La fenomenologia è qualcosa di non compiuto e che non si può compiere, è un compito infinito, come è un compito infinito la verità (…). La verità è un compito che Husserl caratterizza con due parole greche: epoché e telos. La verità è un telos, qualcosa a cui possiamo mirare, non per raggiungerla, ma proprio per evitare tutti i falsi raggiungimenti e le malefedi che ne conseguono
– Pier Aldo Rovatti
Forse ai nostri giorni l’obiettivo non è quello di scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire quello che potremmo essere
– Michele Foucault
L’ambiguità dello psichiatra Franco Basaglia sta nel suo ondeggiare senza sosta tra le passioni teoriche (i riferimenti alla fenomenologia nei suoi scritti sono continui) e le sperimentazioni della pratica. Basaglia “il filosofo” è un attento lettore di Husserl, Sartre, Minkowski, Merleau-Ponty; Basaglia “il rivoluzionario” è uno psichiatra tutto rivolto alle pratiche, strenuo oppositore delle pure astrazioni e delle ideologie assolutistiche.
Come si fa un discorso su Basaglia? Noi leggiamo delle parole, ma Basaglia è tutto rivolto alle pratiche. C’è o non c’è un pensiero di Basaglia?(…) possiamo dire che ha un’intonazione prevalentemente fenomenologica, ma dopo aver usato questa espressione non siamo giunti da nessuna parte, perché far rientrare Basaglia all’interno di una corrente filosofica significare dissanguare, rendere astratta un’esperienza, che è solo in parte un’esperienza di pensiero (Rovatti, 2013).
Per cui, è possibile sintetizzare il pensiero di Basaglia considerando il suo essere un non-pensiero (un pensiero mai compiuto, mai dato una volta per tutte), un pensiero calato necessariamente e dialetticamente nella pratica. Il suo era un teorizzare nella pratica, uno scontrarsi pre-riflessivamente e umanamente nel terreno delle contraddizioni psichiatriche e sociali.
L’ambiguità di cui prima ci condiziona nello sguardo al pensiero di Basaglia: potremo ri-attualizzarlo e quindi abbracciarlo nella sua complessità solo se sapremo sostenere uno sguardo attento alla dialettica che intercorre tra la sua pratica rivoluzionaria e la sua teoria a intonazione prevalentemente fenomenologica. Questa intonazione si fa stile di pensiero in Basaglia e questo stile di pensiero si fa strumento concreto di cambiamento del reale. “La fenomenologia, in Basaglia, funziona quando è una fenomenologia concreta che si applica a qualcosa” (ibidem) e funziona quando, essendo pensiero radicalmente critico del soggetto e sul soggetto si incarna in una praxis mai doma e continuamente attraversata da tensioni e contraddizioni a tutti livelli (psichico, familiare, lavorativo, sociale…).
Il cuore problematico del non-pensiero basagliano, il suo nucleo fondante è evidentemente quello che con Husserl potremmo chiamare “l’enigma della soggettività”, nella sua dimensione interpersonale. La comprensione della malattia mentale o almeno un modo di approcciarsi alternativo (alternativo alla psichiatria riduzionista, organicista e farmacodipendente) a chi vive una sofferenza esistenziale passa dal riconoscimento delle dinamiche di oggettivazione e di soggettivazione tipiche di ogni relazione interpersonale. Ogni rapporto, difatti, implica una definizione dell’Io tramite l’Altro e dell’Altro tramite l’Io. Per dirla con Laing risulta empiricamente naturale come l’identità propria di un soggetto non possa essere mai completamente astratta da quella che è la sua identità per gli altri.
La sua identità propria dipende, in un certo grado, dalla identità che gli altri gli attribuiscono, ma anche dalla identità che egli attribuisce agli altri, e pertanto dall’identità o dalle identità, che egli ritiene che gli altri gli attribuiscano (Laing,1969).
Il riconoscimento, nel pensiero di Basaglia, del terreno pre-riflessivo su cui si costruiscono i Saperi e quindi anche i rapporti di Potere permette alla sua pratica di essere focalizzata sul quella che Benasayag (2004, 2016) definirebbe la liberazione del soggetto come molteplicità contraddittoria. Questa teoria e questa pratica di riconoscimento dell’eccedenza della coscienza (Sartre) nascono dallo studio delle dinamiche di soggettivazione (Leib) e oggettivazione (Korper) tra corpi. Franco Basaglia parte, a tal proposito, dalle riflessioni di Husserl, Sartre e Merleau-Ponty sulla questione del Corpo, inteso come principio ordinante dell’esperienza umana, come la più ambigua e profonda delle percezioni: il corpo contemporaneamente presente e assente, oggetto e soggetto fa appunto dell’esperienza corporea l’esperienza fondante dell’essere umano e contemporaneamente la più fragile. Il corpo è principio di ordinamento che permette, per dirla con Sartre, di distinguere il reale dal possibile e che permette quindi di proiettarsi genuinamente nel proprio divenire. In che relazione sono i corpi dell’operatore psy e del folle? in che modo questa relazione condiziona i Saperi e i Poteri in gioco? Da che tipo di sguardo e distanza è sostenuta la reciprocità intercorrente tra gli attori del discorso psichiatrico?
L’approccio di Basaglia al folle (nella sua irriducibile singolarità) è un approccio che passa dal riconoscimento del ruolo delle dinamiche dialettiche tra la dimensione soggettiva del corpo (Leib) e quella oggettiva (Korper) nella strutturazione di tutte le esperienze umane e quindi anche di quella che solitamente chiamiamo malattia mentale (come discorso della Ragione sulla follia). Le interazioni tra queste due dimensioni dell’esperienza umana sono al centro di quello che prima abbiamo chiamato l’enigma della soggettività; con le parole di Pier Aldo Rovatti: “che enigma sarebbe se tutto fosse tranquillo, se il vissuto avesse uno scorrimento facile e ci fosse da una parte il mondo della soggettività e dall’altra il mondo dell’oggettività?”
Il riconoscimento di questa complessità nelle costruzioni delle soggettività è la premessa teorica del non-pensiero basagliano. Il Corpo come dimensione primaria e pre-riflessiva dell’esperienza è il nucleo attorno al quale si strutturano le sofferenze psichiche e nello specifico quelle esperienze che Basaglia racchiude nelle due grandi famiglie della nevrosi e della psicosi. In entrambi i casi c’è una questione essenziale che riguarda il corpo: il nevrotico è pervaso da emozioni di ansia, vergogna e paura che l’Altro possa invadere o svalutarlo nella sua dimensione essenziale. Nella dimensione della psicosi l’ansia e la paura non hanno più funzione adattiva in quanto la persona si è arresa al fatto che “l’Altro è entrato dentro di te, ti ha invaso, ha preso stabilmente possesso del tuo corpo” (Rovatti, 2013). Per dirla con Sarte “l’esistenza viene prima dell’essenza”, ed è per difendere questa esistenza dall’assalto delle varie essenze e delle varie pratiche di oggettivazione e di riduzione che Basaglia sceglie, nella pratica così come nella teoria, di far propri la giusta distanza e il silenzio produttivo.
Come si costruisce questa soggettività? Sicuramente la si costruisce nel mondo, al centro della trama tessuta dalle varie traiettorie di relazioni in cui siamo immersi. Per cui, l’enigma dell’Altro è chiaramente fondante questa Soggettività. Che ruolo ha l’alterità in questo processo? Che ruolo ha l’alterità dell’operatore psy nella costruzione della soggettività del malato mentale?
L’In sé delle persone, dice Sartre (1971), dipende dallo sguardo dell’Altro mentre il Per sé è un continuo andare oltre, un continuo oltrepassarsi e quindi un continuo non possedere se stessi. “Tu non sai chi sei, l’altro ti vede e sa chi sei, perché nel guardare ti ha bloccato in una oggettivazione, mentre tu da solo non riesci mai a coglierti” (Benasayag, 2004).
L’Altro ci definisce, tende necessariamente a semplificare il reale tramite delle euristiche legate a determinati ruoli (nel nostro caso si fa riferimento alle aspettative circa cosa e chi dovrebbe essere uno psichiatra, uno psicologo, uno psicotico ecc). La soggettività (che sia quella dell’operatore o dal malato non importa) la si costruisce accettando la propria dimensione dell’In sé, ovvero il nostro essere oggetto per gli altri e quindi anche per noi stessi; accettarla significa esserne consapevoli ed esserne consapevoli permette di prendere da essa una certa distanza. Per farlo però dobbiamo, appunto, “introdurre nella nostra esperienza quell’alterità che ogni esperienza ha in sé” (Rovatti, 2013). Per dirla con Franco Rotelli (1988), “il folle è colui che si prende troppo sul serio”, colui che non riesce a costruire questa distanza tra sé e sé. Essere psicologo, padre, figlio, marito, psicotico significa ricoprire un ruolo, indossare una maschera di aspettative sociali (etimologicamente dal greco persona rimanda al termine maschera) e cercare di corrispondere a quelle aspettative. Il non prendersi troppo sul serio di Rotelli potrebbe corrispondere alla possibilità che ognuno di noi ha, come soggettività irriducibile, di prendere la giusta distanza da questa Alterità che è in noi e che inevitabilmente nasce dalla trama delle relazioni interpersonali. Coltivare il Per sé sartriano per Basaglia è una forma di resistenza. E’ molto difficile per una persona diagnosticata come “schizofrenica” o catalogata come “disabile” sottrarsi a questa etichetta. “Al contrario, tutto ciò che riguarda la sua personalità, compreso ciò che non ha nulla a che vedere con la classificazione, sarà arbitrariamente identificato come parte, sintomo o segno di tale classificazione” (Benasayag, 2004). A questo proposito coltivare il Per sé vorrà dire coltivare l’irriducibilità della propria esistenza, difendere il diritto a una certa non-visibilità, ad una particolare forma di opacità esistenziale. Questo strano diritto si lega indissolubilmente alla questione della distanza sollevata da Basaglia e quindi anche al meccanismo della norma-sguardo: è normale ciò che non salta all’occhio, ciò che si confonde perché rispondente alle aspettative della norma stessa. Ad esempio, nessuno considera degno di nota il fatto che il presidente del consiglio italiano sia una persona di sesso maschile eterosessuale, ma grande risonanza invece ha la notizia che la neo-eletta presidente del consiglio serbo sia Ana Brnabić, giovane donna lesbica di 41 anni. Con questo vorrei esemplificare il meccanismo che abbiamo chiamato di sguardo-norma: è normale ciò che non attira lo sguardo, ciò che scorre fluido sotto una superfice prevedibile di aspettative e comportamenti.
L’etichetta induce a credere che, in virtù della classificazione e della diagnosi, si sia reso visibile qualcosa che appartiene all’essenza di una persona e che si trasforma così in essenza visibile (Benasayag, 2004)
Per esempio, lo sguardo posato su una persona in carrozzina è uno sguardo imbarazzato e pudico, in quanto si crede di poter cogliere, solo alla luce di una evidente diversità, il nucleo irriducibile di soggettività di quella persona. Difendersi dal potere disciplinare dello sguardo significa difendersi dalle semplificazioni e dai riduzionismi, e significa vedersi riconosciuta un’autenticità e un’essenza inesplorabile all’Altro, non catturabile e non inquadrabile da nessuno sguardo e sistema disciplinare (psichiatria in primis).
Dobbiamo allora chiederci: cosa sappiamo realmente dell’altro quando conosciamo la sua etichetta? Il problema sta proprio nel fatto che il sapere si confonde con il ciò-che-è-dato-a-vedere (Benasayag, 2004)
Come dicevamo prima, coltivare il Per sé è una forma di consapevolezza e di resistenza: sfuggire all’unidimensionalità patologica creata dal sapere/potere psichiatrico significa essere consapevoli di essere sempre e necessariamente Altro rispetto a ciò-che-è-dato-a-vedere, ovvero rispetto alle etichette socialmente condivise. Quando qualcuno viene riconosciuto dalla comunità di appartenenza come “schizofrenico”, queste etichetta lo rende visibile, ossia determinato in tutto e per tutto da una sguardo normalizzatore: i suoi atteggiamenti, il suo stare al mondo vengono interpretati alla luce dell’incasellamento diagnostico.
Anziché cercare di stabilire un sapere condiviso con la persona in questione, l’etichetta la invalida come soggetto di discorso: altri vedono e sanno al posto suo (Benasayag, 2004)
La rivoluzione basagliana nasce dalla volontà di resistere ai riduzionismi, e questo comporta la necessità di incontrare, su un terreno pre-riflessivo e quindi sgombro da qualsiasi già-dato, le coscienze eccedenti, le molteplicità contradditorie di persone che, nonostante l’innegabile sofferenza psichica, devono poter essere riconosciuti, all’interno delle teorie e delle pratiche di salute mentali, non come oggetti ma come soggetti di discorso.
Come si crea la distanza terapeutica? Fare epoché per Basaglia ha significato dire no alle prassi e alle teorie manicomiali dell’epoca, prenderne distanza e quindi metterle in discussione. Allontanarsi dal si-fa-così-perché-si-è-sempre-fatto-così comporta la presa di coscienza delle dinamiche di soggettivazione e oggettivazione di cui sopra nonché dalla messa in pratica di un certo atteggiamento clinico e politico a intonazione fenomenologica: si tratta di “una sorta di pratica della pausa, del rallentamento, del non affrettarsi a rispondere, a compensare, alleviare, consolare, curare… Tu mi chiedi una cosa e allora te la do subito, ti do quello che mi chiedi e in un modo sempre meno creativo, in un modo sempre più standard. Se invece si introduce una pausa si crea la possibilità di un silenzio produttivo tale per cui si realizzi anche una distanza ironica” (Rovatti). Il silenzio di fronte ai quesiti del folle e la distanza rispetto alla complessità irriducibile della sua soggettività permettono a Franco Basaglia di costruire, concretamente e in maniera dialettica e co-partecipata, un terreno spoglio di acquisizioni date una volta per tutte, e per questo fertile e accogliente rispetto alla creazione di teorie e istituzioni ciclicamente inventate, distrutte e nuovamente inventate (Rotelli, 1988).
Per Basaglia, una comunità è davvero terapeutica quando queste dinamiche così umane di reciproca conferma e quindi di dialettizzazione tra Leib e Korper sono discusse e negoziate in modo tale da rendere possibile il riconoscimento come soggetti di discorso delle persone e quindi la creazione di un terreno di incontri pre-riflessivi tra le stesse. In questa delicata dimensione (che è sostanzialmente la dimensione del desiderio di ogni uomo di esser confermato dagli altri uomini per quello che è e per quello che può divenire) risulta decisivo lo strumento fenomenologico dell’epoché: fare epochè significa chiedersi continuamente, senza sosta, se le teorie e le pratiche da cui crediamo di non poter prescindere siano davvero necessarie. Per dirla con Mario Colucci, leggere il filosofo Basaglia ci permette di domandarci se le situazioni sono situazioni necessarie, incontrovertibili, oppure se si tratta di situazioni storicamente acquisite.
La psichiatria tende a fare di un fatto storico un fatto naturale, e naturale significa necessario. Quando i fatti della psichiatria vengono presentati come naturali, significa che non possono essere modificati, o comunque che sono dei fatti che passano attraverso la scienza, che tende a essere vista come scienza esatta (Colucci, 2001, 2013)
La rivoluzione basagliana è una rivoluzione, quindi, che passa dal riconoscimento di questa complessità intersoggettiva; “se dunque la soggettività umana è l’enigma centrale di ogni scienza, lo studio delle relazioni dell’io col proprio corpo, del corpo come corpo proprio col copro d’altri sarà il centro di ogni indagine psichiatrica perché il “corpo” – nella sua ambigua bipolarità di soggetto-oggetto – gioca un ruolo centrale nel determinismo delle modificazioni strutturali cui si assiste nella patologia mentale” (Basaglia, 2005).
Il riconoscimento dell’importanza delle dinamiche di soggettivazione e oggettivazione nei contesti istituzionali non solo psichiatrici passa, quindi, dalla centralità del grado zero (direbbe Bion) dell’esperienza umana: ovvero dall’esperienza pre-riflessiva del proprio e dell’altrui corpo nel mondo.
Bibliografia
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