Si legge tutto di un fiato e alla fine, senza neanche accorgersene, si crea un legame con questa donna originale, a volte eccentrica, a tratti geniale che vi fa entrare nella propria vita senza troppi filtri.
Il libro è un insieme di considerazioni tecniche, di racconti di vicende personali e di riflessioni a carattere spirituale che concorrono a tracciare i retroscena relativi alla nascita della Dialectical Behavior Therapy (DBT), considerata il trattamento d’elezione per il Disturbo Borderline di Personalità (BPD).
Marsha è una donna fuori dagli schemi, fin da ragazzina. Vive in una famiglia ricca della provincia americana. Si descrive chiacchierona e curiosa ma ad un certo punto ha un crollo emotivo e viene ricoverata in una clinica per ragazze ricche e disturbate. Finisce in un istituto di cure psichiatriche, l’Institute of Living, intorno ai 18 anni. Siamo verso la fine degli anni 60. In quei due anni di ricovero Marsha si pratica tagli sulle braccia e pensa costantemente al suicidio. Marsha ci racconta di essere stata una personalità Borderline.
Prima era una ragazza popolare e molto loquace, praticante cattolica e attivista. Come fa a finire li? Come arriva a finire all’inferno? Marsha non lo sa descrivere. Neanche lo ricorda bene. Ricorda meglio invece la serie di pratiche cliniche che vengono adottate coerenti con la psichiatria del tempo che non fanno altro che aumentare la sua sofferenza. Lontana da casa, descritta come una persona pazza e pericolosa Marsha sta sempre peggio. Trascorre del tempo al Thompson Two, il reparto dell’Institute of Living per i casi più gravi. Viene imbottita di psicofarmaci e la sua sofferenza e solitudine viene alleviata con i tagli e bruciature sulle braccia. Marsha comprenderà dopo, e nel libro ne parlerà molto chiaramente, lo scopo di questi coping: hanno un effetto calmante sulla sofferenza. Ma al momento non se ne rendeva conto: Un’infermiera mi chiese: “Perché l’hai fatto? Perché ti sei tagliata in quel modo?”. “Non lo so” le risposi, ed era la verità.
Marsha descrive la sua ricca famiglia numerosa come felice ma contemporaneamente vediamo una madre estremamente severa, esigente e ipercritica che non ha mai apprezzato l’autonomia, l’originalità e la voglia di essere fuori dagli schemi di Marsha. Il disprezzo è la sua forma principale di comunicazione e tra le righe si intuisce quanto Marsha abbia sofferto ogni volta che, assecondando la sua natura di ragazza intelligente e non aderente al modello di donna borghese della provincia americana, arrivavano critiche e biasimo dalla famiglia e dalla madre in particolare. Possiamo immaginare quanto questo l’abbia fatta sentire bloccata ma anche non adeguata e triste di non poter essere sé stessa fino in fondo, senza perdere l’approvazione e il supporto familiare.
Lo sfondo socioculturale dell’epoca è quello dei movimenti per i diritti civili, del femminismo. Marsha non è come sua madre vorrebbe. Ha delle spinte autonome e creative che la madre non capisce e non approva. Il disprezzo è sferzante. Il dolore è presumibilmente forte. Ma Marsha non ce lo sa raccontare. Sembra non accedervi durante quegli anni. Del resto come avrebbe potuto? Come fa una ragazza giovane, una come tante che troviamo nelle nostre stanze di terapia, a capire quanto dolore le arriva dal vedersi costantemente criticata e non accettata dai suoi genitori per quello che è? Marsha si deprime, il suo umore ha alti e bassi. Prima conosce l’euforia della vita del liceo. Poi pian piano, probabilmente quando il disprezzo e la disapprovazione crescono, Marsha crolla. Si deprime si arrabbia e i suoi genitori la mandano a curarsi in clinica. Questo fa precipitare le cose.
Marsha però non abbandona la sua spinta all’autonomia, si svincola dalla famiglia ed inizia la sua brillante carriera di ricercatrice dopo essersi rimessa in piedi. Inizia un lungo, lunghissimo periodo di alti e bassi, di successi e intuizioni professionali e al contempo di momenti di tristezza, disavventure sentimentali e non, e continui cambi di città.
Marsha ne esce sostanzialmente da sola, grazie a una serie di vicende e incontri spirituali. Ha la grande capacità di fare tesoro di ogni esperienza, comprese le disavventure, da cui impara sempre e trasforma i suoi apprendimenti in skills che poi entreranno nei suoi skills training per persone con disturbo Borderline di Personalità e istinti suicidi.
Ad un certo punto trova anche un terapeuta: Allan L.
Allan è un comportamentista che la descrive depressa, infelice e isolata con una immagine negativa di sé a causa dei cattivi rapporti con i genitori e a causa dei trascorsi in clinica dove non è difficile crearsi un’idea di sé di danneggiata e indegna. Nel libro troviamo uno spazio relativo su questo. Marsha intuisce che il suo dolore sia figlio di una idea di essere sbagliata e l’idea di essere sbagliata nasce nello sguardo dei suoi genitori.
Se avesse avuto trattamenti clinici diversi, come quelli che oggi vanno per la maggiore, non sarebbe stata rinchiusa e imbottita di farmaci, in un luogo dove la giudicavano matta esattamente come i suoi genitori. E forse avrebbe potuto contattare maggiormente il dolore della disapprovazione e tentare di uscirne. Sentirsi indegna e inadeguata, non in diritto di essere sé stessa, cercare il correlato somatico di questa immagine negativa di sé, vedersi in questo modo davanti alla faccia della madre mentre la disprezza avrebbe forse aiutato di più Marsha a capire la sua infelicità, a comprenderne il senso interpersonale, a comprendere quanto questo fosse diventato lo scenario e il panorama di cui spesso si sentiva abitante, tutte le volte che le cose non andavano bene. Ma anche quando andavano bene.
E data questa esperienza, chissà se la stessa DBT avrebbe dato più spazio alla comprensione ed elaborazione del mondo interno dei pazienti. Ma non possiamo saperlo.
Marsha con Allan fa un altro percorso: comprende che le emozioni sono il suo vero problema. E da questa profonda intuizione sviluppa un efficacissimo trattamento per una serie di grandi questioni: quelle della disregolazione emotiva, della tolleranza della sofferenza e dell’efficacia interpersonale. Sviluppa dei mini programmi per ogni problema, denominati con divertenti acronimi, che diventano facili da spiegare, da insegnare e da memorizzare. Un esempio ne è l’abilità TIP (temperatura, esercizio intenso, rilassamento progressivo, pratica del respiro rallentato), abilità di tolleranza della sofferenza volta a ridurre l’eccitazione del sistema nervoso attraverso diverse pratiche quali la modifica della temperatura corporea (insegnare ai pazienti ad usare il ghiaccio sul viso, sui polsi, per calmarsi), fare esercizio fisico intenso, praticare la respirazione rallentata e fare rilassamento muscolare progressivo. Ogni terapeuta ad orientamento corporeo oggi ne riconosce l’importanza e l’efficacia regolatoria e diamo a Marsha il grande merito di esserne stata un precursore.
A lei si riconosce, inoltre, il merito di aver messo a fuoco l’importanza della validazione con i pazienti BPD: Marsha comprende quanto sia forte il senso di indegnità presente in questi pazienti e quanto sia importante aiutarli a sentirsi validi e amabili, capaci. Questo è molto diverso dalle pratiche dell’epoca e ce lo racconta in un passaggio finale del libro. Quando Marsha diviene una terapeuta di fama mondiale è invitata al Weill Cornell Medical College dove incontra Otto Kernberg che al momento era l’unico clinico che di occupava di BPD. In quegli anni il modello terapeutico dominante era la psicoanalisi. Il confronto tra i due è molto interessante. Secondo Kernberg il problema delle personalità borderline era la rabbia, secondo la Linhean invece era la disregolazione emotiva. La psicoanalisi andava a cercare le cause profonde, ma in clinica i pazienti venivano trattati con pratiche cliniche “con un impianto intimidatorio”, è ovvio che “chiunque sarebbe arrabbiato”. E Marsha questo lo sa bene.
I comportamenti dei pazienti quando non si attenevano alle rigide regole venivano descritti come insensati. Ad esempio nel libro ci narra che durante la visita al Weill Cornell Medical College vide una giovane donna, che si era recata in clinica per iniziare un trattamento, la quale non trovando nessuno ad accoglierla, senza aspettare l’infermiera, si recò in ambulatorio. Quando venne intercettata da un operatore la paziente rispose di essere andata lì da sola, perché non voleva fare tardi. Quando se ne andò qualcuno disse che stava cercando di creare problemi. Marsa invece obiettò: “Aveva un comportamento insensato? La paziente aveva un colloquio qui con noi. L’infermiera non era puntuale, cosi la paziente ha deciso di venire da sola per non arrivare in ritardo all’appuntamento”.
Marsha commenta l’episodio nel libro asserendo che, seguendo il modello di Kernberg, se si dice ad una paziente che sta mostrando aggressività e la paziente lo nega, il terapeuta dice che la paziente sta agendo in maniera inconsapevole. Ma Marsha sa che dopo questo intervento la paziente si arrabbia, sentendosi invalidata e avendo di conseguenza ragione ad arrabbiarsi. Marsha mette in luce quanto potente invece sia la necessità di validare i pazienti, poiché profondamente consapevole che gli ambienti dei pazienti (così come il suo) erano invalidanti e a volte traumaticamente invalidanti e che un approccio terapeutico non potesse riattivare il senso di inadeguatezza nelle persone. Come darle torto?
Dall’altro canto invece una delle critiche mosse alla DBT dal mondo psiconanalitico e in particolare da John Clarkin, riguardava l’assenza nella DBT di un parametro che era al centro della prospettiva psicoanalitica: il concetto di introietto, che possiamo definire come la misura dell’autostima o del rapporto che l’individuo ha con sé stesso. In un certo senso la psicoanalisi l’accusava di non guardare al mondo interno e alla psicologia del profondo dei pazienti.
Marsha attraverso uno studio randomizzato mostrò come la DBT effettuasse una modifica di questo parametro in positivo riscontrando che le pazienti sottoposte a DBT avevano riferito lo sviluppo di un introietto più positivo rispetto a quelli di pazienti di altri trattamenti.
Cosa si potrebbe dire in proposito? Come è possibile che un trattamento che non ha come focus il mondo interno, gli aspetti interpersonali e l’immagine negativa di sé possa produrre risultati di questo genere? Come può il lavoro sulle abilità sociali che la DBT propone aiutare i pazienti a modificare l’immagine di sé? E’ chiaro che, come è evidente nella logica delle attivazioni comportamentali, se aiutiamo il paziente a relazionarsi adeguatamente, se il paziente impara a comunicare i suoi bisogni assertivamente, a regolare le sue emozioni e a calmarsi, di fatto rinforza una immagine di sé sana. O forse scopre di avere immagini di sé che sono sempre state li, di adeguatezza, di forza e di capacità, ma che il paziente non sapeva di avere. Un terapeuta dei nostri giorni forse aiuterebbe maggiormente i pazienti con il BPD (ma non solo con il BPD) ad accedere consapevolmente a queste rappresentazioni di sé andando oltre il concetto di modifica delle abilità comportamentali.
Ad oggi forse possiamo dire che entrambi i commenti fossero veri e che si stanno sviluppando molti approcci in psicoterapia che cercano di contemplare le diverse istanze qui tracciate, senza le quali tuttavia non saremmo arrivati fin qui.