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Prospettive di psicologia fenomenologica

Introduzione sul metodo

Nella sua definizione la psicologia fenomenologica è intrinsecamente ossimorica. Sembra addirittura che esistano pochi termini, nell’ambito scientifico e filosofico, così distanti tra loro come “psicologia” e “fenomenologia”. La prima si distingue dalle altre scienze per le descrizioni in terza persona della coscienza e del mentale, mentre la seconda trova la propria specificità nel ritorno alla prima persona e all’esperienza vissuta. La prima, la psicologia, costruisce modelli per spiegare i fenomeni, mentre la seconda, la fenomenologia, si occupa innanzitutto di mettere tra parentesi qualsiasi teoria, per riconoscere, recuperare e comprendere i dati immediati dell’esperienza. Si potrebbe dire che la psicologia è la ricerca di una logica nel campo del vissuto personale (logos), mentre la fenomenologia è innanzitutto un metodo per entrare in contatto diretto con l’immediatezza di quello stesso vissuto (pathos). Un medesimo campo d’indagine quindi, quello della soggettività con le sue infinite sfumature, per due tipi di conoscenza all’apparenza quasi contrapposti.

Eppure, a ben guardare, dall’integrazione tra queste due discipline emergono innumerevoli e fruttuose possibilità, in gran parte ancora inesplorate. Potersi immergere nella incandescente pienezza del vissuto e poterne allo stesso tempo prendere distanza, quando necessario, attraverso la costruzione di una teoria che orienti il proprio agire, è quanto di più importante per uno psicologo, sia che spenda il proprio sapere nel campo della ricerca sia che si dedichi al cambiamento di quegli innumerevoli contesti che sono il luogo della sua pratica professionale.

A ben vedere però, in contesti per certi versi diversi da quelli della psicologia fenomenologica, si è già tentato in vari modi di percorrere quella strada borderline al confine tra prassi e teoria. Basti pensare, solo per fare due illustri esempi, a Lewin e al suo modello della ricerca-azione (1935, 2005) e al ruolo dell’osservatore partecipante nell’antropologia culturale di Malinkowski (1922).

Quale è quindi la specificità di una psicologia che si definisca fenomenologica? Innanzitutto, un metodo disciplinato, quello fenomenologico appunto, che si configura come una “scienza rigorosa” (Strenge Wissenschaft) (Husserl, 1912, trad. it., p. 68) e una filosofia prima per l’accesso all’esperienza immediata e per la sua condivisione (Armezzani, 1998). La differenza rispetto al metodo empirico delle scienze hard sta nel riferimento costante alla prima e alla seconda persona come mezzi cui affidarsi per costruire la propria visione e dirigere la propria azione. Essere fenomenologi vuol dire chiedersi continuamente “cosa sto sentendo in questo momento?”, “cosa provo per questa persona?” o ancora “come sto in questo gruppo?”. Occorre far emergere innanzitutto, come primo passo, il proprio personale punto di osservazione sul mondo con tutti i suoi pregiudizi. In secondo luogo, la psicologia fenomenologica porta con sé la consapevolezza di non poter fare a meno di una teoria che funga da bussola. Quest’ultima, tuttavia, può essere messa all’opera purché si sia sempre pronti a neutralizzarla, a modificarla e a superarla, attraverso l’epoché il ritorno, come degli eterni debuttanti, al dato originario dell’esperienza e al dialogo continuo con l’alterità (Stanghellini, 2017). Dal fenomeno en plain air alla riflessione teorica e ritorno: questo circolo virtuoso, che si costituisce come una oscillazione costante tra il flusso dell’esperienza immediata e i costrutti attraverso cui lo ordiniamo, è il percorso uroborico della psicologia fenomenologica.

Un tale modo di procedere pretende una continua disponibilità, non certo indolore, ad essere messi in discussione: in primis dai fenomeni, poi dai colleghi, dai professionisti di altre discipline, dai pazienti e persino da sé stessi. C’è da far propria una sorta di vocazione alla crisi per acquisire un tale metodo, ma se ne guadagna certamente in termini di crescita personale e di apertura al mondo. Scendiamo in campo consapevoli dei nostri pregiudizi, li poniamo dinanzi alla prova dell’esperienza, e infine li mettiamo in discussione, uno ad uno, senza escluderne nessuno, certi che, come i guerrieri saiyan di un famoso manga degli anni Ottanta, dalla sconfitta e dal naufragio verremo fuori più forti. È questo che rende possibile affinare le nostre conoscenze e le nostre prassi, aumentando le possibilità di incontro con l’alterità, orizzonte verso cui ci muoviamo in quanto psicologi. È questo modo di fare a costituire il cuore pulsante del metodo della psicologia fenomenologica.

Oltre a ciò, ad essere tipica della psicologia fenomenologia è una certa familiarità con la riflessione filosofica e con le altre discipline (la psicopatologia, le neuroscienze e la letteratura in primis). Se lo scopo della ricerca psicologica, infatti, non è il rispetto ossequioso di certi rigidi canoni di scientificità (Armezzani, 2004), ma la comprensione di cosa sia l’essere umano nella sua essenzialità (insieme alla costruzione di un sistema di valori capace di orientare la sua crescita), allora non è tanto necessario produrre protocolli standardizzati e riproducibili quanto imparare ad abitare il mondo dell’intersoggettività in un modo etico e responsabile.

Nel panorama italiano una visione di questo tipo è sempre stata sui generis rispetto al mainstream della psicologia, ma inizia oggi ad assumere una propria forma stabile, coagulandosi attorno ad alcune personalità, centri universitari e scuole di specializzazione, che fungono da attrattori per quel “gregge di pecore nere” (per usare una felice espressione di Maria Armezzani) che sono gli psicologi interessati alla fenomenologia. Dal dialogo tra questi gruppi, forse ancora troppo poco riconoscibili, inizia finalmente ad emergere un terreno comune, spendibile nei diversi contesti applicativi della psicologia. In questa sede vorrei soffermarmi brevemente su cinque prospettive, che sono sia dei punti di vista sia delle direzioni di sviluppo della psicologia fenomenologica: la psicologia della corporeità, la psicologia dei gruppi, la psicologia di comunità, la valutazione psicologica e la psicologia dello sport.

 

La psicologia fenomenologica della corporeità

In primo luogo, la fenomenologia porta con sé un approccio nuovo alla corporeità, estraneo alle neuroscienze e alla maggior parte delle altre scienze. La fenomenologia della corporeità, inaugurata da Husserl (1912) con la distinzione tra Leib e Körper e portata avanti da Scheler (1954-1997), Sartre 1943) e Merleau-Ponty (1945) fino alle attuali formulazioni di Giovanni Stanghellini (2016, 2018, 2020, 2022) e di Thomas Fuchs (Bizzari, Vanacore, 2021; Fuchs, 2020), è pronta a render pienamente conto del ruolo del corpo vivo nello sviluppo e nell’organizzazione del campo psicologico. È da oltre un secolo che la psicologia si confronta con gli insolubili dilemmi del dualismo cartesiano (Damasio, 1995). Ad oggi, la psicologia può finalmente sposare senza remore il cosiddetto paradigma dell’Embodiment (della Gatta, Salerno, 2018), riconoscendo nel Mind-Body Problemun falso problema nato da un’errata concezione disincarnata della mente (Hana, Thompson, 2003).

Il corpo vivo della psicologia fenomenologica, con la sua intrinseca duplicità di corpo esperiente ed organismo (Fuchs, 2021), dischiude infatti un orizzonte nuovo rispetto a quello cui ci hanno abituato la medicina e le neuroscienze, caratterizzato dall’esplorazione soggettiva ed intersoggettiva dei vissuti, condotta allo scopo di individuare quelle strutture invarianti che costituiscono l’essenza del corpo-soggetto e dell’incontro corpo-a-corpo (Vanacore, Di Petta, Tittarelli, 2021). Ancora da approfondire sono, per esempio, i rapporti che il corpo vivo intrattiene con il dominio emotivo, con quello immaginativo e con quello cognitivo. In che modo il mio essere il corpo che sono influenza le mie emozioni, il mio mondo immaginativo e il flusso dei miei pensieri? Se facessi esperienza di un corpo diverso da quello cui sono abituato cosa cambierebbe? È possibile modificare il mio modo di stare in rapporto con il mio corpo? Un approfondimento di tali ambiti configura uno spazio di ricerca, già in gran parte inaugurato, che potremmo definire psicologia fenomenologica del corpo. A far da punto di riferimento in questo ambito saranno sicuramente gli studi di Stanghellini sull’informe (2020a, 2022) e sul corpo-per-l’altro (Esposito, Stanghellini, 2020), insieme a quelli di Fuchs sulla Embodied Mind (2019, 2020) e sulla memoria corporea (2018). Anche il ritorno a fenomenologi classici del calibro di Max Scheler, Erwin Straus e Bin Kimura, che hanno sempre posto il Leib al centro delle proprie riflessioni, risulterà indispensabile.

Una psicologia della corporeità di questo tipo apre in psicopatologia uno spazio di ricerca nuovo sulle varie forme di esistenza (Daseinsgestalt) e sulle loro traiettorie evolutive, e nella clinica potrà forse esprimere tutte le proprie potenzialità attraverso l’integrazione della fenomenologia con la psicoterapia corporea e con le cosiddette pratiche dell’Embodiment (Behnke, 1988; Hanna, 1979, Jonhson, 1995). Molti metodi di consapevolezza corporea, dal Feldenkreis alla Mindfulness, per esempio, possono essere messi all’opera in una cornice fenomenologica, non solo per la cura di quelle patologie cosiddette psicosomatiche (nelle quali il peso del corpo sulla sintomatologia e sulla sofferenza personale è fin troppo scontato) ma anche per la costruzione di una psicoterapia a mediazione corporea di quelle configurazioni psicopatologiche all’apparenza solo tangenzialmente toccate da problemi che riguardano il corpo, ma che in realtà affondano sempre le radici nel Leib e nella sua relazione dinamica con il mondo-ambiente. Come recentemente affermato, infatti, “questa prospettiva enattiva ed incarnata è foriera di una portata rivoluzionaria sul piano di una inedita ricomprensione della cura dei mental disorders” (Di Petta, 2021).

Lungo questa direzione, che è psicopatologica ma anche clinica, è ormai evidente che sarà necessario rafforzare il dialogo tra la fenomenologia e le scienze cognitive che sempre più si orientano, anche nella clinica, verso il corpo (anche se solitamente verso il corpo-oggetto). Partendo da una “concezione che unisce la fenomenologia in prima persona del corpo vissuto con un approccio sistemico fornito sia dall’enattivismo che dalla psicologia ecologica” (Fuchs, 2021, p. 48) è possibile avvicinarsi, senza il timore di smarrire la propria identità epistemologica ed antropologica, ad approcci clinici orientati al corpo come la psicoterapia della Gestalt (Kepner, 1993), la psicoterapia sensomotoria (Ogden et al., 2012), le psicoterapie metacognitiva interpersonale (Di Maggio et al., 2019) e la bionergetica (Salerno, 2020).

 

La psicologia fenomenologica dei gruppi

In secondo luogo, è la psicologia dei gruppi a poter sviluppare una teoria e una prassi nuove, fondate sulla gruppoanalisi dell’esserci (Gruppendasainsanalyse). Questo tipo di gruppo, nato in Italia con Gilberto Di Petta come esperienza di cura per persone tossicomani, declina già la psicologia fenomenologico-esistenziale come terapia in un contesto gruppale (Di Petta, 2006a, 2006b; Di Petta, Tittarelli, 2019, 2020), ed è pronto ad essere speso in altri ambiti clinici e formativi. Il focus di questo gruppo è l’incontro corpo-a-corpo, l’espressione e la condivisione emotiva, in una visione radicalmente embodied di coinvolgimento in prima persona del terapeuta. Quest’ultimo, più che conduttore si fa uomo tra gli uomini, come una sorta di primus inter pares, disposto ad esserci in prima persona con tutta la propria presenza corporea, con tutta la propria storia e con tutto il proprio vissuto (Di Petta, 2006b).

L’idea centrale alla base di questo gruppo è che ogni individuo abbia la possibilità di accedere al fondo patico dell’esistenza (Masullo, 2003; Kimura, 2013) e che il contatto con questa dimensione, sensoriale e preriflessiva, sia il dispositivo centrale di ogni cura in campo psicopatologico. Questo diventa quindi l’unico vero scopo del gruppo: l’incontro con l’alterità, con quella che abita fuori di noi ma anche con quella che abita in noi, in un’atmosfera di riconoscimento, condivisione e coabitazione dello spazio e del tempo.

Sebbene in varie realtà la gruppoanalisi dell’esserci inizi ad essere impiegata con una certa costanza (Di Petta, Tittarelli, 2020), ancora troppo poche sono le testimonianze a tal proposito. A partire da queste esperienze sarà forse possibile iniziare a pensare ad una psicologia dei gruppi capace di rifondarsi su un terreno fenomenologico. In questo ambito, seguendo le idee di Di Petta sarà necessario spingersi verso la costruzione di una psicologia in grado di differenziarsi da quella di Bion, di Rogers e di Berne, che metta al centro il processo spontaneo di risonanza intercorporea ed emotiva che tiene insieme ogni gruppo umano (Vanacore, Di Petta, Tittarelli, 2021). Le potenzialità di una psicologia fenomenologica gruppale sono ancora tutte da esplorare. Un gruppo di questo tipo sembra essere, per esempio, particolarmente adatto alla cura delle psicosi e dei cosiddetti disturbi di personalità nel contesto delle comunità terapeutiche. Proviamo a continuare quindi in questa direzione il nostro ragionamento.

 

La psicologia fenomenologica in salute mentale e nelle comunità terapeutiche

Dal punto di vista storico in Italia è stato il movimento basagliano a farsi carico di rinnovare, ormai più di quarant’anni fa, il sistema di cura della salute mentale, spingendolo verso la de-istituzionalizzazione e la de-medicalizzazione dei servizi. Da allora molte nuove prassi sono nate con l’idea di restituire soggettività e diritti al malato di mente, considerato, sin dai tempi della stultifera navis, un uomo pericoloso da cui la società doveva difendersi (Foucault, 1972), piuttosto che un’esistenza mancata (forse meglio sventurata?) e alla deriva alla ricerca del proprio posto come chiunque si muova nel limbo di questo nostro mondo.

Nonostante gli importanti passi in avanti fatti dall’epoca dei manicomi fino ad oggi (soprattutto nel restituire diritto di cittadinanza al paziente psichiatrico), sono in molti coloro che ritengono che qualcosa nel complesso meccanismo di rinnovamento avviato da Basaglia si sia inceppato e debba essere migliorato. È impossibile non riconoscere il problema della nascita di nuove forme di cronicità (Correale, Pontalti, 2017), così come il problema dell’uso, a volte indiscriminato, della farmacoterapia a mo’ di manicomio chimico (Cipriano, 2015). Sebbene qualcosa sia stato fatto, quindi, ancora molto resta da fare, in un ambito così pieno di contraddizioni e di possibilità come quello della salute mentale.

Ciò che in qualche modo sembra essere mancato al movimento della legge 180 è forse un pensiero clinico in grado di porre la psicoterapia al cuore del processo di cura. È ormai tempo di prender atto che non è sufficiente evitare la cosiddetta malattia istituzionale (Basaglia 1967; Molaro, 2018), né restituire diritti e libertà, per navigare il mare magnum della malattia mentale. Neppure tentare solo di reinserire in società chi da essa è stato violentemente espulso è sufficiente. Queste sono condizioni necessarie ma non sufficienti alla cura. Occorre un pensiero clinico “dallo sguardo lungo”, che consenta di riconoscere le varie forme di malattia mentale nelle loro infinite sfumature, portandone alla luce le carenze strutturali. Ripercorrere a ritroso il percorso di Basaglia, rivalorizzandone le radici fenomenologiche può forse essere una via possibile a questo scopo. Da un lato la psicopatologia fenomenologica può infatti fornire quella conoscenza eidetico-strutturale, colta e dettagliata, delle varie forme che la malattia mentale assume, mentre dall’altra una psicoterapia fenomenologica (e perché no body-oriented coerentemente con quanto finora affermato) può assumersi il compito della cura personale, ripartendo dal dialogo uomo ad uomo per ricostruire un ponte con chi ha abbandonato ogni contatto con il mondo.

Oltre a costituire la base di una psicoterapia fenomenologica ‘psicopatologicamente informata’ è nell’ambito delle comunità terapeutiche (Malinconico, Prezioso, 2015), piccole, aperte e diffuse sul territorio, che la psicologia fenomenologica può portare avanti la pars costruens di quel percorso rivoluzionario iniziato in Italia con la legge 180. Una proposta iniziale e solo parziale in questa direzione può essere quella di utilizzare in maniera consapevole e strategicamente orientata tutti quei dispositivi di cura che si dispiegano lungo il continuum vitalità-regole (Salerno, 2021). Ogni comunità si autorganizza attorno ad un certo equilibrio dinamico tra le polarità dell’ordine e del disordine. Essere in grado di aprirsi o strutturarsi è una condizione necessaria ad ogni comunità per costituirsi non solo come un luogo protetto ma anche come spazio di crescita per le persone che la abitano. Per farlo in maniera consapevole, oltre ad adeguati spazi di supervisione e di riflessione con l’equipe, è utile una psicologia fenomenologica in grado di leggere le relazioni interpersonali in una cornice di questo tipo. La fenomenologia porta infatti con sé una visione dell’uomo e della sua cura che mette al centro proprio la contraddittorietà dell’essere umano nel suo duplice bisogno di un ordine che lo contenga e di un disordine vitalizzante, alla ricerca incessante di una forma, momentanea ed instabile, per la propria identità. Nella sua ossimorica definizione, la psicologia fenomenologica è proprio questo: un tentativo di costruire uno sguardo capace di tenere insieme l’ordine e il disordine dell’esistenza. E anche qui, al cuore della terapia di comunità, torna il discorso fenomenologico sulla corporeità:

“Con il nuovo paradigma embodied è come se si passasse da una marcatura ad uomo ad una marcatura a zona. La partita si svolge con il coinvolgimento di più attori simultaneamente, ovvero di una squadra e di un campo, non più di un palleggio solitario contro il muro o di uno scambio di passaggi a due. Cosa c’è di più consono di questa impostazione per una prospettiva territoriale o di comunità?” (Di Petta, 2021).

 

La psicologia fenomenologica nella valutazione psicologica

Un altro campo su cui la psicologia fenomenologica soffia il proprio vento sovversivo e rivoluzionario è quello della valutazione psicologica, da sempre appannaggio specifico degli psicologi. Il paradigma storicamente dominante fino ad oggi nella psicodiagnostica è stato quello psicometrico, che pretende di rendere misurabile ciò che misurabile non è: la soggettività incarnata di un essere umano. Allo scopo di far ammettere la psicologia nel pantheon delle discipline scientifiche, infatti, la psicometria ha fatto violenza al proprio stesso oggetto di studio (che è poi un soggetto), forzandolo dentro le maglie troppo strette dei criteri scientifici della validità, della attendibilità e della neutralità dell’osservatore. Sottoposti al giudizio di un “tribunale naturalistico” di questo tipo gli psicologi hanno abbandonato la strada dell’incandescente verità dell’incontro per rintanarsi al riparo di dati, formule, scale e cut-off (Armezzani, 2004).  Molto più semplice parlare in questi termini quando si è una disciplina nata da poco, in una fase di scienza straordinaria (Kuhn, 1962), e si è presi dall’insicurezza e da un bisogno identitario di riconoscimento. Il risultato però è stato che nel campo della valutazione tutta la psicologia ha abbassato il capo davanti alla “santa inquisizione degli psicometristi” (Armezzani, 2004), rifuggendo dalle felici contaminazioni con altri saperi e dalla ricerca di una propria specificità. Proseguendo sulla strada aperta da Maria Armezzani e da alcuni costruttivisti (2003), la psicologia fenomenologica può invece affidarsi alla creatività individuale e all’intuizione, facendone momenti fondamentali del processo valutativo, senza per questo rinunciare a nulla in termini di rigore e di scientificità.

È chiaro che molti dei test quantitativi costruiti finora hanno vita breve in una prospettiva di questo tipo. Dal punto di vista della psicologia fenomenologica sono i cosiddetti “test proiettivi” a risultare più efficaci nel cogliere quelle metamorfiche dimensioni dell’esistenza che interessano lo psicologo, quale che sia il luogo nel quale si trovi ad operare. Sebbene dal punto di vista fenomenologico questi test abbiano in verità ben poco di proiettivo (poiché per l’epistemologia dell’intersoggettività non esiste mai una realtà oggettiva sulla quale proiettare qualcosa di mentale, ma la realtà stessa è una co-costruzione emergente dall’interazione soggetto-mondo), essi risultano i più adatti ad un approfondimento qualitativo, capace di disvelare i significati personali e le strutture di senso attraverso le quali ogni persona intenziona il mondo. Il metodo Rorschach (Armezzani, 2016) e il Test della Figura Umana (Ariano, Farace, 2010) si dimostrano entrambi, ad esempio, utili strumenti di conoscenza per lo psicodiagnosta fenomenologicamente orientato, che piuttosto che andare alla ricerca di risultati incontrovertibili ha sempre come proprio orizzonte l’incontro con l’Altro in un’ottica strutturale di comprensione prima che di spiegazione. Entrambi questi test potrebbero essere utilizzati per approfondire le nostre conoscenze sui rapporti tra schemi corporei tipici in certe forme d’esistenza. Così, ancora una volta, il discorso sull’embodiment che sembrava uscito dalla finestra, rientra dalla porta principale.

 

La psicologia fenomenologica nello sport

Non resta che render conto della prospettiva della psicologia fenomenologica nell’ambito dello sport. In questo campo di studi è dalle intersezioni con la Embodied Cognition che nascono le più interessanti possibilità di applicazione della psicologia fenomenologica (Cappuccio, 2019). Anche qui, da una teoria disincarnata dell’uomo (mente-cervello), infatti, gli psicologi dello sport stanno lentamente passando ad una antropologia radicalmente embodied (corpo-mondo). Questo processo di trasformazione paradigmatica appare ormai irreversibile. Nozioni come quelle di schema corporeo, intelligenza incarnata, memoria corporea, intenzionalità operativa, Mutual Incorporation, di chiara derivazione fenomenologica, iniziano ad essere impiegate sia nell’ambito della ricerca che in quelli più applicativi. In questo modo è lo sport stesso ad apparire in una nuova luce come una pratica del corpo deputata allo sviluppo dell’embodiment in una situazione competitiva (Salerno, in press). È tutta la psicologia dello sport ad essere investita da una luce nuova: nel campo della ricerca di base con l’attenzione molto più concentrata sul movimento, sull’equilibrio e sulla loro dimensione intercorporea, fino ad arrivare agli ambiti applicativi più concreti, nei quali alle pratiche di consapevolezza incarnata come la Mindfulness (Gregucci et al., 2015) e le tecniche di Motor Imagery (Gramaccioni, 2006; Kim et al., 2017) si affianca l’uso di un nuovo approccio alla valutazione e all’intervento.

Attraverso una sorta di ricorporalizzazione dell’interazione e del gioco, anche la psicologia dello sport, con tutte le sue indispensabili declinazioni pedagogiche, trova quindi nella fenomenologia un terreno fertile su cui rifondare la propria visione e le proprie prassi.

 

Conclusioni

Queste sono solo alcune delle prospettive verso cui si la psicologia fenomenologica si muove in questi nostri anni di distanze e di pandemia. Per concludere vorrei mettere in evidenza due caratteristiche “ottiche” della psicologia fenomenologica.

In primo luogo, come in una sorta di multicolore spettro della luce, ognuna delle prospettive descritte sembra sfumare l’una nell’altra senza alcuna soluzione di continuità. Ciò significa che per la psicologia fenomenologica non esiste tanto un sapere specialistico che si concentra su un piccolo spazio d’analisi e di intervento frammentando la scienza in un sapere parcellizzato e riduzionistico, quanto piuttosto un’unica psicologia in grado di rivolgersi ai fenomeni e all’essere umano in una visione olistica e globale. Risalendo a ritroso la direzione della luce fenomenologica (Calvi, Colavero 2019), verso il luogo d’intersezione da cui originano le diverse prospettive cui abbiamo qui accennato, è possibile forse immaginare un unico sguardo, quello della psicologia fenomenologica appunto, che si configura come un prisma al cui centro sta il corpo vivo con tutta la sua imprescindibile centralità.

Infine, quello della psicologia fenomenologica sembra uno sguardo “dalla vista binoculare” come lo ha definito Stanghellini (2018), che mantiene un occhio su di sé e uno sull’Altro, in una visione radicalmente relazionale. Uno sguardo di questo tipo tiene insieme l’osservatore con i suoi processi conoscitivi e l’alterità che gli si pone davanti, alla ricerca di quello spazio intersoggettivo, definito Aida da Kimura Bin (2013), che si costruisce nel dialogo e che consente all’Io e al Tu di scoprirsi e costituirsi reciprocamente.

Il presente articolo non vuole certo essere un discorso esaustivo, quanto piuttosto uno stimolo alla definizione, alla costruzione e alla adozione di uno sguardo proprio per la psicologia fenomenologica.  Tutto lo sforzo necessario per tenere insieme psicologia e fenomenologia, teoria e prassi, pensiero e vissuto, come abbiamo cercato di mostrare, viene ripagato dalla pienezza di una visione non riduzionistica sui fatti dell’esistenza umana, in grado di farsi carico della sfida della complessità (Ceruti, 1985), non soltanto nel campo della clinica (che forse però resta pur sempre il luogo d’elezione delle sue pratiche). Un percorso certamente ambizioso per gli psicologi, da molte parti ormai attivamente sostenuto, che rappresenterà per molti anni a venire uno stimolo alla riflessione e alla crescita.

 

 

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Giuseppe Salerno

Psicologo e psicoterapeuta ad orientamento fenomenologico, esperto in psicodiagnostica, diplomato in psicoterapia integrata a Napoli e in psicoterapia fenomenologico-dinamica a Firenze. Coordinatore della Cooperatariva Sociale Agape che si occupa di salute mentale a Salerno, ed editor in chief del blog psicologiafenomenologica.it. Socio fondatore della Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica. Attualmente lavora a Salerno come terapeuta individuale, di coppia e familiare.

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