La psichiatria fenomenologica, nel corso del ‘900, ha sempre ricercato un rapporto stretto con la filosofia, ribandendo che è la persona (non il cervello con le sue leggi che “causerebbero” le nostre azioni) il “centro esistenziale” di emozioni, pensieri, fantasie e immaginazioni[1]. È nei suoi “modi di essere”, nei suoi vissuti (non nel comportamento positivisticamente oggettivabile e quantificabile) che la persona esprime, mostra e costruisce i significati e i sensi di ogni suo singolo comportamento, di ogni sua intenzione. L’articolo propone, nell’ottica del sito su cui si scrive, un dialogo tra filosofia e psicologia/psichiatria, con l’obiettivo di riflettere sul rapporto tra “diagnosi clinica” e “storia di vita” di una persona/paziente. A tal fine, la proposta è di investigare/interpretare i due concetti di cui sopra, tramite due dei concetti base della filosofia: essenza (necessità) ed esistenza (possibilità), di quel particolarissimo ente che è l’essere umano. Ripercorreremo, sommariamente, il pensiero e le opere di vari autori e scuole di pensiero; cercando di rintracciare “spunti” e “concetti”[2] per una riflessione sull’attività terapeutica.
In riferimento alla riflessione filosofica[3] parlare di essenza ed esistenza sarebbe veramente molto complesso; e qui, non si vuole intraprendere una riflessione approfondita di tali concetti; sarebbe un lavoro troppo ampio e chi scrive, probabilmente, non possiede le competenze per farlo. Comunque, il problema dell’essere e del suo rapporto con l’esistente è uno dei più antichi e dei più importanti della filosofia[4]; appartiene all’ambito della metafisica e, pur non esaurendolo, ne individua l’aspetto principale e più discusso nell’ontologia. Non esiste praticamente pensatore o sistema filosofico che non prenda posizione su questo argomento. La dialettica tra essenza ed esistenza ha sempre caratterizzato la riflessione filosofica, ponendosi domande come: cosa significa “essenza”? Ma cosa intendiamo per “esistenza?”;in che modo la filosofia ha pensato e pensa il rapporto tra questi concetti?[5]
Iniziamo la nostra riflessione a partire dal Martin Heidegger di “Essere e tempo”[6] e del suo “esistenzialismo”[7]; (riferendosi anche all’edizione italiana a cura di Franco Volpi di “Essere e tempo – 2005”[8]). L’espressione cruciale, di cui Heidegger, è il “da essere” o “aver-da-essere”: “l’essenza dell’esserci consiste nella sua esistenza”. Questo significa che parlando dell’essenza dell’uomo non è possibile, secondo Heidegger, una definizione nel senso indicato da Aristotele: non è possibile fornire un’unica e definitiva risposta alla domanda “che cosa”, per quanto esaustiva possa essere”. Seguendo le parole di Adriano Fabris[9], la riflessione di Heidegger porta ad affermare: “Ciò significa che non si può affatto dire ciò che l’esserci è; una sua “definizione” non è propriamente possibile. Il che cos’è questo ente (l’uomo) si risolve infatti nel suo “come è”, nelle sue diverse modalità di essere. E tali modalità, di volta in volta possibili, debbono essere messe in opera e realizzate, operando uno slittamento concettuale. Se l’essenza consiste nell’”aver-da-essere” (Zu-sein) significa che non può essere intesa come un contenuto stabile che ne permetta la definizione di quell’ente (l’essentia della tradizione); ma indica piuttosto “il dinamismo che contraddistingue l’essere di questo ente privilegiato”. L’esistenza dell’ente uomo non significa semplicemente che “qualcosa è”, il mero sussistere, ma esprime il “poter-essere dell’esserci”. Continua Heidegger[10], la designazione del termine “esistenza” non ha e non può avere il significato ontologico che il termine assume tradizionalmente: una semplice presenza. Questo è un modo di essere estremamente estraneo a un ente che ha il carattere dell’Esserci; perciò, il termine “Esserci”, con cui indichiamo tale ente (la persona), esprime l’essere e non il che-cosa come quando si dice pane, casa, albero: l’essere dell’esserci è diverso dall’essere delle cose che, semplicemente, sono o sussistono. Il carattere di possibilità contraddistingue l’essere dell’uomo rispetto alle cose. Queste riflessioni iniziali ci portano ad affermare, nel caso della “persona” e, nel nostro lavoro nel caso di un “paziente”, il primato dell’esistenza (il vissuto) sull’essenza (per noi: diagnosi nosografica). La “possibilità” (il cambiamento) diviene la categoria fondamentale per provare a chiarire l’essenza dell’uomo, diversa dagli altri enti che incontriamo nel mondo (di cui diamo una definizione “statica”, necessaria); e per tentate un processo terapeutico.
Ben prima della Fenomenologia ci sono stati molti filosofi che hanno approfondito lo studio dell’esistenza ed essenza, quali: Blaise Pascal e Søren Kierkegaard. Scrive Blaise Pascal (1623- 1662)[11]: “Noi conosciamo la verità, non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore”. Il punto di partenza della riflessione di Pascal[12] è l’interrogarsi sul senso della vita; l’uomo avverte il mistero dell’esistenza. Pascal propone una serie di critiche alle possibili risposte (senso comune, scienza, filosofia, fede), che si rivelano inadeguate. Per il nostro discorso non siamo tanto interessati alle critiche che Pascal fa alle varie risposte/tentativi al senso della vita[13]; vogliamo semplicemente segnalare nel pensiero di Pascal (e, se Kierkegaard è il “papà” dell’Esistenzialismo, forse, Pascal ne è il “nonno”) una delle prime “alternative” al dualismo cartesiano. Una prima risposta a quella dicotomia, mai realmente giustificata da Cartesio stesso, che porterà a vedere, soprattutto con la medicina moderna, nella “res extensa” l’antesignana della psichiatria organicistica (Kraepelin, Griensinger): una psichiatria che indica nel cervello il criterio per la diagnosi e per il trattamento della persona-paziente.
L’altro pensatore che utilizzeremo per il nostro lavoro è Søren Kierkegaard (1813-1855); nel “Diario”[14] leggiamo: “…ma l’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al singolo (già Aristotele), essa resta fuori, non coincide con il concetto…per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo l’esistenza (essere o non essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo singolo non ha certo un’esistenza concettuale”. Tra i maggiori critici di Hegel e precursore del moderno esistenzialismo, Kierkegaard sviluppa una riflessione il cui cardine è la rivendicazione dell’importanza del singolo individuo, finito ed esistente “hic et nunc”, contro l’onnicomprensivo e astratto sistema logico hegeliano in cui “tutto ciò che chiamiamo finito non esiste”[15]. Il centro della filosofia è dunque il singolo, per il quale esistere significa scegliere con angoscia fra (tre) grandi possibilità di vita, ciascuna delle quali esclude drasticamente l’altra senza alcuna mediazione dialettica, ma solo con una scelta-salto esistenziale[16]. Per Kierkegaard e, per il futuro Esistenzialismo, l’esistenza (il vissuto del paziente) non è racchiudibile nell’essenza (nella diagnosi); sta fuori dal concetto/definizione (vi è frattura fra realtà e razionalità). Il singolo è la realtà più importante e il filosofo di Copenaghen sottolinea l’importanza del singolo/finito (esistenza/vissuto) contro la totalità/concetto (essenza/diagnosi). La filosofia deve essere “qualcosa” di personale e a-sistematico[17]. Kierkegaard critica una filosofia in cui si perde ogni riferimento all’esistenza dei singoli individui: le essenze-verità (definizioni/classificazioni nosografiche) che valgono per tutti sono scientifiche (necessarie), le verità-vissuti che valgono per me sono personali (possibili). Le verità sono esistenziali, sono una scelta, e per Kierkegaard, la sostanziale coincidenza tra realtà-uomo e razionalità-essenza non è sostenibile; Kierkegaard, sulla scia di Kant, indica una frattura tra esistenza e pensiero, una loro inconciliabilità, il loro stare su due piani differenti[18]: l’esistenza del singolo deve essere analizzata tramite la categoria della possibilità[19]. Dal filosofo di Copenaghen possiamo imparare, per il nostro lavoro, che l’errore dipende dal mettere in primo piano l’esistenza del concetto/essenza (per noi, la definizione nosografica), facendo del finito/uomo e del concreto della sua esistenza/vissuto, solo un’apparenza secondaria (come se, per esempio, una persona depressa fosse solo “una depressione”).
Passiamo alla “fenomenologia”, una delle principali fonti dell’esistenzialismo. Molti dei grandi pensatori esistenzialisti (Sartre e Heidegger) sono stati fenomenologici[20]; la tesi fenomenologica formulata da Husserl parte dal recupero (preso da Brentano) di alcune nozioni della tarda-scolastica, prima fra tutte l’“intenzionalità” (atto con cui la mente si riferisce a qualcosa), se penso ad un oggetto, l’atto con cui la mente si riferisce ad esso è un’intenzione. È vero che Husserl vuole ricollocare tutta la filosofia all’interno della coscienza (attribuendo alla filosofia una veste di assoluta certezza), ma questo non toglie che nell’ambito della coscienza sussista un rapporto di intenzionalità. Quando il soggetto percepisce (che possa corrispondere/no ad un mondo esterno) si crea un rapporto soggetto/oggetto nella coscienza. La fenomenologia cerca di reintegrare nell’intenzionalità (quindi, nella coscienza), ciò che chiama “erlebnis/esperienza vissuta”, l’immediatezza dell’essere-nel-mondo di ogni soggetto (traducendo Erlebnis come “vissuto” o “esperienza vissuta”). Per la fenomenologia anche le emozioni più viscerali e privatissime sono un modo di essere-nel-mondo, un nostro rapporto alle cose: il mio sentimento è intriso fino alle ossa quando, per esempio, amo una donna, la sua unicità è parte del suo essere-oggetto-del-mio-amore. Quanto detto, non vale per la psicologia scientifica, che cerca condizioni causali (necessarie) degli agiti/vissuti; per la psicologia organicistica-sperimentale un insieme di tratti oggettivi sono come le rotelline o le cinghie mentali che fanno sì che, grazie ad un’impressione esterna (uno stimolo), un “animale razionale maschio” dica “la amo!” Per il meccanicismo un oggetto globale è sempre scomponibile in oggetti atomici costituitivi; invece, per la fenomenologia è comprensibile solo l’essere umano (non scomponibile in parti): il solo che è Esserci, che è erlebnis connessa a leben/vita! Il riferimento alla vita è capitale in tutta la fenomenologia, non si tratta della vita però che studia il biologo o lo psicologo sperimentale, come oggetto dello sforzo esplicativo; il mondo della vita (lebenswelt), la vita vissuta e soggettiva che non possono essere oggettivate, che è il modo di vivere di un soggetto in mezzo alle cose, percepite, pensate, immaginate, e persino allucinate (ma, sempre intenzionate). Nella scienza non c’è nulla da comprendere (si cerca solo di capire/spiegare), c’è solo funzionamento; ma, in terapia, anche un delirio è una specificità/possibilità del nostro essere-nel-mondo, un’intenzionalità completamente diversa. Quindi, capita che il terapeuta pensi di trovarsi di fronte ad un “en passe” che infrange il suo (nostro) desiderio di “definizione”; capita che gli agiti di un paziente risultino non “inquadrabili” in una nosografia, che ci portino ad un “qualcosa” di non comprensibile/non definibile: “come spiegare/definire la follia?”. Il problema del fenomenologo è di cercare “dati irriducibili” che stanno sotto ai discorsi/diagnosi, è un voler vedere come stanno le cose/l’ente uomo al di sotto di quello che è comunemente accettato/diagnosticato. Il concetto di “fenomeno” nella fenomenologia non significa apparenza illusoria, ma lasciare apparire (manifestare) la realtà̀ uomo per quello che è; “un tornare alle cose stesse” al di là delle convenzioni, dei pregiudizi. La fenomenologia propone l’epochè (sospensione di giudizio) come il primo passo per liberarsi da quella che gli antichi greci chiamavano doxa/opinione e raggiungere il paziente/persona: andiamo “alle cose stesse!”, dice Husserl, al di là di tutte le interpretazioni-classificazioni di cui siamo imbevuti[21]. Per Husserl, “la soggettività̀ non può essere conosciuta con nessuna scienza oggettiva”[22] e, non può̀ mai essere trattata alla stregua di “una cosa”.
Passiamo all’Esistenzialismo[23], esso rappresenta un movimento culturale molto vasto (ha interessato filosofia, poesia, teatro, pittura, musica); i temi fondamentali sono il senso di solitudine e di incomunicabilità dell’uomo del Novecento che vive drammaticamente la crisi e la caduta dei valori (la caduta del “fondamento”) affermati nell’Ottocento durante il Romanticismo. Originato dalla profonda crisi sociale e politica che contrassegna la situazione dell’Europa tra le due guerre (1919-1939), l’Esistenzialismo vede i suoi maggiori rappresentanti in M. Heidegger (Essere e tempo, 1927), K. Jaspers (la Filosofia, 1932) e Jean P. Sartre (l’Essere e il nulla, 1943).
Si sviluppa sulla scia della grande letteratura della crisi (Dostoevskij, Kafka) e di un nuovo interesse per Kierkegaard, considerato il primo a rivendicare l’esigenza di restituire senso alla singolarità dell’individuo concreto. L’esistenza e la condizione umana vengono evidenziate in tutta la loro crudezza, “finitezza” e “negatività” (imprescindibili gli eventi bellici della Prima Guerra mondiale). L’attenzione si rivolge all’uomo e alla sua effettiva esistenza e al ripudio delle limitazioni che le filosofie razionali e sistematiche (come quella hegeliana e quella positivista) sottopongono all’irripetibilità e unicità della persona: dubbio, scelta, angoscia, nulla, finitezza e morte dell’uomo, ne sono i tratti distintivi. Di Martin Heidegger abbiamo già accennato, diamo ora, qualche informazione su Sarte.
Jean-Paul Sartre (1905-1980)[24] [25] – sulla scia di Husserl, Sartre critica la psicologia contemporanea francese troppo legata ad una visione naturalistica dell’ente uomo, una visione che nega l’emotività e una sua “trascendenza”, riducendola ad un “fatto” empiricamente analizzabile. Per la fenomenologia sartriana, la sfera emotiva va pensata come espressione stessa della coscienza, una sua “forma organizzata” (anche per l’esistenzialista Sartre l’esistenza ha priorità sull’essenza). Per Sartre, emozione e immaginazione sono dimensioni della coscienza attraverso cui il soggetto coglie il suo essere “situato/collocato tra le cose”; da queste cose, in cui l’uomo è immerso, è possibile sempre distaccarsi, perché gli uomini sono liberi di creare una realtà «altra» rispetto al mondo esterno (addirittura per Sartre: “…con l’immaginazione possiamo sia “trascendere” il reale, che negare l’essere stesso”).
A tal proposito, c’è da sottolineare un appunto che Husserl fece al “primo Sartre”[26]; in riferimento alla nota (25), affiorano gli aspetti drammatici della “prima filosofia” sartriana: la coscienza ha per condizione necessaria e assoluta il nulla, nulla che ci svela l’assurdità del mondo esterno, il “nulla” è la condizione stessa d’ogni possibilità e libertà del nostro agire nel mondo[27]. Dopo “Essere e nulla”, Sartre si propose un impegno politico-marxista; a partire dagli anni ’50 cercò aspetti positivi del suo pensiero, rifiutando un’interpretazione negativa o nichilista del suo esistenzialismo; vedendolo come “una filosofia della libertà, seppur di una libertà “in situazione/nella scelta e nell’impegno politico”. Comunque, la libertà per Sartre, rimane la caratteristica fondante degli uomini, anche se non va più intesa come libertà assoluta ma come libertà storicamente condizionata.
Facciamo un breve cenno anche all’italiano Nicola Abbagnano (1901-1990)[28] – egli presenta un esistenzialismo umanistico, inteso come “possibilità etica”. Il filosofo italiano accetta i punti che caratterizzano le filosofie dell’esistenza (l’uomo è instabilità, problematicità, ricerca); ma, conclude che tanto Heidegger, quanto Jaspers, quanto Sartre finiscono nell’implicita negazione della possibilità di quell’esistenza che costituisce il loro problema iniziale[29]. Per evitare di cadere in queste aporie in cui si arrestano le tre filosofie esistenziali citate, dove “l’esistenza si costituirebbe come rapporto con l’essere, solo per realizzare l’impossibilità del rapporto stesso”, Abbagnano propone il suo concetto di esistenza, essa è: “la stessa “possibilità del rapporto con l’essere”, la “possibilità di essere”, “l’essere in quanto possibile”[30].
Passiamo a presentare i punti chiave di alcuna figura appartenente alla prima fase della fenomenologia clinica[31]: Karl Jaspers (1883-1969), Ludwig Binswanger (1881-1966), Eugène Minkowski (1885-1972), Viktor Von Gebsattel (1883-1976). Di Ludwig Binswanger, creatore della Daseinanalyse/analisi dell’esserci, si veda quanto indicato in nota[32]; qua, ci limitiamo a indicare come la proposta di Binswanger possa aiutare la relazione terapeutica, tratteggiandone la dualità come una Noità/Wirheit che si struttura su assi esistensivi (esplicitati nelle categorie: della temporalità, della spazialità, della dualità, dell’emotività, del colore, del significato, etc.). L’obiettivo diventa il cercare l’uomo nella/sullo sfondo della sofferenza/malattia, cercarlo nelle modalità (tempo, spazio, etc.) in cui l’individuo progetta il mondo (valori, significati). In questo senso, l’agire in terapia dovrebbe cercare la costruzione di un dialogo tra l’indicazione nosografica e quegli a-priori esistenziali tramite cui si pone il Dasein con/nella sua fattualità.
Karl Jaspers[33] – il punto di partenza del filosofo di Oldenburg (Bassa Sassonia) si pone sulla scia di Martin Heidegger: l’individuo è “situato nel mondo”; l’esistenza trova la sua essenza nella ricerca di possibili orientamenti nel mondo.
In questa ricerca Jaspers rifiuta una visione scientifica (mai autentica “conoscenza dell’essere”; solo conoscenza particolare/determinata); ma anche una visione filosofica che non riesce nel compito di chiarificare la nostra situazione esistenziale. Per Jaspers, viviamo in “situazioni limite” caratterizzate dalla non chiarezza nell’essenza dell’esistenza. La realtà interrogata ci mette di fronte a queste “situazioni limite” in cui sperimentiamo una sorta di “naufragio” del nostro essere-nel-mondo: le azioni umane sono sempre limitate dal contesto in cui sono inserite. Jaspers si impegna in uno sforzo teoretico finalizzato a restituire alla psichiatria “un quadro sistematico”. Concepisce la fenomenologia come “analisi comprendente”[34]; come un lavoro preparatorio e propedeutico alla ricerca psicopatologica, come una metodica di descrizione di quella classe di fenomeni detti “soggettivi/sintomi” direttamente esperiti dai malati stessi. Siamo, qui, in chiara antitesi con sintomi “oggettivi” misurabili, con i metodi della psicologia sperimentale (sintomi che possono essere immediatamente mostrati/dimostrati e razionalmente compresi da chiunque); i sintomi soggettivi (oggetto di descrizione fenomenologica: paura, tristezza, gioia, narrazioni dei pazienti) possono essere afferrati, dice Jaspers, unicamente in virtù di un atto di compartecipazione (in senso empatico, in quanto Einfühlen) e possono essere portati alla visione interiore non grazie al pensiero ma in forza di una comune esperienza vissuta (Miterleben). In tal modo, Jaspers delinea una duplice modalità d’essere della psicologia/psicopatologia: oggettiva/una forma di psicologia senz’anima (che non può che farsi fisiologia); soggettiva, che diventa “fenomenologia”/manifestazione dell’accadere psichico[35].
Giovane medico[36] Eugène Minkowski, subito dopo la Grande Guerra, in Francia segue il caso di un paziente trasferendosi a casa sua; sarà un caso destinato a segnarne il cammino dello psichiatra. Il paziente di Minkowski viveva nell’attesa di una terribile punizione, immaginando che le autorità francesi lo avrebbero individuato e imprigionato: si attendeva quindi di essere arrestato e giustiziato insieme a moglie e figli in maniera tremenda e grottesca (gli avrebbero messo nel ventre tutti gli scarti, l’immondizia, i detriti che in ogni angolo della Francia si andavano accumulando). Minkowski intuisce che la caratteristica fondamentale di questo paziente è la struttura temporale della sua esperienza; ogni giorno la sua “attesa” per l’inevitabile destino ricomincia e, ogni giorno il paziente lamenta la sua indegnità e si dispone ad attendere un supplizio; ma, ogni giorno l’attesa resta delusa sempre nella convinzione di un suo ennesimo rinvio. Ogni giorno il giovane psichiatra fa notare al paziente come l’esperienza sconfessi continuamente le paure e angosce e, ogni giorno, il giovane medico si scontra con l’impossibilità del paziente di apprendere dall’esperienza; con l’impossibilità di integrare nel proprio vissuto il fatto che la vita possa continuare al di là di quanto previsto. Minkowski ci mostra come il tempo del paziente ha smesso di essere “creazione” ed è divenuto “destino”; ha smesso di essere “novità” ed è divenuto pura “ripetizione”; Minkowski comprende che la struttura temporale dell’esperienza (del paziente) dovrà diventare il filo conduttore di tutta la sua analisi psicopatologica. Sarà questa forma peculiare di temporalità che dovrà fare da guida nella varietà apparentemente disorganizzata dei contenuti, delle immaginazioni, di cui abbonda il deliro del suo paziente. È proprio questa l’indicazione che tutta la psichiatria fenomenologica desume da Minkowski e, qua sta il significato metodologico: “forse, è proprio il disordine che riguarda il nostro atteggiamento nei confronti dell’avvenire (del tempo) il motivo di tanti vissuti come, per esempio, proprio le idee deliranti?”[37].
Tutto si ripete identico e costringe all’angolo anche lo psichiatra; proprio questo “prendere contatto” con un “angolo” così angusto, il simpatizzare con quel “qualcosa” di assolutamente inaggirabile, è l’esperienza e l’indicazione di Minkowski[38]. Quanto detto significa che per Minkowski riportarsi ad una struttura latente di cui ogni formazione ideativa e affettiva è un effetto di superficie/una conseguenza, è “la via” da percorrere nel processo terapeutico. Minkowski definisce il “disturbo generatore” di una certa forma di esperienza psicopatologica, come un “centro” (Bergson la chiamava intuizione) per afferrare idee, preoccupazioni, sentimenti[39] di un’esperienza/vissuto che soffre.
Viktor Von Gebsattel – la storia professionale di Viktor von Gebsattel è abbastanza insolita; è il risultato di una necessità umana prima che lavorativa[40]. Il 30 novembre 1906 un giovane barone discute la sua tesi di dottorato “Sulla psicologia dell’irradiazione dei sentimenti”, con lo scopo di mostrare come i fenomeni intellettuali e affettivi siano assolutamente irriducibili gli uni agli altri; il nostro relazionarsi agli oggetti non costituisce un sentimento vero e proprio, piuttosto è un trovarsi in una certa “intonazione emotiva”. Questa “intonazione emotiva” fa nascere in noi la domanda circa il nome e il senso di quel sentimento rispetto all’oggetto che abbiamo di fronte, rispetto al mondo fuori di noi. Gli oggetti sembra che posseggano un “tono affettivo”: punto di partenza delle nostre sensazioni emotive. Intorno al 1908 von Gebsattel inizia a manifestare interesse per la psicoanalisi (dal 1912 al 1913 frequenta Rilke, Lou Andreas-Salomè, Freud e Ferenczi, consolida la sua amicizia con Max Scheler). Dal 1913 si dedica allo studio della medicina e dal 1915 al 1929 è internista nella clinica psichiatrica di “Assistenzarzt”, sotto la supervisione di Kraepelin. Anche in relazione alla sua esperienza durante la Grande Guerra, von Gebsattel inizia a ritenere possibile l’intersezione del metodo fenomenologico con la psichiatria e, nel novembre del 1922 partecipa al LXIII Congresso della Società Svizzera di Psichiatria che, tradizionalmente segna la data di nascita dell’indirizzo fenomenologico in psichiatria.
Negli anni successivi la sua attività sarà indirizzata al tentativo di comprendere e restituire un senso agli impulsi violenti, alla fobia, alla depressione e alla schizofrenia; nel 1954 nascerà “Prolegomeni di una antropologia medica”[41]. Von Gebsattel vuole recuperare uno sguardo di insieme dell’uomo, cerca di riguadagnarlo (all’interno della psicoterapia) attraverso l’applicazione di elementi antropologici, in chiave fenomenologica.
I tre elementi antropologici di indagine (Sé, persona, personalità) rappresentano le strutture dell’esistente; l’antropologia è la dottrina che ha per oggetto il modo di essere dell’uomo[42]; secondo lo psichiatra tedesco, l’antropologia può contribuire tramite una “più ampia comprensione dell’essere umano”, vedendo (es.) nella nevrosi un “arresto del divenire”, un “blocco” al continuo processo di autorealizzazione verso l’essenza: il farsi persona[43].
Il concetto di persona è oggetto di diverse interpretazioni: per il cosiddetto “pensiero dialogico” (Buber, Rosenzweig, Ebner) la persona è relazionalità, esiste un Io solo perché vi è un Tu con cui dialogare e farsi relazione: in tal senso la relazione precede e fonda la costituzione ontologica della persona. Per altri autori (Scheler, Guardini) la persona non dipende da un Tu che precede il soggetto, bensì essa è assolutamente radicata nell’esperienza (anche se l’importanza della relazione con l’altro è presente), è partendo dal fatto nudo e crudo dell’esistere che la persona può divenire. Von Gebsattel è più vicino a questo secondo modo di interpretare il concetto di persona, divenire persona significa partire dal proprio esistere per evolversi in un orizzonte di senso più ampio che egli chiama personalità: “realizzare il proprio stato di persona in una particolare personalità è il compito fondamentale per ogni essere umano”. Anche in von Gebsattel, come in molti fenomenologhi, molte esperienze di sofferenza come, per esempio quella dell’anancastico[44], l’esperienza del tempo diventa fondamentale e, la mancanza di progettualità e di una dimensione teleologica contraddistingue l’esistere di queste sofferenze[45]. Von Gebsattel scrive un’antropologia dell’angoscia, ponendosi in continuità con autori come Kierkegaard, Scheler, Heidegger e la sopra citata Lebensform anancastica ci introduce alla questione del rapporto fra terapeuta e paziente. Lo psichiatra tedesco vede qualcosa di profondamente sbagliato nella prassi medica che non considera un elementare e immediato stadio simpatetico e una dimensione personale. Nel saggio del 1953 “Il significato delle prassi mediche”, von Gebsattel indica come la relazione terapeutica debba passare “dall’Homme individu, all’ Homme-Personne” (Borgna, 2002, p.130), come l’incontro fra terapeuta e paziente è l’incontro fra esistenze che non solo entrano in dialogo, ma sono dialogo per determinazione ontologica (Gadamer, 2010: Stanghellini, 2017). Kierkegaard scrive nel suo “Diario” che un modo per potersi orientare nell’esistenza è quello di tenere a mente cosa significhi essere uomo, domanda che si affaccia sul panorama delle scienze mediche con estrema problematicità. Il passaggio dall’homo natura all’homo existensia (avvenuto attraverso il lavoro dei fenomenologhi del primo Novecento) è stato un momento fondamentale per interrogarsi sullo statuto epistemologico di psichiatria e psicologia. Il passaggio ulteriore (mai destinato ad esaurirsi) è quello attraverso cui si comprende come nell’homo existensia la “malattia mentale” è una possibile Lebensform attraverso cui l’esistente stesso si declina[46]. Questa Lebensform rappresenta l’unica “indicazione” per poter aiutare il paziente a realizzare il suo progetto di vita, per poterlo aiutare a “esistere come uomo è dunque sempre a qualcosa in più di essere un vivente” (Cargnello, 2010, p.69). La psichiatria di von Gebsattel è “scienza umana” che ricorda il vecchio motto terenziano “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un essere umano, penso che nulla mi sia estraneo”), invitandoci allo sforzo di vedere la “trascendenza” anche dove essa non sembra più trovar dimora
In conclusione possiamo dire che dal desiderio iniziale di proporre una riflessione su concetti come diagnosi clinica, storia di vita di una persona/paziente, essenza (necessità) e esistenza (possibilità), abbiamo fatto emergere numerose “bussole interpretative” e suggestioni utili a tenere vivo e, perché no, anche aperto il discorso.
In particolare il cuore dell’articolo consiste nel far riflettere su quanto le definizioni/classificazioni nosografiche, necessarie senz’altro, possono risultare spesso “forvianti” rispetto ai vissuti personali (una persona depressa, non è “una depressione”). Nella scienza difatti si cerca di capire/spiegare; in terapia, invece, anche un delirio è una possibilità del nostro essere-nel-mondo, che ci rimanda a “dati irriducibili” a una diagnosi.
Dunque, risulta importante comprendere che strutture come la temporalità, a volte, nei pazienti smettono di essere “creazione” e divengono “destino”; smettono di essere “novità” e divengono pura “ripetizione”. Importante è passare all’incontro fra esistenze che dialogano. La psichiatria dovrebbe sforzarsi in questo senso di essere “scienza umana”, invitandoci allo sforzo di vedere la “trascendenza” anche dove essa non sembra più trovar dimora.
Quanto detto si inserisce all’interno di una cornice che vede e ascrive l’attività terapeutica come una “ricerca” continua di senso; come una co-costruzione continua di significati tra due storie di vita che si incontrano.
Insomma, i “vissuti” che dialogano all’interno della relazione terapeutica dovrebbero, alla luce di quanto detto finora, essere compresi/visti all’interno della suddetta categoria della “trascendenza”; cioè, dovrebbero essere sempre “aperti” all’accadere del “nuovo/diverso” e perché no, del “bello”.
[1] https://www.neuroscienze.net/prospettiva-fenomenologica-in-psichiatria/
[2] Che verranno segnati in grassetto, per poterli rintracciare nel lavoro.
[3] https://assets.loescher.it/Risorse/LOE/Public/O_31610/31610/Materiale_Demo/Itinerari_Essere.pdf
[4] https://www.policlic.it/essenza-ed-esistenza-nella-filosofia-contemporanea/
[5] https://www.nilalienum.com/gramsci/0_Treccani/FilosofiaT/Esistenza.html – “…imprescindibile è il richiamo ad Aristotele, il quale è comunemente considerato il fondatore della teoria dell’essenza e della sostanza (passando poi, per i Neoplatonici arabi e Avicenna, creatori della distinzione reale tra essenza ed esistenza e, per la filosofia medievale e il pensiero di Tommaso d’Aquino).
[6] Heidegger, M. (1927) – Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1976.
[7] Si veda https://www.policlic.it/essenza-ed-esistenza-nella-filosofia-contemporanea/: “la distinzione essenza-esistenza è stata utilizzata nella filosofia contemporanea per definire la natura dell’uomo, in un senso che non ha nulla a vedere con le riflessioni precedenti. La scelta è quella di approfondire unicamente alcune proposte di Heidegger, consapevoli del fatto che un articolo non può esaurire l’immensa ricchezza del tema”.
[8] Essere e tempo (2005) – di Franco Volpi – Edizioni assortite.
[9] Nota 3.
[10]Nota 6.
[11] Blaise Pascal – Pensieri – Rusconi libri, 2014.
[12] Abbagnano-Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia
[13] “…distrazione o divertimento/divertissement; princìpi della scienza, con conseguente incapacità di affrontare i problemi esistenziali per le scienze della natura; le risposte della filosofia nelle forme di teologia, di analisi esistenziale, etica”. La conclusione, per Pascal, è che “l’uomo è un mostro incomprensibile, intermedio tra bene e male, sapienza e ignoranza, ecc., impossibile da classificare”; la “risposta/via” unica che il filosofo di Clermont-Ferrand ci propone sono: fede e Cristianesimo.
[14] Søren Kierkegaard – Diario – Edizioni BUR – 2019.
[15] Nota 11.
[16] Ciclo estetico (“Aut aut”, “Timore e tremore”, “Il concetto dell’angoscia”); ciclo filosofico (“Briciole di filosofia”); ciclo religioso (“Esercizio del cristianesimo”, “Discorsi edificanti”) – “L’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al Singolo, come già insegnò Aristotele: essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide col concetto” – (Kierkegaard, Diario).
[17] Anche qua, come in Pascal, Kierkegaard proporrà il superamento della scissione tra finito e infinito, solo con la fede; scissione che non può essere sanata con la ragione; ma, anche qua, per noi come sopra, quello che ci interessa per il nostro discorso sono le categorie dell’esistenza, della singolarità, della possibilità, della non sistematicità/essenza.
[18] Kant sostiene che l’esistenza non può essere considerata una caratteristica di una cosa ma è qualcosa di tutt’altro genere rispetto alle sue caratteristiche: le caratteristiche (l’essenza) mi dicono che cos’è una cosa, come è fatta; l’esistenza mi dice se c’è questa cosa, se cioè esiste.
[19] “…l’esistenza non è un predicato (direbbe Kant); non è un fatto logico/il predicato di un concetto”; “…l’“esistente” non fa parte del suo concetto ma è materia di constatazione” – Così come pensare cento talleri non vuol dire constatare di averli in tasca. Altro è pensare ai talleri, altro è averli in tasca. Si può pensare qualcosa (averne in mente il concetto), senza che questo qualcosa esista come oggetto reale, effettivamente presente: “Qualunque sia il contenuto del nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso, per conferire a questo oggetto l’esistenza.” (Kant)
[20] https://www.filosofico.net/filonovecento.htm
[21] Il paziente analizzato studiato dal chirurgo è un organismo fatto di muscoli, organi ecc., che stanno in precise relazioni tra loro (“per ogni organo c’è una porta/studio in ospedale); ma il paziente-uomo non è solo questo, quando egli entra nello studio del terapeuta, dovrebbe essere visto come persona, come un altro essere umano con cui si entra in relazione; e non come una diagnosi a cui semplicemente “applicare” un protocollo. La psichiatria a un certo punto della sua storia ha preteso di trattare la psiche degli ammalati con le stesse modalità̀ con cui si trattano gli oggetti fisici, facendone una scienza di tipo naturale (quantificando e misurando); questo ha portato una serie di errori che hanno determinato il fallimento della psichiatria.
[22] Husserl, Crisi, p. 353.
[23] https://www.google.com/search?client=safari&rls=en&q=fenomenologia-ontologia-esistenzialismo.pdf
[24] Storia dell’esistenzialismo” (da Kierkegaard a oggi) – Pietro Prini – Edizioni Studium (Roma), 1991 – pp. 185-212.
[25] https://www.treccani.it/enciclopedia/jean-paul-sartre_%28Dizionario-di-filosofia%29/
[26] Storia dell’esistenzialismo” (da Kierkegaard a oggi): “…all’interno della tensione bipolare tra trascendenza dell’Essere e struttura dell’uomo, in quella presenza nascosta in cui s’iscrive la finitezza dell’essere mortale, l’esistenzialismo di Sartre ha rovesciato questo rapporto: l’essere-in-sé non è il “fondamento di senso” o l’essere che è la sua ragione d’essere, ma si rivela come insignificanza e contingenza che oltrepassa la coscienza come suo oggetto intenzionale…”. Sartre sostiene che la funzione della coscienza consiste nell’essere limitata dalle sole cose che percepisce e che proprio in quanto tale va considerata assoluta e indipendente. Al mondo (all’in-sé) Sartre contrappone l’essere libero, temporale, pieno di possibilità rappresentato dalla coscienza (il “per-sé, inteso come intenzionalità del soggetto verso le cose)”.
[27] La volontà di trascendere le cose, di superare la scissione tra noi e il mondo, ci fa scoprire che siamo drammaticamente condannati alla libertà, che siamo spinti a conferire senso alle cose, a non arrenderci all’assurdità del mondo. Il limite dell’uomo, però, è proprio paradossalmente l’impossibilità di spiegare la sua esistenza e il suo essere nel mondo.
[28] Storia dell’esistenzialismo” (da Kierkegaard a oggi) – Pietro Prini – Edizioni Studium (Roma), 1991 – pp. 223-239.
[29] Esistenzialismo positivo, Torino 1948, p.19
[30] Introduzione all’esistenzialismo, Milano 1942; 2° ed., Torino 1947, p.49.
[31] “Storia della fenomenologia clinica” – (le origini, gli sviluppi, la scuola italiana) – a cura di: Aurelio Molaro, Giovanni Stanghellini (prefazione di Louis A. Sass – UTET.
[32] Si rimanda a: https://www.psicologiafenomenologica.it/la-relazione-terapeutica-nella-daseinsanalyse-di-ludwig-binswanger/
[33] “Storia della fenomenologia clinica”, pp.5-28 – Karl Jaspers è una figura unica nel suo genere: “rappresenta la colonna fondante del ragionamento psicopatologico del Novecento”; una figura nella crisi della psichiatria-positivista del secondo Ottocento (di matrice griesingeriano-kraepeliniana). Sulla scorta di fenomenologia husserliana che non resti ancorata ad un senso eidetico, sulla scorta della riflessione diltheyana (capacità “comprensiva” della psicologia) e, sulla scorta della riflessione weberiano-simmeliana (problema dell’oggettività delle scienze umane e della ricerca storica)
[34] “Storia della fenomenologia clinica”, pp.8-10.
[35] “Storia della fenomenologia clinica”, pag.10: “…l’idea jasperiana di fenomenologia rappresenta qualcosa di profondamente diverso da quello inteso da Binswanger (si veda la nota rispetto alla nostra citazione). È comunque possibile delimitare il concetto di “metodo fenomenologico” elaborato da Jaspers nei termini di una comprensione per supposizione, cioè nel rapporto con la persona/paziente ci limiteremmo ad un tentativo di immedesimazione nell’altro. Tutta la fenomenologia, per Jaspers, non può che fondarsi sull’introspezione, ovvero sulla comprensione in quanto Einfuhlen”.
[36] “Storia della fenomenologia clinica”, pp. 69-84: “nato a San Pietroburgo il 17 ottobre 1885 da una famiglia ebrea di origine polacca, dopo essersi iscritto a Medicina di Varsavia, si specializza poi in Neurologia a Zurigo, lavorando fianco a fianco con Ludwig Binswanger e Carl Gustav Jung…”.
[37] Forte è qui il rimando da parte di Minkowski alla struttura temporale proposta nella riflessione bergsoniana: in “Materia e memoria”, Henri Bergson indica la memoria come il segno distintivo del vivente.
[38] Lo psichiatra francese la chiama “diagnosi per intuizione”, “diagnosi per penetrazione”, trasportarsi nell’interno dell’esperienza del paziente.
[39] È in questo senso che il giovane Jaques Lacan recensirà “Il tempo vissuto”, individuandovi una sorta di “strutturalismo ante litteram”.
[40] “Storia della fenomenologia clinica”, p. 85-88.
[41] Nascerà quella prassi clinica che porterà ad un avvicinamento alla compressione del modo di essere dell’uomo. Von Gebsattel si domanda come può lo psichiatra, lo psicologo del profondo, enucleare l’essenza dei comportamenti e delle strutture fondamentali dell’essere umano nella separazione fra salute e malattia? E, il meccanismo della psicoanalisi gli sembra interferire negativamente nella comprensione dei sintomi della malattia. Secondo von Gebsattel la psicologia ha perso il suo tratto più peculiare: la comprensione dell’essere umano come un tutto; questa sua despiritualizzazione (Entgeistigung), non è stata in alcun modo colmato dalla cosiddetta “psicologia del profondo”.
[42] Pur essendo di sapore heideggeriano, il linguaggio e la riflessione di Von Gebsattel riconosce il suo debito filosofico maggiore nei confronti di Scheler e della sua antropologia filosofica.
[43] Il divenire non viene concepito in modo meccanicistico (passaggio da un o stato all’altro), piuttosto come un movimento spirituale e trascendente continuo, nutrito di tensioni, slanci e battute di arresto che spingono l’essere umano a comprendere e divenire chi è.
[44] Incapacità di pensare e agire secondo la propria intenzione.
[45] “…non c’è mai un tempo fatto di tranquillità e distensione, è una continua ripetizione vuota di contenuto; il tempo richiede di essere principato ogni volta, inclinandosi alla ripetizione non procede verso il futuro: il passato ingoia l’esistenza, fissandola nei meccanismi del controllo e della difesa…
[46] Scrive von Gebsattel: “…la malattia non si identifica con il patologico e si può comprendere meglio solo come una modalità esistenziale, un modo di essere nel mondo, un modo di aprirsi e di sottrarsi al mondo (Basaglia, 2017, p.51).
Ottimo testo che manifesta come la riflessione filosofica può entrare nel mondo psicoterapeutico, soprattutto superando una assolutizzazione anche dei concetti,per aprirsi a una metodologia non ideologica,attenta più alle ortodossie che al vissuto delle persone.