“Si è ormai stanchi d’interrogarsi sui concetti fondamentali, si vuole la quiete”.
– Martin Heidegger
Una delle più influenti opere di Heidegger (“I problemi fondamentali della fenomenologia”, 1975) riporta questa ironica battuta che, di per sé, credo introduca bene la portata rivoluzionaria della concezione filosofica (e antropologica) del noto filosofo di Messkirch.
Come suggerisce il titolo dell’opera, la fenomenologia (intesa come metodo di conoscenza della realtà), sin dal momento in cui è sorta, si è trovata a dover fronteggiare alcune annose questioni circa i fondamenti filosofici ed epistemologici di base radicati nel clima culturale e scientifico di quel tempo (Liccione, 2011). In questo scritto, che raccoglie le prime lezioni del giovane Heidegger all’Università di Friburgo (1919-1920), oltre a delinearsi il primo pensiero filosofico e fenomenologico dell’autore, si pongono le basi per un radicale ribaltamento del sapere e delle sue condizioni di possibilità: in aperta contrapposizione a quelle che erano le premesse filosofiche, epistemologiche e scientifiche del tempo [1], che tendevano ad “oggettivare” la realtà ed i loro rispettivi oggetti di studio (tra cui l’uomo), Heidegger propone una nuova modalità di accesso alla conoscenza del reale (e, di conseguenza, allo studio dell’uomo) che implica l’analisi e la comprensione della vita (e dell’uomo) nella sua “fatticità” e nelle sue originali manifestazioni, senza ridurla a categorie conoscitive o a mere costruzioni dell’intelletto umano. Di conseguenza, la fenomenologia diventerebbe la scienza originaria della vita [2], colta nella sua “pulsante vitalità [3]”e non oggettivata secondo rapporti matematici e fisici.
Giunti a questo punto, ci si potrebbero porre alcune domande, quali, ad esempio: cosa significa “realtà” per Heidegger? Chi è l’essere umano? Cosa ci dice la fenomenologia rispetto al “mondo” e rispetto all’uomo? E, soprattutto, che rapporto c’è tra questo e la realtà (o mondo)?
Tutte le questioni introdotte da Heidegger, molto sinteticamente racchiuse nelle domande sopra esposte, confluiscono nella sua opera principale, Essere e Tempo (1927), in cui acquisisce sistematicità la sua domanda circa il senso dell’essere.
Scrive Costa (2015, pp. 58-59) rispetto a questa tematica:
“[…] Riproporre il problema del senso dell’essere significa allora indagare l’esperienza a partire dalla quale questa determinazione del senso dell’essere si è potuta imporre e, nello stesso tempo, problematizzarla per aprire altre possibilità del pensiero. Pertanto, da un lato sarà necessaria un’analitica dell’Esserci, cioè di quell’essere nel quale l’interpretazione del senso dell’essere accade[…]; dall’altro sarà necessario sviluppare una decostruzione della storia dell’ontologia che ha determinato il senso dell’essere come semplice presenza.”
Da quanto riportato, emerge chiaramente il punto fondamentale delle riflessioni di Heidegger: una vera e propria rivoluzione paradigmatica circa le premesse sulla natura umana (chi è l’essere umano?) e sulla totalità degli accadimenti e dei fenomeni in cui l’uomo vive, intesa come mondo.
La prima questione centrale è quella che ci chiama in causa in quanto esseri umani: chi siamo noi? Heidegger definisce l’uomo un Dasein, ossia un Esser-ci. Il termine tedesco non si traduce semplicemente con “soggetto” (sarebbe un errore ontologico), ma racchiude in sé un significato più ampio, tanto da essere tradotto con il termine “Esistenza”(o Esser-ci). A questo proposito, scrive Heidegger (1975, p. 25 in Liccione 2011):
“[…] il termine Dasein (esserci) indica un ente determinato, l’ente che noi stessi siamo, l’esserci dell’uomo. Noi siamo sempre un esserci (Dasein)… Il modo d’essere dell’esserci noi lo designiamo col termine esistenza… Perciò si può dire ad esempio: un corpo non esiste, ma sussiste. Al contrario, dell’esserci – di noi stessi – non si può dire che sussiste, bensì che esiste.”
L’essere umano, dunque, è un’esistenza che si sviluppa secondo il proprio tempo (Essere e Tempo…Essere è Tempo…) e a partire da un essere-nel-mondo, sempre situato in un contesto (il –ci della traduzione italiana). Qui giace la vera portata della riflessione heideggeriana: l’uomo non è semplice coscienza o mero soggetto che ha bisogno della mediazione di categorie conoscitive per approcciarsi alla realtà [4]; l’Esser-ci è tale poiché è il luogo in cui l’essere stesso si manifesta (Heidegger, 1927; Costa 2015) dato che la costituzione fondamentale del Dasein è l’essere-nel-mondo ossia il suo essere esistenza. In questo senso, scrive Costa (2015, pp. 60): “la soggettività non deve essere pensata come il fondamento [5] ma come il luogo della verità dell’essere”. L’Esserci è nel mondo, presso le cose e presso delle possibilità che gli sono più o meno proprie ed è sempre nell’atto di farsiin vista di un futuro, infatti:
“[…] l’essenza di questo essere consiste nel suo aver-da-essere […]. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. […] L’Esserci si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e che, nel suo essere, in qualche modo comprende. […] E qui si fonda, per l’interpretazione ontologica di questo ente, l’indicazione a svolgere la problematica del suo essere partendo dalla esistenzialità della sua esistenza.” [Heidegger, 1927, trad.it 2015, pp. 68-71]
Una delle condizioni necessarie del nostro Essere, dunque, è il fatto di essere situati in un mondopresso le cose e presso altri con-Esserci. Heidegger ci dice che il mondo non è atro che l’orizzonte di senso e di possibilità in cui l’essere umano vive e in cui sceglie ogni giorno di prendersi cura responsabilmentedella propria esistenza [6]. Infatti,“se il mondo è la totalità di senso in cui l’Esserci si muove, allora l’Esserci è già da sempre nel mondo”(Costa, 2015 p. 62): l’apertura al mondo è dunque originaria per l’essere umano e si esprime anche attraverso la situazione emotiva che, determinando il nostro sentirci nel mondo, fa si che le possibilità vengano comprese.
Il punto fondamentale della filosofia heideggeriana è sicuramente la svolta ontologica alla quale il filosofo tedesco sottopone l’intera tradizione culturale pre-esistente: se per la filosofia Medioevale (soprattutto per San Tommaso) l’ontologia dell’uomo era la sua essenza (che in qualche modo incarnava la perfezione Divina), per la fenomenologia e, dunque, per Heidegger, l’ontologia dell’essere umano è la sua esistenza! L’uomo non è più ciò che è in vista di un qualche progetto Divino, ma è la sua (propria, dal tedesco Eigen) esistenza, quelle che ogni giorno è nell’atto di farsi in vista di un aver-da-essere, di un progetto apertosi in un orizzonte di attesa. Non possiamo ignorare l’effetto che questo ribaltamento ontologico (e, dunque, epistemologico) ha provocato non solo nella tradizione filosofica successiva, ma anche in discipline affini che fondano le proprie basi sulla filosofia, come l’antropologia e la psicologia.
Rispetto alla psicologia, la concezione filosofica e ontologica dell’uomo che ogni scuola di pensiero fa propria determina inevitabilmente gli interventi all’interno di una psicoterapia: se la fenomenologia heideggeriana ci dice che l’uomo è sempre oltre sé stesso, in vista dei suoi progetti futuri è chiaro che una psicoterapia basata su questo fondamento ontologico non potrà che rivolgersi al futuro del paziente. Così, la depressione sarà una patologia che consegue alla chiusura inaspettata e definitiva magari di un orizzonte di attesa, una patologia in cui l’individuo perde la sua capacità progettuale ed inizia a vivere solo nel presente, quasi identificandosi totalmente con il contesto in cui (soprav)vive. In questo senso, la psicoterapia si pone nell’ottica di cercare di aprire, partendo dai modi di essere e fare esperienza del paziente, nuovi orizzonti di senso che lo “rilancino” verso il suo futuro. Al contrario, se l’assunto di base circa la natura umana ci porta a paragonare l’uomo ad una macchina (un computer) è indubbio che la psicopatologia sarà considerata come un errore di funzionamento della mia macchina-cervello e dunque la psicoterapia sarà un intervento tecnico di riparazione del guasto.
L’impatto della filosofia heideggeriana è un tema molto ampio che può essere sviluppato su numerosi fronti, in ragione del fatto che molte riflessioni successive a quelle del maestro dipartono proprio dalla sua concezione ontologica dell’essere umano. Molte restano ancora le questioni da esplorare circa l’eredità che il filosofo tedesco ci ha lasciato, ma in fondo:
“[…] quel che ci resta di più prezioso sono proprio le questioni irrisolte, gli interrogativi inevasi, gli argomento adombrati, i nuovi cammini intravisti.” [Arciero & Bondolfi 2012, p. 287]
BIBLIOGRAFIA:
- Arciero, G., Bondolfi, G., (2012), Sé, Identità e Stili di Personalità, Bollati Boringhieri, Torino.
- Costa, V. (2015), Heidegger, Editrice La Scuola, Milano.
- Costa, V. (2016), Husserl, Carocci Editore, Roma.
- Heidegger M. (1927), Essere e Tempo, Trad. It. (2015), Arnoldo Mondadori Editore, Milano.
- Heidegger M. (1975), I problemi fondamentali della fenomenologia, Trad. It (1999) Il Melangolo, Genova.
- Liccione D. (2011), Psicoterapia Cognitivo Neuropsicologica, Bollati Boringhieri, Torino.
NOTE:
[1]Nei primi anni del Novecento il panorama scientifico e culturale è dominato dalla corrente filosofica del Positivismo che influenza decisamente le modalità di approccio allo studio della realtà e dell’essere umano.
[2]Sembra doveroso precisare che la nozione di “fenomenologia” viene introdotto per la prima volta da Husserl, maestro e conoscente di Heidegger. Per ulteriori precisazioni, si può fare riferimento a “Husserl”(2016) di Vincenzo Costa.
[3]Il rimando qui all’opera di Nietzsche “così parlò Zarathustra”(1885) è alquanto evidente.
[4]L’idea della modernità (quindi da Cartesio in poi) qui sottointesa è quella di un soggetto con un Sé stabile e permanente, centro di esperienza ma sempre uguale a sé stesso nel tempo.
[5]Evidente il riferimento qui alla tradizione filosofica che parte da Cartesio e che giunge fino al Neokantismo.
[6]Velato rimando a Nietzsche.