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Stati limite o stati senza limite? Fenomenologia di un soggetto contemporaneo nella modernità liquida

Abstract

Di recente, sono state condivise nuove riflessioni sulla questione borderline, sia in un’ottica fenomenologica che socio-antropologica. Sebbene questo disturbo abbia descritto inizialmente una condizione al limite tra le due grandi aree psicopatologiche (nevrosi/psicosi) e si sia poi evoluto come disturbo di personalità all’interno della cornice psicodinamica, ad oggi comincia sempre più a identificare nuove possibilità transdiagnostiche, capaci di leggere in profondità anche il malessere del nostro tempo. Il presente lavoro, previo un excursus storico del disturbo ed etimologico dei termini che lo hanno da sempre identificato (limite, confine, frontiera), ha tentato di sintetizzare le varie inquadrature cui questa condizione è stata oggetto negli ultimi tempi: la possibilità che essa possa rappresentare una sindrome etnica, propria della società contemporanea; il risvolto sociale e psicopatologico di una modernità liquida e precaria, abitata da “uomini senza gravità”, così come descritto da Charles Melman; l’esperienza dell’aneidos sviluppata da Stanghellini; l’effetto di un continuo vissuto di istantaneità e atemporalità; l’incapacità a trovare una forma identitaria, proprio perché vengono a mancare sia la storia che la progettualità personale, e, di conseguenza, la capacità di raccontarsi; l’immaturità affettiva che rende impalpabili e vacui i vissuti dell’esperienza che il soggetto con questo disturbo fa del mondo.

Introduzione: storia ed etimologia del termine borderline

Alla fine dell’800, alcuni psichiatri americani, tra cui Hughes e Rosse (cit. in Migone, 1990), cominciarono a parlare di borderline insanity per descrivere tutte quelle condizioni che presentavano un quadro sintomatologico di minore gravità rispetto alle psicosi, ma anche di maggiore instabilità. Questo interesse crescente, supportato anche dalle opinioni di Bleuer (ivi) sulla mancata degenerazione di alcune forme di dementia praecox, fu soppiantato energicamente dall’attenzione per le cosiddette nevrosi di transfert, ritenute essere dalla maggioranza più trattabili, per cui la parola borderline cadde perlopiù nel dimenticatoio, tranne nei rari casi in cui veniva associata a condizioni  vicine alla psicosi maniaco-depressiva. Fu nel 1938 che il termine fu improvvisamente riesumato da Stern (1938), il quale lo utilizzò per descrivere alcuni pazienti che presentavano caratteristiche non assimilabili alle distinzioni nosologiche allora in uso e che manifestavano ipersensibilità, rigidità difensiva e bassa autostima. Fu comunque con Victor W. Eisenstein (1951) che la parola borderline si diffuse rapidamente negli ambienti scientifici, dando via a diversi lavori di ricerca, tra cui quello di Knight del 1953 grazie al quale la parola borderline identificò una precisa categoria diagnostica caratterizzata da una notevole fragilità dell’Io e una marcata incapacità a gestire gli impulsi. Knight osservò che dietro un apparente funzionamento nevrotico, questi pazienti celavano una forte regressione e una grande debolezza strutturale, non riconducibile, però, ad un quadro di tipo psicotico, poiché alcune capacità psichiche rimanevano intatte. Queste osservazioni sono state fondamentali, soprattutto perché hanno dato avvio a tutti quegli approcci di natura psicodinamica che svilupperanno ipotesi sulla struttura di personalità e sull’assetto difensivo sottostanti il disturbo, piuttosto che descriverne un quadro sintomatologico (Caviglia, Iuliano, Perrella, 2005). Si pensi, ad esempio, alla personalità “come se” descritta dalla Deutsch (1942), alla “sindrome da abbandono” (Guex, 1949), e così via.

Verso la fine degli anni Sessanta, Grinker e il suo gruppo di ricerca (1969) descrissero quattro tipologie di pazienti che si collocavano lungo un continuum sintomatologico dal nevrotico allo psicotico e che comprendeva un “borderline nucleare”, caratterizzato daaffetti negativi e difficoltà a mantenere relazioni interpersonali stabili, e un “borderline come se”, contraddistinto invece da un maggiore senso di perdita e diffusione dell’identità. Qualche anno più tardi Gunderson e Singer (1975) definirono uno strumento, quale l’Intervista Diagnostica per i Borderline, che considerava come discriminanti per questo disturbo l’affettività intensa, l’impulsività, l’adattamento superficiale alle situazioni sociali, episodi psicotici transitori, tendenza a perdere i nessi associativi in situazioni non strutturate e modelli relazionali instabili. Come sappiamo, l’interesse psicoanalitico verso questo disturbo raggiunse l’apice tra il 1967 e il 1975, quando Otto Kernberg (1981) giunse a definire un’organizzazione borderline di personalità caratterizzata da debolezza dell’Io, meccanismi di difesa primitivi, relazioni oggettuali conflittuali e diffusione di identità. Più di recente, sempre in chiave psicodinamica, anche le teorie della mentalizzazione e della funzione riflessiva (Fonagy, Target, 2001) hanno parlato di disturbo borderline, focalizzando l’attenzione sugli aspetti eziopatogenetici e sui deficit di mentalizzazione e metacognizione. In ottica cognitivo-comportamentale, invece, ad oggi, si considerano come caratterizzanti il disturbo il pensiero dicotomico, un senso di identità debole/instabile (Beck, 1990) e una marcata disfunzione della regolazione emotiva (Linehan, 1993).

Già 20 anni fa, Joel Paris (1996) evidenziava, però, quanto l’eccessivo riduzionismo cui era stato oggetto il disturbo avesse in qualche modo allontanato dal disturbo stesso, di per sé già estremamente eterogeneo, per cui l’autore aveva tentato di raggruppare i vari approcci presenti in letteratura, definendo un modello bio-psico-sociale, che si sviluppava su alcuni core dimensions della patologia in questione: instabilità affettiva, impulsività, disturbo di identità e disturbi cognitivi. Più di recente, sulla scia di Paris, ancheLiotti (2008) aveva proposto un’ipotesi integrativa dei vari approcci, a partire, però, dalla disorganizzazione dell’attaccamento.

Dal punto di vista più propriamente fenomenologico, l’Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology (Stanghellini et al., 2019)descrive il disturbo borderline di personalità come un disturbo i cui pazienti sembrano oscillare prevalentemente tra disforia e rabbia: la disforia parrebbe essere più un tratto fisso, mentre la rabbia una caratteristica intermittente. Come sappiamo, poi, in ambito fenomenologico, Stanghellini (2018) ha approfondito diverse volte la questione borderline, parlando di informe e aneidos.

Come si evince da questo breve excursus storico del termine, l’orientamento di matrice psicodinamica ha influenzato in modo decisivo lo sviluppo di una classificazione della patologia borderline, in particolare di una patologia borderline di personalità, sebbene in origine, come abbiamo visto, il concetto fosse pressoché collegato all’impossibilità di analizzare alcuni pazienti che mostravano tratti al confine tra psicosi e nevrosi. Eppure, già nel 1976, Jean Bergeret evidenziava quanto, invece, fosse più evidente una connessione tra patologia borderline e depressione, e che  l’utilizzo del termine borderline, in quanto patologia di confine, potesse non rispondere più all’esigenza cui questo termine rispondeva già allora. Per questo, da un certo momento in poi, si comincerà a parlare sempre più diffusamente di area borderline odi borderland, ossia di un’area non più assimilabile all’area nevrotica o a quella psicotica, e verranno utilizzate sempre più locuzioni di senso e metafore per designare questo disturbo (“patologia di confine”, “stato limite”, “stato frontiera”, e così via). Come sappiamo, il termine inglese borderline ècomposto dalle parole “border” (trad. in proprio: limite, confine, bordo) e “line” (trad. in proprio: linea). Con funzione attributiva, il termine va a significare “che è al limite fra due condizioni definite”, quindi “in posizione marginale”, “caso limite”. Con significato analogo, è usato anche in italiano per indicare una posizione intermedia, al confine tra lo stato normale e quello patologico. Quando parliamo, invece, di stato “frontiera” (dal provenzale antico “frontiera”, ossia “che fa fronte”) facciamo sempre riferimento ad una linea di confine (o anche a una zona di confine), ma il termine rimanderebbe maggiormente ai sistemi difensivi utilizzati per far fronte a qualcosa che potrebbe accadere. È importante ricordare che da questo termine, poi, derivano anche parole come “affrontare”, “confrontare”, “raffrontare”, termini che ci rimandano al paragone, alla distinzione, al marginare. In una recente conferenza, il noto psichiatra e psicoanalista francese Jean-Louis Chassaing (2022) approfondisce l’uso di questi termini e ciò che hanno identificato nel tempo, allo scopo di capirne il senso:  «Quando parliamo di linea di confine, di che linea parliamo? Rappresenta una semplice linea? Indica un passaggio o è neutra? Appartiene ad un territorio o ad un altro? Che spessore ha? Identifica una zona o una landa?» (ivi). Secondo lo psicoanalista francese, la parola landa, in particolare, rappresenterebbe al meglio il nocciolo della questione: la landa è un paese senza confini riconosciuti, una distesa incolta, arida, selvaggia, ma che a volte può estendersi anche su diversi paesi, come, ad esempio, accade per la Lapponia (in inglese Lapland), di cui solo i Sami ne sanno riconoscere i confini.

Rispetto al termine linea, che deriva dal latino linum (“filo di lino”), lo identifichiamo spesso a un qualcosa di più tagliente, un bordo, un tratto che si può seguire. La linea designa quasi sempre un limite, sia che questo sia concretamente segnato o rappresentato da una successione lineare, sia che sia puramente ideale. Si parla così di linea di confine, di separazione, di demarcazione. In senso figurato, sia in italiano che in inglese, la linea può essere utilizzata anche nelle locuzioni “linea di condotta”, “deviare dalla linea retta”, “essere fuori linea”, “fuori gioco”, “allinearsi”. Anche il termine bordo rimanda al margine, all’orlo, all’estremità e all’essere “a bordo” o “fuori bordo”, “virare di bordo”, ecc. Tutte queste parole, insomma, ci rimandano a delle immagini perlopiù simili, ma che presentano sfumature diverse: ci riferiamo a qualcosa che si può valicare o a qualcosa su cui si resta, senza cadere mai? Siamo effettivamente al confine tra le due grandi aree psicopatologiche o parliamo, invece, di uno stato a parte?

La questione del limite

Uno stato limite, secondo quanto riportato da Chassaing (ivi), rappresenterebbe uno spazio chiuso, definito, che limita il reale. Uno stato senza limite, invece, presupporrebbe una condizione il cui bordo appare irraggiungibile: uno stato chiuso, in quanto stato, ma la cui fine è puramente virtuale. Dal punto di vista psicopatologico, queste due condizioni si rifletterebbero anche in conseguenze cliniche diverse: da una parte, abbiamo una situazione relativamente chiara, di uno stato al limite tra nevrosi e psicosi; dall’altro uno stato contraddittorio, incerto, vacuo, chiuso, ma aperto, che possiamo solo descrivere fenomenicamente. Di recente, lo psicoanalista francese Charles Melman (2010) ha parlato di stati senza limite per descrivere la figura di un soggetto contemporaneo, da lui soprannominato “uomo senza gravità”, che vive nella dimensione de-simbolizzata e destrutturata della nostra società. Nel suo ultimo saggio (Melman, Lebrun, 2018), Melman parla proprio della decadenza contemporanea, in cui le persone non ricercano più il piacere, ma uno stato di costante e ininterrotta eccitazione. In questo modo, la sessualità regredirebbe ad un bisogno come gli altri, per cui, venuto meno l’appiglio simbolico del Padre (il declino del Nome del Padre), sarebbe proprio la funzione del limite a pagarne le maggiori conseguenze e a essere eliminata.

In fenomenologia, il limite è un qualcosa a cui si fa spesso riferimento se consideriamo l’essere-per-la-morte. Per Heidegger (1927), infatti, l’esistenza è autentica quando è pervasa dall’angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della nostra finitudine, che ha dunque una valenza positiva, in quanto rende autentiche le scelte e, di conseguenza, la vita (cosa che non potrebbe avvenire, invece, in una prospettiva di vita eterna). Nella società moderna, in cui non si parla, ma si chiacchiera, e non si aspira più alla conoscenza, ma alla curiosità, la morte verrebbe dunque rimossa. L’aspetto più inautentico dell’esistenza della società di massa risiede proprio nel fatto che perfino la morte viene vissuta nel Si impersonale: non più “io muoio”, ma “si muore”, quasi come se la morte non ci coinvolgesse più in prima persona. La certezza della morte, da sempre alla base della cultura umana, è oggi quindi messa totalmente in discussione in Occidente, nella società cosiddetta “post-mortale” (Manicardi, 2011): una società insofferente dei limiti, che tenta di far indietreggiare la morte, di intervenire sulle sue cause, di modificarne le frontiere, di spingere sempre oltre il limite la longevità umana.

Il soggetto contemporaneo nella modernità liquida

Ogni crisi esistenziale ripropone il problema della realtà del mondo e della presenza dell’uomo nel mondo; ogni crisi è in definitiva religiosa, poiché l’Essere si confonde con il Sacro.

Mircea Eliade

Secondo Rossi Monti (2012), il disturbo borderline può essere descritto alla stregua di un disturbo etnico, ossia di un disturbo capace di essere alimentato e alimentare il particolare momento culturale contemporaneo che stiamo vivendo. Scrive Beneduce (1999, p.74): «Le malattie partecipano alla riproduzione delle culture non meno di quanto inversamente le culture non partecipino alla costruzione delle prime». Siamo dunque di fronte ad un effetto di auto-mantenimento, per cui gli stereotipi psicopatologici retroagiscono sui fenomeni culturali, realizzando così un mutuo rinforzo (Rossi Monti, 2012). Ciò è ancora più chiaro se prendiamo in considerazione il punto di vista antropologico (Tonna, 2012), secondo cui il rapporto tra fenomeni culturali e la costituzione del Sé/mondo è un rapporto circolare: tramite esso, infatti, viene garantita la naturalità dell’evidenza e la costituzione di quegli orizzonti di significato che ci permettono di vivere in un mondo familiare e condiviso. «La necessaria relazione con gli altri, l’impossibile coscienza di sé, la legittima aspirazione a conoscere il mondo: all’interno di questo triangolo si è giocata la storia degli uomini e si giocherà ancora domani a un ritmo accelerato e senza tregua» (Augé, 2017, p.25). «Oggi più che mai stiamo assistendo ad uno sconvolgimento straordinario, che non ha a che fare con le grandi questioni metafisiche o con le particelle invisibili della fisica quantistica, ma che ci convoca in prima persona: le nuove forme di comunicazione, la gestione dello spazio virtuale e non, la percezione del nostro corpo, il progressivo dis-assemblaggio e ri-assemblaggio della struttura famigliare, eccetera» (Cima, 2019). Bauman (2011), ad esempio, parla di modernità liquida per nominare la nostra società dominata dall’efficientismo e caratterizzata da una vorticosa trasformazione dei mezzi e degli obiettivi a cui quasi non si riesce più a stare dietro. Scriveva Heidegger, già nel 1959 (p. 39): «Ciò che è inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non sia affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo». Nella società occidentale contemporanea, infatti, la vita si frammenterebbe in episodi, a volte anche contraddittori, in istanti precari, rendendo così le mete sempre più prive di significato motivazionale ed esistenziale.

L’istantaneità nel tempo, nello spazio e nella dimensione coesistentiva

L’abolizione del tempo è il sogno del nostro tempo. La società senza tempo (invece che senza classi) è la speranza del domani. In questa nostra epoca non esiste un attimo che non sia dedicato – “giacché il tempo non ha alcuna importanza” – allo sforzo di annullare il tempo; di rendere il tempo una faccenda antiquata, una cosa di ieri.

Günther Anders

L’istantaneità, in quanto matrice temporale della condizione post-moderna, se da un lato promette l’illusione di un accesso fulmineo e diretto a se stessi e agli altri, dall’altra impedisce di sviluppare solidi legami d’appartenenza, di costruire identità stabili, coerenti, basate sulla crescita personale (Muscelli, Stanghellini, 2014). Il tempo istantaneo si rifletterebbe nei tempi ristretti di funzionamento delle nuove tecnologie informatiche, nella simultaneità delle relazioni sociali, nella frammentazione del tempo, che comporta, a sua volta, la fine delle narrative di lunga durata e la sostituzione delle storie con i frammenti (Muscelli, 2014). Nella vita dell’adesso, condotta dagli avidi consumatori di nuove erlebnisse, la ragione di affrettarsi non è data dalla spinta ad acquisire e conservare, ma dalla furia di scartare e sostituire continuamente (Bauman, 2011). Internet ha decretato la fine della comunicazione lineare, sequenziale, lenta e cumulativa che si costruiva nella narrazione: l’informazione oggi è esplosa in miliardi di frammenti, che ciascuno dovrebbe ricostruire a proprio piacimento e che, appunto per questo, preferisce non ricostruire affatto.

Anche lo spazio, percorribile virtualmente, si dissolve e con ciò tende a «dissolversi il pilastro dell’esistenza incarnata reale, cioè il corpo» (Muscelli, Stanghellini, 2014). In un’epoca la cui temporalità è orientata al futuro, l’identità si concettualizza in termini di progetto: avere un’identità significa avere un progetto. Heidegger (1927) spiega che l’identità umana è interamente fondata sul progetto della propria esistenza, poiché l’Uomo è fondamentalmente caratterizzato dalla visione ambientale preveggente, cioè dal vedere all’interno del mondo. Per Heidegger, quando io vedo qualcosa, non la vedo così com’è, ma la vedo in relazione a un’appagatività, attraverso il cosa voglio farne. Quando parliamo di visione nel mondo parliamo di ciò che io voglio fare del mondo e, in base a ciò, quella cosa mi apparirà in un modo o in un altro. In un’epoca storica come la nostra, invece, la cui temporalità è orientata all’istantaneità, l’identità si configura come un’identità flessibile, che implica il vissuto del vuoto, o meglio ancora del vacuo, l’incoerenza dell’Io, la dissipazione del Sé (Muscelli, Stanghellini, 2014). È una forma di identità priva della dimensione diacronica, ossia della continuità che nasce dallo scorrere del tempo implicito, e della dimensione narrativa, ossia della continuità del tempo esplicito, quella che deriva dall’efficacia del dialogo interiore. L’altro, quindi, non è più il partner con cui dialogare, a cui rispondere, a cui rendere conto, ma ciò grazie al quale mi definisco.

In termini ancora più orientati alla dimensione socio-culturale del fenomeno, questa configurazione antropologica sembra costituita dall’impossibilità di considerare l’altro come partner con cui avere un rapporto che si costruisce gradualmente nel tempo, resistente alla distanza e all’assenza dell’altro. Anzi, il rapporto con l’altro è concepito solo nella presenza presente dell’altro. L’assenza, dunque, che dovrebbe presupporre il desiderio dell’altro, non contribuirebbe più allo sviluppo di un legame: l’altro si discioglie e si smaterializza nel bisogno della sua presenza continua che non tollera differenza, differimento e interruzione. Lo spazio non è uno stacco necessario per mettere a fuoco la fisionomia dell’altro e la sua identità, ma un baratro in cui Sé e Altro si inabissano. Ricœur (1985) ha individuato un legame fortissimo tra la traccia narrativa della storia e la costruzione dell’identità del soggetto, attraverso il suo coinvolgimento in questi racconti, tra memorie individuali e collettive: l’identità di ognuno è realizzata grazie alla memoria e alla capacità di raccontarsi. La vita nella configurazione borderline è, invece, in molti casi, una serie sconnessa di eventi fugaci, atemporali, in cui si passa da un momento presente al successivo, dilaniata dall’emergenza di desideri e impulsi che divampano e scompaiono come meteore. Nell’istantaneità si è assorbiti dall’immediatezza, sospesi tra il momento orgiastico e il momento del vuoto e della noia. Nel momento orgiastico si tende al godimento, ma in un modo che non può essere profondo, proprio perché non c’è proiezione verso il futuro (Muscelli, Stanghellini, 2014). Questo presente transitorio, tra l’altro, non ha profondità: manca l’appagamento, che può originare solo dall’integrazione del presente con esperienze passate e con l’anticipazione del futuro. Secondo Stanghellini e Rossi Monti (2009), la memoria non appartiene più a un passato distinguibile dal presente, e quando l’esperienza del passato intrude, spesso traumaticamente, essa è sentita come una ferita o un corpo estraneo. Il passato traumatico è interamente collocato nel presente, sovvertendo in modo intermittente il senso corrente dell’essere persona. «Questa immediatezza nella quale si trova il paziente borderline è uno spazio indifferente, vuoto di ogni momento di negazione; negazione che gli sarebbe necessaria per trascendere se stesso in quanto sé e individualizzarsi» (Kimura, 2005, p. 109).

Di fronte a un quadro che potrebbe apparire disperato, Muscelli e Stanghellini (2014) propongono, però, una possibilità data dal rallentamento che può e deve realizzarsi all’interno del paradigma culturale della cura. L’istantaneità, infatti, non è da considerarsi un male da scacciare ad ogni costo, ma anzi rappresenta un tratto da rivalutare e reinserire in maniera diversa all’interno della visione post-moderna. Scrive Delladio: «Quest’altro modo deve essere in grado di contemplare la possibilità di narrare il tempo dell’istantaneità affiancandolo, e così diversificandolo, ai cosiddetti “tempi interstiziali”: l’attesa, la sosta, la sorpresa, il dono, in quanto introducono una discontinuità nel tessuto temporale. Il principio culturale che dobbiamo in qualche modo riscoprire, in luogo di quello basato sull’immediatezza, giace qui, negli interstizi, nelle intercapedini, nelle crepe, nelle fessure; recuperare queste dimensioni esperienziali è risincronizzarsi con il Tempo, la Storia, l’Identità» (Delladio, 2014, p. 277).

L’esperienza dell’informe

Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini,

di qualcosa da amare.

Sylvia Plath

Il tema dell’informe o dell’aneidos, sviluppato a partire dagli anni Trenta da von Gebsattel[i] e da Straus[ii] sulle ossessioni da contaminazione, è stato ripreso negli ultimi anni da Stanghellini (2018) per descrivere l’esperienza che alcune configurazioni psicopatologiche fanno del mondo. L’ossessivo, e in particolare l’ossessivo da contaminazione, nella sua versione paradigmatica, sarebbe condannato a una chiara visione dell’informe, da cui si sentirebbe costantemente minacciato[iii]. L’informe rappresenterebbe l’indistinguibilità tra la vita e la morte, la carne che si insinua nell’organizzazione logica del corpo, ciò che non si vede eppure c’è, quel brulicare nella materia che si consuma.

L’anti-eidos su cui si basa la comprensione del mondo dell’ossessivo di von Gebsattel va distinto da un’altra visione dell’informe, quella dell’aneidos, ossiala visione fisiognomica dell’ambivalenza. L’aneidos è la visione dell’informe in quanto polimorfo, anziché amorfo: l’intreccio tra vita e morte, tra puro e impuro, bene e male, positivo e negativo. Secondo Stanghellini, nella condizione borderline è proprio l’aneidos ad essere ricercato, poiché il borderline sembra sentirsi vivo solo sul punto di morte. L’emozione alla base della difesa all’esperienza dell’informe sarebbe, difatti, l’inquietudine, stato d’animo che porta sia alla vita che all’annichilimento. Scrive Stanghellini: «Da un lato, questo potere è un violento spasmo che prende il controllo del corpo e distrugge la struttura incarnata che organizza il coinvolgimento intenzionale col mondo. Dall’altro lato, esso è anche un potere che esprime una vitalità in contatto con la fonte di tutte le sensazioni. Tale potere aumenta il senso di essere vivo, fa sentire la vita in modo immediato, in tutte le sue potenzialità dinamiche, prima che la vita stessa scenda a compromessi e si dia una forma compatibile con i canoni di ciò che si considera una vita umana normale. […] Ma l’inquietudine è anche “una pulsazione il cui movimento può farsi dispendio, scialo, pura dissipazione: il movimento appena compiuto viene revocato ed estinto dal movimento successivo, a cui segue un ulteriore movimento che revoca il precedente, annullando lo svolgersi lineare del tempo, impedendo che il passato sia passato, riproponendo il già stato in maniera infinita ed estenuante. In questo senso, è un’esperienza di morte, una specie di morte nella vita in cui domina l’assenza di evoluzione e di futuro, che si accompagna a rappresentazioni frammentarie e contraddittorie di sé e degli altri, e induce esperienze dolorose di incoerenza e vuoto interiore, minacciose sensazioni di incertezza e inautenticità nelle relazioni interpersonali, e straziante senso di insignificanza, futilità e inanità» (ivi, pp. 60-61).

L’immaturità affettiva e il problema dell’identità

In un lavoro del 2018, Di Piazza e Dainelli introducono il concetto di immaturità affettiva per descrivere tutte quelle condizioni di malessere contemporanee caratterizzate principalmente dalla difficoltà a controllare le emozioni e a tollerare la frustrazione, dalla dipendenza affettiva, dal bisogno di sicurezza e dalla suggestionabilità. Gli autori comparano questa condizione ad un frutto acerbo, non maturo, senza zucchero e senza sapore, che in potenza e in divenire potrebbe essere ciò che dovrebbe, ma che in realtà (ancora) non è. Attraverso questa immagine, appare chiara l’impressione di un’esistenza molle che pare rendere ogni tentativo di cura del tutto vacuo: il soggetto immaturo è, infatti, sfuggente e vaporoso nel contatto, inafferrabile, inconcludente. Secondo gli autori, ciò sarebbe collegato ad un’attitudine di non investimento o di carente investimento nei ruoli: istantaneità, immediatezza (nel senso di non-mediato) e passato non sedimentato connoterebbero il mondo di instabilità e inconsistenza, rendendo difficile il riconoscimento della persona in un ruolo sociale, identitario e relazionale. A livello dei sentimenti, poi, l’immaturo si percepisce all’interno di un vortice che lo stravolge e lo trascina, come se fosse sempre in una condizione di passività. Gli eventi della vita sono vissuti da lui come irreparabili e immodificabili: le lamentele rinviano ad una perdita reale, con un impatto ingente sull’esistenza e sulla vitalità del paziente, sebbene egli non viva poi un reale sprofondamento depressivo. Per vivere uno evento depressivo, infatti, è necessario che il ruolo identitario abbia aderito in profondità con l’identità e che i vissuti assumano corpo e corposità (sedimentazione, dispiegamento storico, capacità di auto-osservarsi, ecc.). In mancanza di ciò, nell’immaturità affettiva si svilupperebbe, invece, una sorta di corto circuito di disperazione da cui sfuggire con agiti anticonservativi o con condotte parasuicidarie: «La fascinazione per la morte, percepita come modo per uscire dall’impasse e dalla stasi, affiora nella mente dell’immaturo, per il quale vita e morte non hanno consistenza: in questo contesto il gesto suicidario può rappresentare un modo (uno dei tanti a sua disposizione) per confrontarsi e sondare i limiti, sfidando la vita» (ivi, p.196). Anche la disperazione non si sedimenta, «ma rimane sempre a fluttuare e gorgogliare nella tipica indefinitezza di chi la esprime» (ivi, p. 191). Nel caso dell’immaturo, poi, l’atmosfera angosciante di irreparabilità scompare molto presto, lasciando spazio ad un atteggiamento di attesa disinteressata; i sentimenti di solitudine non coinvolgono il soggetto in una messa in discussione o nella colpa, ma favoriscono quell’egoismo collegato alla suscettibilità, alla vanità e alla testardaggine che lo caratterizzano; la disperazione non risulta come un appello all’altro e al suo aiuto, ma come un’espressione furiosa e frustrata contro l’altro e contro il destino (Tatossian, 1989), nell’ottica di una insofferenza verso tutto e tutti, che allontana e annienta ogni forma di ristrutturazione.

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[i] V.E. von Gebsattel parla di perdita dell’«eidos» (cioè della forma) e dell’incombere dell’«antieidos» (cioè dell’informe), simboleggiato dai temi dell’impurità, della contaminazione, del deterioramento, della corruzione fisica e morale. Cfr. C. F. Muscatello et al., Sulla struttura antropoanalitica dell’ipocondria. II Parte. Al di là di una fenomenologia descrittiva: l’ipocondria come metafora del «male», in Psichiatria generale e dell’età evolutiva, 37 (4), 2000.

[ii] E. Straus, rispetto al tema dell’informe, si concentra maggiormente sulla questione del tempo (il divenire) e sulla materialità: la materia perde la sua unità e la sua organicità per divenire sostanza in decomposizione, substrato eternamente morente per l’ossessivo. Secondo l’autore, è la percezione costante di questa qualità fisiognomica, che pervade l’intera realtà materiale, a provocare l’intollerabile disgusto dal quale l’ossessivo tenta invano di liberarsi. Cfr. C. Muscelli, Erwin Straus e l’analisi strutturale delle ossessioni, in Comprendre, 19, 2009, pp. 281-285.

[iii] La figura clinica dell’ossessivo, che reputa intollerabile l’esperienza dell’informe, si difende separando e tentando di arrestare il tempo e con esso il divenire, in quanto vissuto, non come progresso e accrescimento, ma come disordine e indistinzione.

Imma Zarrella

Imma Zarrella, Psicologa e Psicoterapeuta a orientamento fenomenologico, PhD in Psicologia sociale, dello Sviluppo e Ricerca Educativa presso la Sapienza-Università di Roma, socia dell'Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica. Esercita come libero professionista a Caserta.

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