Se Wittgenstein ci ricorda che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo[1], la ricerca di Piro, ed in particolare la vicenda dell’avvocato B.[2], sancisce in maniera inequivocabile quanto sia valido anche il contrario, ossia che i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio. Se nella premessa al testo Parole di Follia Piro distingue significato e senso, collocando il primo entro un orizzonte linguistico ed il secondo entro un orizzonte antropologico, la sua ricerca conduce inesorabilmente alla sovrapposizione ed infine commistione dei due termini, al punto che la fluttuazione semantica tipica del linguaggio schizofrenico non può che tradursi in una fluttuazione antropologica rappresentativa del relativo vissuto. Tale mescolamento è necessaria conseguenza della definizione che Wittgenstein offre nelle prime pagine delle Ricerche Filosofiche delle parole: esse non hanno un significato, se per significato si intende un’idea che ad esse corrisponda, ma solo un uso[3]. Le parole si rivelano dunque progetti, e questa trascendenza della parola dischiude la trascendenza dell’esserci come sua essenza, tant’è che «è perché parla che è un esserci, un essere nel mondo, dunque formatore di mondo, e non perché è uomo che parla»[4]. E non è l’uomo ad essere formatore di mondo, ma il linguaggio, difatti il significato diventa «la possibilità d’azione indicata dalla cosa, ciò che di essa possiamo fare»[5]. Ed essendo il mondo il luogo del con-esserci, il linguaggio fonda la sua trascendenza nell’incontro con l’altro: «le parole non hanno un significato perché stanno per un pensiero racchiuso nella soggettività di chi parla, ma in virtù del loro essere parti di una prassi sensata e socialmente codificata»[6].
Il linguaggio necessita di un’effettività tale per cui la sua trascendenza possa configurarsi come possibilità; intrappolata nell’immanenza delle mura del contenimento psichiatrico, la parola si smarrisce nel vuoto di senso come una fiamma che non può ardere se privata dell’ossigeno. La parola si fa semplice presenza, il vuoto di senso precipita nella fissità di significato, sottratto alla necessaria inerenza al contesto del suo uso[7], per cui la vera schizofrenia si declina come spaccatura tra significato e senso, una schizosemìa. Schizosemica è la cura prebasagliana che pretende di restituire il malato mentale al mondo sottraendogli il mondo stesso.
Che il matto non faccia altro che scagliarsi contro i limiti del linguaggio per scagliarsi contro i limiti del proprio mondo? Come fa il poeta, come fanno gli amanti? Come allo stesso modo fa Piro, i cui trattati dall’arzigogolato lessico richiedono più di un glossario? Forse è manifestazione del fallimento della capacità di un linguaggio, in senso etimologico, del suo riuscire a contenere un mondo. Un linguaggio costruisce un mondo condiviso da chi condivide il linguaggio stesso; esso non è atto a contenere più di un mondo, per un nuovo mondo serve un nuovo linguaggio. Sempre Wittgenstein ci ricorda che «se un leone potesse parlare non potremmo comprenderlo»[8] perché non condividiamo il suo mondo. Il linguaggio di uno schizofrenico è il suo modo di abitare il mondo, e non possiamo comprenderne il linguaggio nella misura in cui non ne comprendiamo il mondo. La schizosemìa diventa dunque l’astrazione della parola dal relativo mondo, una sorta di egocentrismo culturale. Si possono fare numerosi esempi: la parola “pace”, letta da un italiano o da un inglese; un modo di dire tradotto in maniera letterale, come “break a leg” o “silver spoon”. L’intervento con la persona schizofrenica – e non solo in realtà – può dunque richiedere un’epoché linguistica, un disimparare a parlare, per non rischiare di dare senso alle sue parole attingendo ingenuamente ai nostri significati. Sottrarsi alla pratica di tale epoché denoterebbe anche un considerevole egoismo, di marca anglosassone: perché dovrebbe essere lo schizofrenico ad adattarsi al mio linguaggio e non viceversa? La risposta a questa fallacia la si ritrova nella triste consapevolezza che ogni psicopatologia è innanzitutto socioculturale, nella misura in cui il malato mentale è tale per la sua mancanza di adattamento ad un mondo comune ed alle relative dinamiche.
La salienza del linguaggio schizofrenico sta nel fatto che in quanto linguaggio offre ancora la possibilità di fondare un mondo coabitato. Ancora Wittgenstein ci ricorda che non può esistere un linguaggio privato[9], ed anche Heidegger sottolinea che è l’esistenza dell’altro a fondare la possibilità anche solo di pensare un linguaggio[10]. Se il mondo schizofrenico fosse a tenuta stagna, non vi sarebbe alcuna possibilità di linguaggio, di alcuna forma. Così, se da un lato vi è l’ingenuo egoismo di chi desidera curare lo schizofrenico imponendogli un linguaggio condiviso, e dall’altro il compito impossibile di far proprio un mondo schizofrenico per il semplice motivo che sia un mondo altrui, il terreno di incontro tra curante e curato è composto da un linguaggio comune, che permetta al curante di accogliere un mondo e al curato di riscoprire l’effettività del proprio linguaggio, recuperando con esso la propria trascendenza, che lo rende umano. È ciò che compie Piro, ed è ciò che noi lettori assorbiamo, nel momento in cui facciamo nostre parole quali “galfare, mazzucchella, bucaniere”[11], non necessariamente per impiegarle nella vita quotidiana, ma per mantenere sempre viva la possibilità d’altro.
Che siano i limiti del linguaggio o i limiti del mondo, è nella limitatezza dei nostri mezzi che sorge la trascendenza di ogni possibile progetto. Allora anche la terapia più ardua appare improvvisamente e meravigliosamente semplice: bisogna semplicemente esserci.
Note
[1] Wittgenstein, L. (1921). Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 2009
[2] Piro, S. (1992). Parole di Follia, FrancoAngeli, Milano
[3] Spinicci, P. (2002). Lezioni sulle Ricerche Filosofiche di Ludwig Wittgenstein, Cuem, Milano
[4] Costa, V. (2006). Esperire e Parlare. Interpretazione di Heidegger. Jaca Book, Como
[5] Ibid.
[6] Spinicci, P. (2002). Op cit.
[7] Ibid.
[8] Wittgenstein, L. (1953). Ricerche Filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 2009
[9] Ibid.
[10] Costa, V. (2006). Op cit.
[11] Piro, S. (1992). Op cit.
Riferimenti:
Costa, V. (2006). Esperire e Parlare. Interpretazione di Heidegger. Jaca Book, Como
Kripke, S. (1982). Wittgenstein su regole e linguaggio privato, Bollati Boringhieri, Torino 2000
Piro, S. (1967). Il linguaggio schizofrenico, Feltrinelli, Milano
Piro, S. (1992). Parole di Follia, FrancoAngeli, Milano
Spinicci, P. (2002). Lezioni sulle Ricerche Filosofiche di Ludwig Wittgenstein, Cuem, Milano
Wittgenstein, L. (1921). Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 2009
Wittgenstein, L. (1953). Ricerche Filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 2009