da Le Bon è decisamente appropriata:

“Le folle sono un po’ come un dormiente, in cui la ragione è momentaneamente annullata, e vede sorgere nel suo spirito delle immagini d’una intensità estrema[…].” [Le Bon 1895, p. 30]

Parallelamente a quello che ho descritto finora, c’è un altro fenomeno che vale la pena prendere in considerazione per comprenderlo maggiormente. Come mai di fronte a questa calamità la gente si sente più “italiana” che mai? Il motto di questo periodo, “andrà tutto bene”, con tanto di arcobaleno, fissa nella coscienza della collettività questa speranza condivisa che, in qualche modo, sembra contrastare con quello scritto poco fa rispetto alla diffusione così drammatica della paura.

La Psicologia Sociale ci insegna che di fronte ad un nemico comune il gruppo tende a strutturarsi in maniera tale da “combattere” ciò che è esterno e minaccioso nei suoi confronti[6]. In questo modo aumenta il senso di appartenenza e soprattutto la percezione di condividere un destino comune (Lewin, 1948; Tajfel, 1981; Myers, 2009), sentimenti che vengono espressi nei modi più disparati e soprattutto consentiti “ai tempi del Coronavirus”: cantare canzoni dai balconi, ascoltare l’Inno di Mameli, proporre campagne e raccolte fondi che responsabilizzino i civili a fronte di quello che il personale sanitario sta sopportando, motti e slogan condivisi ed appesi alle ringhiere.

Tuttavia, di gran lunga più preoccupante è uno dei fenomeni che influenza le singole persone apparentemente appartenenti ad un gruppo, il cosiddetto processo di inerzia sociale, con cui si intende la tendenza individuale ad impegnarsi meno in un compito quando il proprio contributo è inglobato in una collettività. L’inerzia sociale comporta dunque un processo di de-responsabilizzazione che, accanto al pensiero individuale euristico, comporta una diminuzione della responsabilità individuale rispetto al bene collettivo (Myers, 2009). Un esempio di pensiero euristico è il seguente: “dato che il virus si trasmette attraverso il contatto con persone che presentano i sintomi, se io esco da solo a fare una passeggiata sono totalmente al sicuro”; o ancora: “ma sì, tanto io sono giovane, forte e sano”

Lascio che le espressioni si commentino da sole, facendo solo notare quanto sia semplicistico e totalmente erroneo questo tipo di ragionamento. Dov’è il cosiddetto “bene comune”? E il “sacrificarsi oggi per un domani migliore”? Hanna Arendt ci illumina con le sue parole:

“[…]nelle condizioni di una società di massa o di un isterismo di massa[…]gli uomini sono divenuti totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e udire gli altri, dell’essere visti e dell’essere uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte.” [Arendt 1991, pp. 99-100]

Per tali motivi potrebbe essere un’arma a doppio taglio stimolare la responsabilità civica delle persone per limitare il contagio: sicuramente, in un mondo teorico e perfetto, rappresenta la soluzione più adeguata, ma di fatto la realtà delle cose ci da una risposta diversa.

Nella speranza di aver delineato, seppur in minima parte, alcuni dei processi psicologici salienti di questo momento di emergenza, vorrei soffermarmi un attimo su un aspetto importantissimo che coinvolge ognuno di noi in prima persona.

Come ci insegna l’esistenzialismo (Sartre 1943, 1996), la responsabilità deve sempre essere definita come “coscienza di…”: essere responsabili non significa solo scegliere per sé stessi, ma comprendere anche che la scelta e l’atto individuale impegnano tutta l’umanità. In altri termini, sono responsabile della mia esistenza anche nella misura in cui comprendo che non posso slegare le mie scelte dal contesto e dalla realtà in cui vivo, poiché “l’uomo scegliendosi sceglie tutta l’umanità” (Sartre, 1996 p. 32)[7].

Lungi da me l’intento di fare polemica da un punto di vista politico, ma io credo che queste riflessioni dovrebbero forse tornare a far parte dei nostri pensieri e della nostra società.

BIBLIOGRAFIA:

  • Arendt, H. (1991). Vita activa. La condizione umana. Bompiani Editore (1° ed. it. 1964).
  • Corvi, R. (2010). Temi filosofici del novecento. L’uomo, la conoscenza, il lingiaggio, la mente. EduCatt, Milano.
  • Le Bon, G. (1895). Psicologia delle folle. Edizioni  Clandestine, Highlander (2013).
  • Lewin, K. (1948). Solving social conflicts. New York: Harper & Brothers (trad. it., 1972, I conflitti sociali. Milano, Franco Angeli).
  • Markovà, I. (2000). Amédée pr How to Get Rid of It: Social Representation from a Dialogical Perspective. Culture & Psychology, 6 (4), pp. 419-460.
  • Myers, D.G. (2009). Psicologia sociale. Edizione italiana a cura di Elena Marta e Margherita Lanz, McGraw-Hill Companies.
  • Moscovici, S. (1961, 1976). La Psychanalyse, son image et son public. Paris: PUF.
  • Sartre, J.P. (1943). L’essere e il nulla. Ed. it. 2014, il Saggiatore.
  • Sartre, J.P. (1996). L’esistenzialismo è un umanesimo. Mursia Editore, Milano.
  • Tajfel, H. (1981). Human groups and social categories: studies in social psychology of intergroup relations. London: Academic Press.

NOTE:

[1] Moscovici utilizza il termine “sociale” proponendo una prospettiva diversa da quella di Durkheim. Infatti, per Moscovici le rappresentazioni sono dinamiche e vengono create e ricreate dalle persone ad esempio durante una conversazione (Myers, 2009).

[2] Il termine “collettività” dovrà essere inteso nel senso che Gustave Le Bon attribuisce al concetto di “folla psicologica”. Per una rassegna completa qui impossibile si rimanda a Le Bon (1895).

[3] Attraverso processi di denominazione, classificazione ed etichettamento (Myers, 2009).

[4] I processi di diffusione e propagazione delle rappresentazioni sociali individuati da Moscovici (1976) hanno subito sicuramente un incremento grazie alla diffusione di internet e dei mezzi tecnologici, nonché all’influenza sempre più evidente dei mass media.

[6] Interessante capire le differenze che sussistono tra i diversi termini: folla, gruppo, organizzazione. Per approfondimenti si rimanda a Myers (2009).

[7] Come precisa Roberta Corvi (2010), per l’esistenzialismo non esiste un’essenza di uomo prestabilita o un progetto preconfezionato per ciascuno: dunque, mentre ognuno muove dei passi verso i propri orizzonti, compie inevitabilmente delle scelte che ricadono sull’umanità. Questo significa che, in assenza di una morale assoluta, l’uomo è chiamato ad essere responsabile e consapevole (cosciente) non solo del fatto che egli è l’unico ad avere in mano la propria vita, ma che dalle sue decisioni dipenderà anche il progetto dell’intera umanità. Ed è per questo motivo, secondo Sartre, che l’unico imperativo morale che esiste è la massima “e se tutti facessero lo stesso?”.

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Irene Sibella

Psicologa e psicoterapeuta. Lavora come libera professionista presso il proprio studio in provincia di Pisa trattando problematiche legate all’ansia nelle sue diverse manifestazioni, alle neurodivergenze in età adulta e ai disturbi ossessivi, e presso il consultorio privato Aied sezione di Pisa. Insegna presso la Scuola di Psicoterapia Lombarda e svolge attività di formazione in diversi ambiti.

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